Le prose di Bianca Laura Saibante Vannetti/Novella VIII
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Novella VII | Novella IX | ► |
Novella VIII
Letta in Accademia a’ 31 d’Agosto 1751, Sotto il Reggimento di Messer Ottone.
Messer Agiatissimo, che io v’amo tanto quanto il maggiore de’ miei Fratelli, leggiadro caso m’è accaduto, che quasi a me stessa nol crederei, se non che io ne fui testimonia, e perciò in coscienza sono tenuta di credermi, e poi vedete che s’io a me da me non presto fede, quali inconvenienti nascer ponno. Stendete dunque gli orecchi acuti benbenone, ed intanto ch’egli m’è venuto alla mente fresco fresco, lasciate ch’io vel narri. Voi il mio costume ben sapete, che soglio, quando a me piace, tutta sola starmi in camera, e quando non, da quella uscire, e talvolta dormire, e se la faccenda non mi garba, il più delle fiate vegliare, e dar di piglio a’ donneschi lavori, ora l’ago ed ora il fuso volteggiando, e talor, annojata di questi piatti, ricorrere ad altre vivande, cioè ad alcuno di que’ libricciuoli che appo l’Agiata mia persona pacificamente tutti polverosi dormono. Eziandio alla penna con tre dita m’accosto e questa, se non ha voglia di schiccherare, come vorrei, fo come sua Signoria vuole, e ciò per non piatire, che ogni litigio hollo od almeno vorrei averlo, per sempre da me sbandeggiato, che più dell’oro io soglio estimar la pace e quiete dell’animo. Ora appunto mentre che, per iscrivere, alla medesima un giorno m’appressai, ecco che odo un certo cicaleccio, che Iddio glielo perdoni. Da prima io stetti ritta ritta ad origliare chi mai fossero le persone litiganti; ma da sezzo, fattami più d’appresso al mio tavolino, udij - cosa veramente ridevole per chi avesse mille miglia di lontano cacciato in bando il riso - che la penna mia altercava col calamajo, perché da sé rimuoverla e’ tentava. Diceva egli quel parolajo del mio calamajo: «Va’ via di qua indiscreta, e non vedi tu ch’io sono arso e distrutto? e che ombra d’umore, non che umore, in me più non evvi? or sarai contenta, che nulla più da me trar non ti resta; ma perciò vittoria non ti creder a un bel bisogno di riportare, che s’io secco per te sono, affè, che tu ancora senza di me d’ora innanzi maghera e smunta come una vecchierella vo’ che diventi, per la qual cosa ti sarà forza di starti ne’ cantucci delle scopature, onde dalla Donna nostra con tuo rimorso e vergogna eterna sarai gettata. Qui ti so dir io che del povero calamajo ti sovverrà, e se le parole per soverchio dolore non ti mancheranno in bocca, dirai talora: “Oh foss’io stata più discreta almeno, che qui ora non sarei”». Volea più seguir a dire egli, quando la penna, ristucca di sì lunga diceria, lo interruppe modestamente così dicendo: «Il soverchio caldo, fratello, e non io, fu che tutto delle vene l’umor ti trasse; or se dico vero, la Donna mia, che tutti e duoi ci ascolta, ne sia giudice, e poscia a chi di noi si ha il torto ce lo dica col malanno, che sono contentissima». Io allora composto il viso tra il serio ed il piacevole, seduta sopra la sedia mia, con un tuono di voce alquanto più forte che non ebbe già quel castron di Messer Niccola il Giudice sbracato, rivolta al calamajo così gli dissi: «O tu, che sì alta guerra movesti alla Penna tua sorella, sappi che di queste tue sciagure la meno parte ne ha; ben io holla intieramente, che quando ghiribizzo mi viene di malmenare col tempo la povera carta, la fo fare a modo mio, tutte ricercandoti le vene, collo spremerti quel po’ di succo che in esse per avventura ti scorreva. Laonde a torto la condanni, e poi pongasi il caso che ragione stia per te, credi tu che senza lei saresti quello che tu ora sei? mai no, che anzi nel sempiterno obblio con infiniti altri scioperati calamaj ti converrebbe assonnare, ove poco o nulla ti gioverebbe l’essere pieno zeppo d’umori, e saresti come que’ sotterranei fiumi che, per nascoste vie d’umor gonfi e spumanti, al mare sen vanno, e là si perdono senza che all’occhio uman noti sieno». A tali detti miei si tacque contenta la saggia penna, ma il calamajo borbottando non so che parole proseguì a dire; quando fui sorpresa da improvviso rustico suono che all’orecchio diletto tal porgendomi, sovvenir mi fece della piacevole e tranquilla vita, che nel fruttifero autunno le donne di villa debbon menare. Il perché alla penna mia fatta una onesta missione a vagare sul dorso di qualunque volatile a lei piacesse, lasciai che sen’andasse, ed al calamajo, fatto un baciamano, nello scrittojo il chiusi, ove ora si sta placidamente dormendo, intantoché fragreggiante suon di guerriera tromba e di strepitoso tamburo già nol desta; ed io col privilegio de’ Legali, che tertius gaudet inter duos litigantes, men’andrò a sua stagione alla campagna le mature uve a raccogliere, ove a darmi buon tempo vedrò d’attendere, e posciaché ritornata sarommi, se l’Agiatissima vostra Persona e le Agiatezze loro vorranno, me novellamente, come Agiata sola tra gli Agiati tollerare, non che ricevere, sarò colla penna alla mano, e col calamajo mio a canto di bel nuovo a schiccherare, se novelle, novelle, quando altro, altro ancora, che quanto io sappia ubbidire, allorché il comando mi piace, ancor nol sapete.