Le piacevoli notti (1927)/Notte undecima/Favola terza
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FAVOLA III.
Don Pomporio monaco viene accusato all’abbate del suo disordinato mangiare; ed egli con una favola mordendo l’abbate, dalla querela si salva.
Io vorrei questa sera esser digiuna, e non aver il carico di raccontarvi favole, perchè in verità non me ne soviene pur una, che dilettevole sia. Ma acciò ch’io non disturbi il principiato ordine, ne dirò una, la quale, ancor che piacevole non sia, nondimeno vi sarà cara.
Trovavasi ne’ tempi passati in un famoso monasterio, un monaco di età matura, ma notabile, e gran mangiatore. Egli s’avantava di mangiare in un sol pasto un quarto di grosso vitello e un paio di capponi. Aveva costui, che don Pomporio si chiamava, un piatello, al quale aveva posto nome oratorio di divozione, e a misura teneva sette gran scutelle1 di minestra. E, oltre il companatico, ogni giorno, sí a desinare come a cena, la empiva di broda o di qualche altra sorte, di minestra, non lasciandone pur una minuzia andare a male. E tutte le reliquie, ch’a gli altri monaci sopravanzavano, poche molte che ci fosseno, erano all’oratorio appresentate, ed egli nella divozione le poneva. E quantunque lorde e sozze fusseno, perciò che ogni cosa faceva al proposito del suo oratorio, nientedimeno tutte, come affamato lupo, le divorava. Vedendo gli altri monaci la sfrenata gola di costui e la grande ingordigia, e maravigliandosi forte della tanta poltroneria sua, quando con buone e quando con rie parole lo riprendevano. Ma quanto piú li monaci lo correggevano, tanto maggiormente li cresceva l’animo di aggiunger la broda al suo oratorio, non curandosi di riprensione alcuna. Aveva il porcone una virtú in sè, che mai si corocciava; e ciascuno contra di lui poteva dir ciò che li pareva, che non l’aveva a male.
Avenne ch’un giorno fu al padre abbate accusato; il quale, udita la querela, fecelo a sè venire; e dissegli: — Don Pomporio, mi è sta fatta una gran conscienzia de’ fatti vostri, la quale, oltre che contiene gran vergogna, genera scandolo a tutto il monasterio. — Rispose don Pomporio: — E che opposizione fanno contra me questi accusatori? Io sono il piú mansueto e il piú pacifico monaco, che nel vostro monasterio sia: nè mai molesto nè do impaccio ad alcuno, ma vivo con tranquillità e quiete e se da altrui sono ingiuriato, sofferisco pazientemente, nè per questo mi scandoleggio. — Disse l’abate: — Parvi questo lodevole atto? Voi avete un piatello non da religioso, ma da fettente porco, nel quale, oltre l’ordinario vostro, ponete tutte le reliquie che sopravanzano a gli altri; e senza rispetto e senza vergogna, non come umana creatura, nè come religioso, ma come affamata bestia, quelle divorate. Non vi fate conscienza, grossolone e uomo da poco, che tutti vi tengono il suo buffone? — Rispose don Pomporio: — E come, padre abbate, deverei vergognarmi? Dove ora si trova nel mondo la vergogna? e chi la teme? Ma se voi mi date licenza ch’io possa sicuramente parlare, io vi risponderò; se non, io me ne passerò sotto ubidienza, e terrò silenzio. — Disse l’abbate: — Dite quanto vi piace, che siamo contenti che parliate. A— ssicurato don Pomporio allora disse: — Padre abbate, noi siamo alla condizione di quelli che portano le zerle dietro le spalle; perciò che ogn’un vede quella del campagne, ma non vede la sua. S’ancor io mangiasse di cibi sontuosi, come i gran signori fanno, certo io mangerei assai meno di quello ch’io fo. Ma mangiando cibi grossi, che agevolmente si digeriscono, non mi par vergogna il molto mangiare. — L’abbate, che con buoni capponi, fasciani, francolini e altre sorti di uccelli col priore e altri amici sontuosamente viveva, s’avide del parlare ch’aveva fatto il monaco; e temendo che apertamente non lo scoprisse, l’assolse, imponendogli che a suol bel grado mangiasse: e chi non sapeva ben mangiare e bere, il danno fusse suo.
Partitosi don Pomporio dall’abbate e assolto, di dí in dí raddoppiò la piatanza, accrescendo al santo oratorio del buon piattello la divozione: e perchè don Pomporio dai monaci era di tal bestialità gravemente ripreso, montò sopra il pergamo del refettorio, e con bel modo li raccontò questa breve favola.
— «Si trovarono, già gran tempo fa, il vento, l’acqua e la vergogna ad una ostaria, e mangiarono insieme; e ragionando di piú cose, disse la vergogna al vento e all’acqua: — Quando, fratello e sorella, ci troveremo insieme sí pacificamente, come ora ci troviamo? — Rispose l’acqua: — Certo la vergogna dice il vero: perciò che chi sa quando mai piú verrà l’occasione di ritrovarsi insieme. Ma se io ti volesse trovare, o fratello, dov’e la tua abitazione? — Disse il vento: — Sorelle mie, ogni volta che trovar mi volete per godere e stare insieme, verrete per mezzo di qualche uscio aperto o di qualche via angusta, chè subito mi troverete, perciò che ivi è la stanza mia. E tu, acqua, dove abiti? — Io sto, — disse l’acqua, — ne’ paludi piú basse tra quelle cannelluzze; e sia secco quanto si voglia la terra, sempre ivi mi troverete. Ma tu, vergogna, dov’è la stanzia tua? — Io, veramente, — disse la vergogna, — non so; perciò che io sono poverella, e da tutti scacciata. Se voi verrete tra persone grandi a cercarmi, non mi troverete, perchè veder non mi vogliono, e di me si fanno beffe. Si2 verrete tra la gente bassa, sí sfacciati sono, che poco curansi di me. Si verrete tra le donne, sí maritate come vedove e donzelle, parimenti non mi troverete, perciò che mi fuggono come mostruosa cosa. Si verrete tra’ religiosi, sarò da loro lontana, perciò che con bastoni e con gallozze mi scacciano di modo ch’io non ho finora abitazione, dove mi possa fermare; e se io con voi non m’accompagno, mi veggo d’ogni speranza priva. — Il che il vento e l’acqua sentendo, si mossero a compassione, e in sua compagnia l’accettorono. Non stettero molto insieme, che si levò una grandissima fortuna; e la meschinella, travagliata dal vento e dall’acqua, non avendo onde posarsi, si sommerse nel mare. Laonde io la cercai in molti luoghi, ed ora la cerco; nè mai la potei ritrovare, nè anco persona che dir mi sapesse, ove ella fosse. Onde non la trovando, nulla o poco di lei mi curo; e però io farò a modo mio, e voi al vostro, perciò che oggi nel mondo non si trova la vergogna. -