Le prose di Bianca Laura Saibante Vannetti/Novella VII
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Novella VII
Letta in Accademia li 31 Luglio 1751, come Agiatissimo.
Prefazione
«Cosa fatta capo ha»: dicea il Mosca, che il citare poi un tal Autore egli è tanto quanto chiamare le Donne per testimonie; poiché il maggior tattamella che a’ tempi di Madonna Berta frustasse mattoni non fuvi; anzi, secondo il detto d’un vecchio Autore, il cui nome ora non mi torna alla mente, fu venduto costui a certi mercatanti al prezzo d’un baghero, che se ne davano trentasei per un pello d’asino, vedete mo, s’egli era da molto, e se non la vi cape, vostro danno, ch’io non mi sbattezzo per farlavi bere. Ma direte voi: «Domine nonne! a che ci stai tu qui narrando la storia del Mosca, se noi la sappiamo? Ah per San Ciappelletto, che nolla sapete, ben io solla a capello posciaché, in una dieta che tra mosche e tafani loro strettissimi congiunti nella stanza mia gli andati giorni si tenne a forza di beccate sterminate, me la fecero capire per modo ch’io non piglio vento, se dopo la venuta dell’Anticristo avessi a tirar le calze. Oh, la è pur ridevole! tu meni il can per l’aja tu, e ci vai tenendo a cresima con questi tuoi griccioli e citrì. Adagio Biagio, non precipitate il giudizio così che il gran filosofo Cartesio vuol altrimenti, e poi lo stile che tra gentili Persone si usa v’obbliga quasi ad avermi fede, e dare ad ogni mia cosa con tutta riverenza il passaggio, come quello spadacino da frittelle del Capitan Coluzzo concedeva il libero andirivieni a’ venti. Io non per tanto fo in su le dita mie ragioni così: che la sedia sopra la quale io siedo, il tavolino al quale agiatamente m’appoggio, e l’orrevole pasto che da voi, Onorandi Agiati miei, con istrabocchevole gentilezza, all’Agiatissima mia Persona furono assegnati, creder mi fanno d’esser, qual altro Cesare, un Monarca Dittatore di Leggi; e perciò dopo avervi con una lunga salmeria d’inchini e baciabassi mandata avanti, la discorro a questa foggia. Non tutte le cose che sotto l’ampio Cielo su di questa bassa terra si fanno, avere capo, ed a ciò avere la natura stessa qual provida madre accortamente riparato; poiché se tanti capi ci fossero, che non sonovi, troppo più l’un con l’altro correbbono rischio d’accozzare insieme, ed alla fine tanto e forse mille volte altrettanto cozzando, altro da tante urte non nascerebbe che un male infinito; e se il Mosca vuole altrimenti, cancher gli venga; ed intanto che se lo divora, coll’autorità alla mano vel fo vedere. Questa Leggenda, che io innanzi a voi, Leggiadri Compagni, penso produrre, ella è appunto una di quelle cose che al mondo vengono senza capo, e che ciò sia vero, io non mi becco il cervello per provarlovi,
che ognuno a suo grand’agio,
qualor cieco non sia veder sel puote.
E chi non crede a me, non merta fede, e chi dice al contrario, se ne mente per la gola, ch’è lo stesso che dir bugia. Ma uscianne una volta di questo gineprajo, che Virgilio non accorda si trattenesse tanto Enea con Didone in far all’amore, quanto io con questa faccenda dondolo la Mattea, e venghiamo a’ ferri, che poi s’ella non ha capo, avrà piedi; oh? tirala innanzi quella tua carretta, conciossiacosaché questa ragione mi par qualcosa, sebbene ella non m’empie affatto, che al corpo d’una cicala senza capo e’ non si vuol camminare. Mi venga il fistolo, se tutti que’ che in bel cerchio d’intorno mi stanno, or’ ora hanno il capo a bottega, che vuol dire la stessa faccenda, secondo Galeno, quanto non avere il capo in capo e pure camminano. Orbè, vedete, s’io ho delle ragioni a carra? e se non volete accordare ch’io men abbia, io me la piglio io, ch’è come volere una cosa per forza,
che alla fin fine val men d’una scorza.
Oh! s’ella non ha capo, dirà taluno: buona notte: la bella cosa affè la dee essere? flemma, Messeri, che la soverchia fretta fa sdrucciolare, e perciò il nostro collotorto di Messer lo Giudice dal Palagio della Ragione a sentenziare ogni reo, l’ha per sempre sban= deggiata, ed io gliela meno buona. Ma io m’avveggo ch’io dico troppo lungo, ed ho imparato da que’ che sanno che non è sì bella canzone che non incresca1; perciò a questa mia senza capo farò che supplisca una lunga coda che, mercè di una novelletta, or’ ora alla mente venutami, senza nastro io le appicco.
Novella.
Guari anni non sono passati che in una di quelle Città della Germania, ove le più fisicose cirimonie colle Donne religiosissimamente si costuma osservare che rispetto non hassi pe’ Santuari, vivea una Gentildonna nomata Sofia, ricca ed accostumata di molto; ma bene avanti negli anni, come la rugosa fronte e le scarse chiome coperte di neve abbondevolmente la dimostravano. La quale, conciossiaché vedova per tempissimo e senza figliuoli rimasta fosse, e dal marito, dell’amore di cui sempre bene fu, d’ogni sua facoltà lasciata erede veggendosi, spesse fiate attendeva di darsi buon tempo grande, e lieta vita menando, ora nella propria casa Gentildonne e Cavalieri accogliendo, e quando con iscambievole amistade queste nelle case loro visitando seco si tratteneva a giuoco, che per essa era il maggior divertimento che idear si sapesse; imperciocché avv[e]niva il più delle volte che dalla buona fortuna molto favorita era.
Accadde pertanto che, tenendo Sofia un giorno l’invito d’una sua Parente, appo la quale buon numero di Cavalieri e Donne, sì della Città che forestieri venuti, fu dalla Padrona di casa posta a tavolino con un Gentiluomo detto per nome Conrado, assai giovane, ma altrettanto avveduto, di nazione Italiano. Il perché lungamente con lui giuocando, come che di buona somma di danajo la borsa di Sofia patisse disagio, non per questo, dal costume del Paese incoraggita, che gli Uomini dalle Donne vincendo, tolga il Cielo che nulla in saccoccia giammai ponessero, dava molto o poco a beccar all’umore, anzi più gaja che mai si dimostrava, che a vederla così rugosa parea la Marfisa bizzarra. Quindi Conrado il vincitore, mentre fra sé la vivacità dello spirito coll’antichità del volto esaminando giva, che che in cuor si sentisse, Messer Domenedio vel dica. Ma alla per fine giunti all’ultimo giuoco, Conrado quasi ristucco di starsi più con Lei, tutta la vinta somma tirato a sé la pose in saccoccia, ed accomiatatosi gentilmente, via andonne. E Sofia intanto, cui quella usanza non garbava, trattasi in disparte incominciò di dar foco alla bombarda forte voltando le punte a Conrado e dicendo ch’Egli non sapea cica di creanza, che colle Donne sue pari non si vuol far di queste, e che tanti capelli già non pensava sé in testa avere, quante fiate ben erale d’avviso avere con questo e quello a suoi dì giuocato e perduto, né mai alcuno essere stato sì indiscretto d’avere né anco un danajo da Lei via portato. Le quali cose intese dalla brigata, in essa vi fu chi, preso a cuore il commesso errore del Giovane, a Lui il vegnente mattino sen venne, ed ogni cosa minutamente narrogli. Il quale, poiché tutto inteso ebbe, piacevolmente sorridendo così all’amico rispose:
«Sappiate, gentil Messere, ch’io sono capacissimo di quanto dite, e conosco che dite vero, avvegnaché del costume di vostra Città ne sono informato molto bene, che dalle Donne non si vuol ricever nulla di ciò che in giuocando ad esse vincesi; e quando appunto con queste a giuocare avuto io m’avessi, religiosamente questa usanza sarebbe per me stata eseguita, alla quale altresì io non ho posto mente, poiché con esse che fare non ebbi, avvegnadioché quella Persona, a cui io ho vinto il danajo, quanto un Cavaliere la tengo, e terrolla mai sempre, che più sembiante di donna non serba colei, cui l’invido tempo al volto ogni colore e grazia ha rubato, e solo un vestigio dell’antichità in retaggio lasciolle; e perciò torto alcuno non istimo averle fatto io, qualor con essa usai quelle leggi che tra Cavalieri si osservano. Laonde Voi, a cui mille obblighi io professo avere, ad essa in mio nome potrete andarvene, e ogni mio detto per giustificazione mia significarle; né crediate forse che ciò dica io per tenerla in gogna, che anzi ne fo di Lei grandissima stima».
Se forte rimanesse meravigliato l’Amico del nuovo trovato di Conrado per cacciarsi d’attorno quel biasimo, non accade ch’io vel narri, che da voi ve lo potete pensare. E dopo avere non poco riso, e la prontezza dello spirito di Lui a cielo commendata, da esso partissi tosto e come più presto seppe, fatto a Sofia ritorno, destramente, ciò che per Conrado gli fu detto narrolle. La quale, in udendosi per un Cavaliere da lui essere tenuta, n’ebbe il maggior piacere del mondo e, scordatasi la perdita, solo in capo fitto si tenne d’essere veramente un Cavaliere, e da quel punto in poi, facendosi con nome maschile chiamare, più non volle coll’antico essere appellata, e Conrado, di molto nella di lei grazia entrato, fino che nella Città ei fece soggiorno, in casa sua grandemente onorar lo fece, come quegli che solo d’ogni onore le parea degno.