Le poesie religiose (1895)/Scytharum solitudines
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SCYTHARUM SOLITUDINES
Meglio, Zamboni, vagar le scitiche
Steppe e fra nebbie avvolgersi
E in una gelida isba sognar
Per desolati banchi, per nivei
Greppi, sdegnoso spirito,
Una fuggevole forma incalzar.
Su pe’ deserti di ghiaccio scivola
Nera una slitta; fumido
S’addensa l’alito dell’irto can;
Taglian li abeti tetri il bianco aere
E sovra il capo all’esule
Presagi funebri parlando van.
Dietro, un immane colosso ch’agita
Cieco il flagel sanguineo,
E su’ morti ulula ghignando: urrà;
Dinanzi, aperte le immense fauci,
Misterioso baratro,
L’inesorabile Siberia sta.
Ma nel diverso martirio, indomito
Scava il ruteno Encelado,
Scava dell’orrido colosso il piè;
Scoppia il feroce pensier di Bàkounin,
E fiammeggiando all’aere
Pasce il venefico sangue de’ re.
Avanti, o invitta stirpe: a’ patiboli
Ridon le maschie vergini,
Sognano i martiri dentro l’avel;
Ecco, alla nova gloria rinascono;
Ecco, vermigli dèmoni,
Gl’inni di Rileif squillano al ciel.
Son tue, gagliarda stirpe, le floride
Speranze e la selvatica
Possa ed all’opere l’audacia ugual;
Tue son l’ebbrezze sante, tue l’epiche
Pugne e fra gli ardui studii
Le febbri indocili dell’Ideal.
Chi la novella Roma, chi il provvido
Regno?... Tu Roma? Cesare
È questi? L’inclita curia sei tu?
Giace a Staglieno, giace nell’isola
Sacra l’onore italico;
Fosca la storia mormora: Ei fu!
Una disfatta gente qui l’anima
Invereconda strascica
Sopra le glorie d’un’altra età;
E, sterco e sangue cibando, il traffico
Sul Tarpeo monta, e al popolo
Plaudente celebra la sua viltà.