Le piacevoli notti/Notte X/Favola V
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FAVOLA V.
Quanto e qual sia l’ardente e tenace amore del padre verso il virtuoso e disciplinato figliuolo, non è alcun ch’abbia figliuoli, che apertamente non lo conosca. Imperciò che egli non solamente si affatica di farli quello che fa mistieri al viver suo, ma anche spesse volte mette a pericolo la vita, e sparge il sangue per aggrandirlo e arricchirlo. E che questo sia il vero, dimostreròvelo con questa breve favoluzza, ch’ora raccontarvi intendo. La quale, perciò che è più pietosa che dilettevole, penso vi sarà di non poco ammaestramento e dottrina.
In Pavia, città della Lombardia nobile sì per lo literario studio sì anco per essere sepolto in quella il santissimo corpo del venerabile e divino Agostino, martello degli eretici, lume e chiarezza della religione cristiana, fu, già poco tempo fa, un uomo disleale, malvagio, omicida, ladro, e ad ogni malfar disposto; e tutti Rosolino per nome lo chiamavano. E perchè era ricco e capo di parte, molti lo seguitavano; e stando alla strada, or questo or quello spogliava, rubbava e uccideva. E per lo sèguito grande che egli aveva, tutto il territorio fortemente il temeva. E avenga che Rosolino avesse comessi molti errori, e contra lui fussero state porte molte querele, nondimeno non era uomo che vi bastasse l’animo proseguirle, per ciò che tanti erano i favori delli tristi e malvaggi uomini, che li querelanti abbandonavano le loro querele. Aveva Rosolino un solo figliuolo, il quale per natura era tutto contrario al padre, e teneva vita molto laudevole e santa. Egli più volte con dolci parole riprese il padre della sua trista e scelerata vita, e dolcemente pregollo ch’omai ponesse fine a tante sceleragini, dipingendogli i strabocchevoli pericoli, ne’ quai continovamente viveva. Ma nel vero l’ammonizioni saggie del figliuolo erano frustatorie e vane; perciò che maggiormente che prima egli attendeva al suo disonesto essercizio, e altro non si udiva di giorno in giorno, se non: egli è stato spogliato il tale, egli è stato ucciso il tale. Perseverando adunque Rosolino nel suo fiero e bestiale proponimento, e andando quotidianamente di mal in peggio, volse Iddio che fusse dagli sergenti del pretore preso e legato, e a Pavia condotto. Ed essendo dal giudice del maleficio constituito, sfacciatamente negò il tutto. Il che intendendo, il pretore ordinò che gli sergenti in ceppi con tenaci catene in prigione lo mettessero, dandogli solamente al giorno tre uncie di pane e tre di acqua, e che fusse con ogni diligenza custodito. E quantunque fusse grandissima altercatione tra li giudici, si doveano averlo per convenuto, o no, pur dopo molto contrasto parve al pretore e alla sua corte di andar alla tortura e aver dalla sua bocca la confessione. Venuta la mattina, il pretore fece condurre Rosolino alla sua presenza, e tolse di volontà il constituto; ed egli come prima dinegò ogni cosa. Questo vedendo, il pretore comandò che fusse alla corda legato, e in alto levato. E quantunque più volte Rosolino fusse stato crollato alla tortura, per gli indicii grandi ch’erano contra lui, non però mai volse confessare, anzi con grandissima costanza villaneggiava il pretore e la sua corte, dicendo ch’erano tristi, giotti, ladri, scelerati, e che meriterebbeno per la mala vita che tengono, e per l’ingiustizia che fanno, mille forche: affermando sè esser uomo da bene, di buona vita, nè esser alcuno che con verità dolersi possa di lui. Aveva il pretore, com’è detto di sopra, più fiate contra Rosolino severamente proceduto, nè aveva lasciato specie di tormento, che non avesse provato: ma egli, saldo come ben fondata torre, sprezzava ogni tormento. Il pretore che apertamente conosceva lui esser delinquente, e non poterlo sentenziare a morte, assai si doleva. Onde, la notte, considerando il pretore la tristizia di Rosolino e la costanza grande, e non potergli dar più tormento per aver già purgato ogni indizio, s’imaginò di essere con la sua corte, e proporre una cosa che intenderete. Venuto il giorno, il pretore chiamò i suoi giudici, e disse: Eccellenti dottori, grande è la costanza di questo reo e maggiore la tristezza sua, e più tosto morrebbe tra’ tormenti, che confessare cosa alcuna. Onde mi parrebbe, così però parendo e a voi, di fare un tentativo per ultimo refugio; il qual è questo: Mandare i sergenti a prendere Bargetto figliuolo di Rosolino, ed in presenza sua metterlo al tormento, perciò che, veduto il padre tormentare l’innocente figliuolo, agevolmente confesserà l’error suo. Questo Consilio molto piacque alla corte; e subito ordinò il pretore che Bargetto fusse preso, legato e a sua presenza menato. Preso Bargetto e menato dinanzi al pretore, il giudice del maleficio tolse il suo constituto; e Bargetto innocentissimo rispondeva di non sapere cosa alcuna di quello era interrogato. Il che vedendo, il pretore senza indugio il fece spogliare, e metterlo alla tortura in presenza del padre. Rosolino, veduto ch’ebbe il figliuolo preso e legato al tormento, rimase attonito, e molto si contristò. Il pretore, tuttavia assistente Rosolino, ordinò che Bargetto fosse levato in alto, e cominciollo di molte cose interrogare; ed egli, che era innocente, diceva nulla sapere. Il pretore, mostrandosi d’ira acceso, disse: Io tel farò ben sapere; e ordinò che fusse tirato in alto. Il meschinello, che sentiva grandissimo dolore e passione, fortemente gridava: Misericordia, signor pretore, misericordia, chè io sono innocente nè mai commessi tai delitti! Il vicario, sentendolo dolersi e piagnere, diceva: Confessa, non ti lasciar guastare; perciò che noi sappiamo di punto in punto il tutto, ma lo vogliamo sapere dalla tua bocca. Bargetto respondeva non saper quello che ’l giudice dicesse, nè esser vero ciò che gli improperava. Il giudice, che aveva il maestro dalla corda ammaestrato, gli fece cenno che lo lasciasse venir giù da alto a basso senza pietà e remissione alcuna. Bargetto, udendo le parole del giudice, e sentendo nelle braccia grandissima passione, e considerando di non poterla sofferire, dispose di confessare quello che non aveva fatto, e disse: Signori, lasciatemi giù, che ’l tutto chiaramente vi dirò. Lasciata leggiermente venir giù la fune e appresentatosi Bargetto al conspetto del pretore e della corte, affermò in presenza del padre aver commessi tutti gli eccessi contra lui imputati. Rosolino, che aveva sentita la non veridica confessione del figliuolo, ravoglieva nell’animo suo molte cose; ed alfine mosso da filial amore, e considerata la lui innocenzia, disse: Non tormentate più il figliuol mio, ma liberatelo, perciò che egli è innocentissimo ed io nocente. E senza altro tormento minutissimamente confessò ogni suo delitto. Il pretore, udita di Rosolino la confessione e fattala con ogni diligenza annotare e ratificare, e desideroso di sapere la causa, disse: Rosolino, tu hai sofferti tanti tormenti, nè mai abbiamo potuto da te aver la verità; ma poscia che vedesti Bargetto ne’ tormenti, e udisti la confessione da lui fatta, mutasti proponimento, e senza martorio alcuno confessasti il tutto. Io, se Dio ti salvi ed abbia misericordia dell’anima tua, intenderei volentieri la causa di questa mutazione. — Ah, rispose Rosolino, non la sapete voi, signori? Disse il pretore: Veramente noi non la sappiamo. Rispose Rosolino: Ed io, se non la sapete, ve la raccontarò, s’attenti m’ascoltarete. Signori pietosi, umani e amatori di giustizia, voi avete veduta e chiaramente conosciuta la costanza mia ne’ tormenti; nè è maraviglia: perciò che allora voi martoravate le carni morte, ma quando voi tormentavate Bargetto, unico mio figliuolo, allora tormentavate le carni vive. — Adunque, disse il pretore, tu sei morto, essendo le carni tue morte? Non sono io morto, rispose Rosolino, nè manco le carni mie morte sono, ma viveno; tuttavia quando voi mi tormentavate, io nulla pativa, perchè queste carni, che voi ora vedete e tormentavate, non erano mie, ma del padre mio morto, putrido e già fatto polve; ma quando tormentaste il figliuol mio, tormentavate le carni mie, perchè la carne del figliuolo, è propria carne del padre. Il pretore, intesa la causa, volse del tutto assolverlo: ma perchè la giustitia non pativa che tanti deliti impuniti rimanessero, determinò di perpetuo bandirlo: non che i peccati sì lieve pena meritassero, ma per l’amore che ’l padre portava al figliuolo. Rosolino, intesa la legger sentenzia, levò le mani al cielo, e Iddio ringraziò, promettendogli con giuramento mutar vita e viver santamente. Partitosi Rosolino da Pavia, andò all’eremo, ed ivi visse santamente, e fece tanta penitenza de’ suoi peccati, che per grazia di Dio meritò di esser salvo; e di lui fino al dì d’oggi si fa memoria ad esempio di buoni e dannazione di tristi.
Era già venuta al fine la favola di Cateruzza, quando la Signora ordinò che con l’enimma l’ordine seguisse. Ed ella con soave voce così disse:
In un ampio, fiorito e verde prato
Si pasce un vago e gentil arenino,
Copresi di un bel manto, e molto ornato,
Di color giallo, verde e celestino.
Porta corona, ed ha ’l capo elevato;
Da veder molto è vago e pellegrino.
La coda leva, e mira, e ’l suo amor sfida.
Ma i piè si guarda, e da vergogna grida.
L’enimma da Cateruzza raccontato fu dalla maggior parte inteso, che era il pavone dedicato alla dea Giunone. Il quale con le sue occhiute penne, di vari colori dipinte, si mira d’ogni intorno, e s’insuperbisse: ma poscia che vede i lordi e sporchi piedi, abbassa la pomposa coda, e vergognoso rimane. Finito l’enimma, tutti si levorono in piedi, e tolsero licenza dalla Signora, promettendole nella sera sequente ritornare, secondo il consueto ordine.
il fine della notte decima.