Le piacevoli notti (1927)/Notte decimaterza/Favola decimaterza
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FAVOLA XIII
Pietro Rizzato uomo prodigo impoverisse; e trovato un tesoro, diventa avaro.
[Vincenza]
La prodigalità è un vizio che conduce l’uomo a peggior fine che l’avarizia, perciò che ’l prodigo consuma il suo e quello d’altrui, e fatto povero, non è ben veduto da alcuno, anzi tutti lo fuggieno, come persona insensata, e dileggiano, prendendo gioco di lui: sí come intravenne ad un Pietro Rizzato, il quale per la sua prodigalità venne in grandissima miseria, indi trovato un tesoro, diventò ricco e avaro.
Dico adunque che già nella città di Padova, famosissima per lo studio, abitava ne’ passati tempi un Pietro Rizzato, uomo affabile, di bellezza prestante, e di ricchezza sopra ogni altro abondevole: ma era prodigo, perciò che donava a gli amici or questa, or quell’altra cosa, secondo li parea convenire al grado loro, e per la sua troppo grande liberalità aveva molti che lo seguitavano, nè mai li mancavano ospiti alla sua mensa, la qual era sempre abondantissima di dilicate e preziose vivande. Costui tra l’altre sue pazzie ne fece due, delle quali l’una fu, che, andando un giorno con altri gentil’uomini da Padova a Vinegia per Brenta, e veggendo che ciascaduno di loro s’essercitava chi in sonare, chi in cantare e chi in altre cose facendo, egli, per non parer tra loro ocioso, si mise con i danari a far, come si dice, passarini, e gettavali ad uno ad uno nel fiume. L’altra, ch’è di maggior importanza, fu ch’essendo egli in villa, e venendo a lui molti giovani per corteggiarlo, e veggendogli da lontano, per far loro onore, fece metter fuoco in tutte le case di suoi lavoratori. Volendo adunque Pietro contentar il suo sfrenato appetito in tutte le cose a lui possibili, vivendo dissolutamente e senza alcun freno, presto gli vennero le sue gran ricchezze a meno, e insieme gli mancarono tutti gli amici che ’l corteggiavano. Egli per lo passato tempo, quando era nella sua felicità, aveva nodrito molti famelici; ora ch’egli è affamato e sitibondo, non trova alcuno che gli voglia dar da mangiare o da bere. Egli vestiva i nudi, ora niuno gli copre la sua nudità, egli aveva cura de gl’infermi, ora niuno ha cura della sua infermità. Egli accarezziava tutti, onorandogli sommamente; ora è malveduto e lo fuggieno come contagiosa peste. Laonde essendo giunto il miserello all’amaro e crudel passo di povertà, ed essendo nudo e infermo e vessato dal flusso in tal maniera, che n’andava il sangue, menava pazientemente la misera e infelice sua vita, ringraziando sempre Dio che dato gli avea conoscimento.
Avenne che andando un giorno il meschinello pieno di rogna, tutto sozzo, ad un certo luogo roinato, non già per solazzare, ma per diporvi giú il natural peso del ventre, e guardando finalmente in un pariete per antichità guasto, vidde per una gran fissura risplendere oro. E rotto quel pariete, trovò un gran vaso di terra pieno di ducati d’oro, e portatolo a casa nascosamente, cominciò a rispendere, non profusamente, come prima, ma secondo il suo bisogno, e moderatamente. Gli amici e cari compagni, che continovamente il corteggiavano nel tempo che ’l viveva felicissimamente, avedutisi che si era fatto ricco, pensarono di ritrovarlo prodigo come prima; e andatisene a lui, il cominciorono carezzare e corteggiare, pensando tuttavia di viver alle altrui spese. Ma la cosa non gli venne come essi voleano ed era il desiderio loro. Perciò che non solamente non lo trovarono pazzo e largo nel spendere, scioccamente donando il suo e facendo banchetti: ma conobbero apertamente lui esser divenuto savio e avaro. E addimandato da gli amici e compagni, come era diventato sí ricco, li rispondeva che si volevano ancor essi diventar ricchi, bisognava prima che vuotassino il sangue dal ventre suo, come aveva fatto egli, dinotandogli che prima aveva sparso ’l sangue, che trovato avesse li danari. Allora gli sopradetti compagni e amici, vedendo che non vi era allegrezza di cavar altro construtto da lui, si partirono. —
Perché la rosseggiante aurora incominciava apparere, e giá era terminato il carnessale, e sopragiunto il primo di di quadragesima, la signora, voltatasi all’onorevol compagnia, con piacevol viso cosí disse: — Sapiate, magnifici signori e amorevoli donne, che noi siamo al primo di di quaresima, ed oramai da per tutto si odeno le campane che n’invitano alle sante prediche e a fare la penitenza de’ nostri commessi errori. Laonde mi par cosa onesta e giusta che in questi santi giorni poniamo da canto i dilettevoli ragionamenti e gli amorosi balli e soavi suoni, gli angelici canti e le ridicolose favole, ed attendiamo alla salute delle anime nostre. — Gli uomini parimenti e le donne, ch’altro non desideravano, il voler della signora sommamente comendarono. E senza far accendere i torchi, perciò che ornai era il giorno chiaro, comandò la signora che ciascuno se n’andasse a riposare, né piú alcuno si riducesse per conto di compagnia all’usato concistoro, se prima non gli era imposto da lei. Gli uomini, tolta buona licenza dalla signora e dalle damigelle, e lasciatele in santa pace, ritornarono agli alloggiamenti loro.
il fine della decimaterza e ultima notte.