Le prose di Bianca Laura Saibante Vannetti/Novella IX

Novella IX

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Novella VIII

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Prefazione

Letta in Accademia a’ 27 Dicembre 1751. Sotto il Reggimento dell’Agiatissimo Enea.


Valoroso Agiatissimo Messere, se, dove fatti bisognano, le parole fossero atte di supplire, a questa fiata voi non avreste già meco di che richiamarvi, avvegnaché mi terrei tutta buona di presentarvene in grandissima copia: ma perché assaissime volte intesi queste donnesche mercatanzie non essere per niun modo da voi ben accolte, fa di mestieri che, lasciatele in disparte, io mi brighi io alcuna coserella uscita della penna mia di produrvi. Ella non sarà già una di quelle che degne sono di recarvisi innante: ma qualunque ella è per essere, io mi lusingo, e non senza fondamento, che sarete per accoglierla con lieto viso, donandole quel compatimento che gentilmente in altri tempi foste ancor solito donarle. Già voi ben sapete, che debilissima non può non essere quell’opera che da essa penna ne deriva, perché affatto d’ogni scienza ed arte sproveduta, e vie più ancora perché maneggiata da chi al nascer suo sortì per retaggio l’ago e il fuso. L’ardire perciò, che in me scorgete, di pormi nel numero di questi leggiadri spiriti che a voi fanno onorata corona, eg[l]i è quasi degno di perdono, come quegli che testimonio veritiero si mostra del mio buon volere.

Anacreontica.

Lascia l’agne e i Pastori & c.

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Prefazione

Letta nell’Accademia li 27 Febbraio 1752. Sotto il Reggimento dell’Agiatissimo Mentore.


Si dice le Donne avere elleno un cervello sì fattamente strano che co’ fatti loro, se non accade che alle prime colgano il punto, tolga Messer Domeneddio, che mai più diano nel segno; ma o siasi la struttura o materia del cervello prima causa di questo fenomeno, o colei dal breve ciuffo, io per mia fe’ non saprei io. So bene che cotesti esploratori di nostre faccende si ponno appellare Astrologhi, avvegnadioché a me pure talvolta sì sconcia bisogna accade. Se, dunque, valoroso Agiatissimo Messere, ora in grado mi sono di narrarvi un nonnulla, quantunque ciò a voi non sembrasse cosa dicevole al nero Tempo in cui arrivati siamo, fate di piacevolmente starmi ad udire, senza farne le stampite, giacché non hommi potuto torre dal capo quello che la prima volta rappresentatosi alla fantasia a viva forza sbucar volle.

Novella


Correndo l’anno novantotto dopo la nascita del Redentore del Mondo, od in quel torno, regnava nella non meno bella che antica Città vastissima di Roma lo ’Mperadore Trajano, quegli il quale per la molta e rara pietà giunse ad ottenere fino il nome di Clementissimo e poscia, non contento di ciò il Mondo, [p. 57 modifica]fuvi chi tenne per certa cosa essere Egli dopo la morte stato per ispezial divina grazia, ed intercessione di San Gregorio, liberato dall’eterno supplizio dell’Inferno, della qual faccenda noi non vogliamo già averne più fede di quello che merita. Ora questi essendosi un dì trasferito secondo il suo costume alle magnifiche Terme per indi lavarsi nelle tepide acque, avvenne che parimente ivi un povero suo vecchio soldato si ritrovò. Il quale per gli stenti della penosa militar vita, e per la cadente sua età, nullameno che per la scarsezza del vitto, sì mendico e tristo era che appena potea movere il corpo su, non che interamente lavarlo. Il perché ingegnavasi, come poteva il meglio, di stropicciare gli omeri inverso le pietre delle Terme, e per questa maniera faceva sì che l’acque, aggiungendo loro quel picciol moto, salivano un pocolino più alto a bagnarlo, onde alquanto maggior sollievo ne traeva. Il pio Imperadore, veduta la miseria del povero uomo, e pietoso di Lui divenuto, lo addomandò della cagione. Il quale non senza lagrime agli occhi così rispose: «ahi! Cesare invitto, che tale appunto, mercè l’eroiche tue gesta, a noi ti mostri: a tale m’ha condotto l’arte mia, ed il non aver di che sostentarmi in questa mia età ch’è per me, come tu vedi, l’ultimo crollo, sicché poco di vita io penso omai che m’avvanzi, qualora alcuno di me non ne prenda compassione». [p. 58 modifica]

Il che sentito, tanto la miseria di colui a Trajano increbbe, che issofatto mandò a’ suoi cortigiani dicendo che d’un bisognevole mantenimento a vita il vecchio soldato provvedessero. Della qual cosa lietissimo, se la pietà di Cesare altamente commendasse ed a cielo ne lo ringraziasse, non è da porre in dubbio. Risaputasi pertanto la nuova clemenza dallo ‘Mperadore a quel cattivello usata, cadde in pensiero a due altri soldati di non meno poveri mostrarsi del primo, affine di ottenere lo stesso intento. Perciò, fattisi tutti e due nel bagno vedere con affettata miseria simulando di potere a fatica lavarsi, soffregavansi alle pietre, e contorcevano il corpo loro come una biscia, e ancor più, se più poteva essere, allorché erano d’avviso di dover essere dallo ’Mperadore osservati. Il quale scoperta la giunteria, fece le viste di non badare a’ fatti loro, e per buona pezza li tenne in pendente; ma posciaché quelli mai non rifinivano quella mena, piacevolmente rivolto ad essi incominciò Trajano di così dire: «ch’è quello che voi fate?». Ed eglino con voce artatamente fioca: «Generoso Cesare, e magnanimo, la povertà ed il mancamento dell’ajuto fanno sì che noi tanto diserti siamo quanto tu ci vedi». Alle quali parole sorridendo, quasi beffandosi tale loro fece risposta: «Or bene, non vi [p. 59 modifica]siete voi due? Adunque l’uno l’altro ajuti, che per simil modo avverrà che amendue abbiate l’opportuno soccorso». Allora que’ giuntatori, delle vane speranze delusi veggendosi, si sgannarono che Cesare con ogni gente di pietosissima natura fosse, ma co’ fatti soltanto verso chi veramente misero conoscea.