Le pantere di Algeri/Capitolo 8 - I fregatari

Capitolo 8 — I fregatari

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8.

I FREGATARI


Mentre i superstiti, ridotti alla metà dalle palle e dalle armi dei barbareschi, soccorrevano i feriti che ingombravano i ponti e le batterie, il signor Le Tenant si era slanciato sul cassero, guardando attentamente le vele che erano state segnalate e che muovevano direttamente verso la galera. Con un solo sguardo si era subito accorto che non si trattava di navi di battaglia, mandate in loro soccorso dal viceré di Sardegna o di galere maltesi provenienti dalle coste toscane o liguri, bensì di due piccoli velieri attrezzati a feluche, assolutamente incapaci di prestare alla galera un valido aiuto e tanto meno di continuare la caccia ai corsari barbareschi i quali ormai stavano per scomparire fra le nebbie dell'orizzonte.

— Signor barone — disse al giovane gentiluomo, che lo aveva raggiunto, colla speranza di riprendere l'inseguimento su quei velieri. — Io credo che per ora la contessa sia perduta per voi.

Il barone mandò un sordo gemito e s'appoggiò alla murata, come se le forze gli fossero improvvisamente mancate. Sul suo viso si leggeva una tale disperazione, che il signor Le Tenant ne ebbe paura.

— Signor barone, — gli disse con voce commossa, — siete uomo di guerra e perciò non dovete lasciarvi abbattere. Se oggi la fortuna ha arriso alle armi degli infedeli, non ostante gli sforzi disperati dei nostri bravi marinai, fra quindici giorni può volgere in nostro favore e noi potremo trovare anche il modo di liberare la disgraziata contessa.

— Sarebbe stato meglio che una palla mi avesse ucciso — rispose il giovane con voce cupa.

— E chi avrebbe salvato la signora di Santafiora? Io sì, lo avrei certamente tentato, ma...

Il barone lo interruppe bruscamente, chiedendogli:

— Che velieri credete che siano quelli che s'avanzano?

— Delle feluche, signore; perché questa domanda?

— O piuttosto dei fregatari? Se fossero delle navi mercantili, udendo le nostre cannonate sarebbero piuttosto fuggite anziché accorrere a noi.

— E se fossero tali?

— Signor Le Tenant, la nostra galera ormai si trova nell'assoluta impossibilità di tentare qualche cosa e temo che avrete da faticare a ricondurla in Sardegna, se non affonderà a mezza strada. Voi non potrete, in tutti i casi, riprendere il mare prima di due o tre mesi, ammenoché il Gran Maestro dell'Ordine non vi affidi il comando di qualche altra nave. Se quelle due navicelle sono montate veramente da fregatari, affido a voi il comando, pregandovi di tentare ogni sforzo per condurre in salvo i nostri marinai.

— Volete lasciarci? — chiese il maltese, stupito.

— Vado dove il destino mi spinge — rispose, il barone. — Io non potrei rassegnarmi ad attendere delle settimane e forse dei mesi, mentre la mia fidanzata viene condotta schiava in Algeri.

— E voi osereste recarvi laggiù solo?

— Mi basterà un compagno, Testa di Ferro, se è ancora vivo, e tenterò ogni sforzo per strappare la mia Ida dalle mani di Zuleik. Che m'importa ormai della vita? Se mi sorprendono e mi uccidono, voi penserete, se lo potrete, a vendicarmi.

— Signor di Sant'Elmo, non commettete una simile pazzia. Vi sono troppe persone che vi conoscono in Algeri e poi Zuleik veglierà attentamente sulla sua preda.

— Sono irrevocabilmente deciso a tentare la sorte — rispose il barone, con voce ferma. — Io ormai non sono più necessario qui, dacché la Sirena non è più che un rottame e voi siete abbastanza valente marinaio per ricondurla almeno fino a Cagliari.

«Rattoppatela alla meglio, onde non possa affondare prima di giungere sulle coste sarde, spiegate più tela che potete e salvate questi valorosi sfortunati. Guardate: non mi ero ingannato. Quei due piccoli velieri sono veramente due fregatari in rotta per la costa africana. Spero che mediante un grosso compenso non avranno alcuna difficoltà a prendermi a bordo e sbarcarmi in Algeri.»

— Barone, pensate ai gravi pericoli a cui vi esponete, recandovi proprio nel covo di Zuleik. Se quel dannato moro vi sorprende, non vi risparmierà e voi conoscete meglio di me la crudeltà delle pantere d'Algeri.

— Le affronterò senza tremare.

— Prendete almeno con voi alcuni uomini risoluti.

— Mi basterà Testa di Ferro.

— Un uomo che non vale gran che.

— Non avrò bisogno di gente valorosa, poiché non andrò ad Algeri per combattere, né per usare la violenza; ma per rapire la contessa. Segnalate a quelle due feluche di accostarsi.

Non ve n'era bisogno, giacché i due piccoli velieri, vedendo sventolare sulla cima dell'alberetto maestro la bandiera dei cavalieri di Malta, avevano preso risolutamente la corsa verso la galera.

Erano due svelti legni, lunghi, sottili, collo scafo affilatissimo, i bordi bassi e con uno sviluppo straordinario di vele che dovevano imprimere a quelle navicelle, anche con vento debolissimo, una velocità notevole che nessuna galera avrebbe certamente potuto ottenere.

Non dovevano stazzare più d'una quarantina di tonnellate e nondimeno avevano entrambe un equipaggio numeroso e portavano a prora ed a poppa due piccole colubrine.

Erano navigli di fregatari, navi costruite espressamente per le corse velocissime e che in quei tempi rendevano dei servigi preziosissimi ai poveri schiavi cristiani di cui molti dovevano a quegli arditi marinai, la loro libertà. Montate da gente dotata d'un coraggio più che straordinario e d'un sangue freddo incredibile, quelle feluche osavano entrare nei porti di Tunisi, di Tripoli, d'Algeri e di Tangeri, in attesa del momento opportuno per rapire gli schiavi che poi riconducevano in patria. Se lo facessero per umanità è un po' dubbio, perché fra loro vi erano perfino dei turchi rinnegati e non tentavano quei pericolosissimi colpi di testa se non dietro grossi compensi.

Camuffati da mori, fingendosi mercanti tunisini od algerini, abilissimi nel maneggio delle armi e delle vele, sempre pronti a prendere il largo al primo segnale di pericolo, approdavano, per lo più di notte e quando la sorveglianza era minore, in questo o quel porto, dove avevano confidenti che organizzavano la liberazione dello schiavo, la cui famiglia aveva pagato largamente per la sua liberazione.

Rischi immensi correvano e la morte li minacciava ad ogni istante, né caduti nelle mani dei barbareschi potevano sperare di salvare la pelle. Quanti ne venivano sorpresi, si condannavano alla morte e a quale morte! Chi bruciato vivo su qualche piazza, sotto gli occhi degli abitanti plaudenti; chi appeso ad un arpione come un quarto di vitello e lasciato colà finché la morte, talvolta molto lunga a giungere, perché i carnefici con un'abilità diabolica cercavano di non offendere gli organi vitali, lo liberava da quell'atroce supplizio. E fortunati quelli che venivano semplicemente decapitati dopo essere stati, per qualche tempo, immersi nella calce viva!

Le due feluche con poche bordate si spinsero sotto la galera, abbordandola ai due lati, poi un uomo di forme massicce, abbronzato come un moro, con una lunga barba nerissima e ispida, vestito da turco, con fez rosso sul capo, casacca azzurra stretta ai fianchi da un'alta fascia di lana rossa e ampi calzoni color marrone, fermati al ginocchio, salì la scala che era stata abbassata dall'equipaggio della Sirena.

— Vi è stata aspra battaglia qui — disse in un pessimo italiano, mettendo piede sul ponte e vedendo tutti quei morti che non erano ancora stati gettati in mare. — Si conosce l'opera di quei cani d'infedeli.

Vedendo avanzarsi il barone fece un goffo inchino, levandosi contemporaneamente il fez.

— Il capitano? — chiese. — Mi congratulo con voi, signore, di aver tenuto testa all'assalto di quelle quattro galere. Fossi almeno giunto in tempo per menare le mani anch'io.

— Siete un fregatario? — domandò il barone.

— Sì, signor capitano.

— Da dove venite?

— Da Cagliari.

— Avrete saputo dell'assalto dato dai barbareschi a San Pietro.

— L'ho saputo ieri, da alcuni pescatori di Antioco. Bell'audacia che hanno avuta quei cani, per spingersi fino a quell'isola e bombardare il castello dei conti di Santafiora.

— Si sa che hanno rapita anche la contessa?

— Sì, signore ed a Cagliari tutti piangono la triste disgrazia toccata a quella bella e buona signora.

— Dove andate ora?

— Vado a tentare un buon colpo in Algeri io, mentre il mio compagno va a farne un altro a Tunisi. Vi è un certo signore spagnolo, figlio d'un ambasciatore da salvare. Ci sarà molto da rischiare, ma la somma promessa è grossa e mi tenta e se ci riesco lascerò per sempre le corse sul mare, prima di finire impalato o bruciato vivo e andrò a coltivare i pometi della Normandia.

— Non siete italiano voi — disse il cavaliere Le Tenant.

— Sono un po' di tutto — rispose il fregatario, sorridendo. — Per le genti del Mediterraneo, che mi conoscono molto di fama, sono semplicemente un buon marinaio e mi chiamano il Normanno; per gl'infedeli sono Ben Kadek; per i miei compatrioti sono Jean Barthel.

— Ditemi, — disse il barone, — vi piacerebbe guadagnare cinquemila scudi?

Il fregatario fece un salto.

— Per le acque della Garonna! — esclamò, sbarrando gli occhi. — Cinquemila scudi.

— E senza intralciare il vostro affare collo spagnolo.

— Per una simile somma vado a incendiare la Kasbah d'Algeri e la casa di quella canaglia di Culchelubi, col quale ho un vecchio conto da saldare e che mi pesa sull'animo.

— Non vi chiedo tanto — rispose il barone con un malinconico sorriso.

— Che cosa devo fare, signore?

— Prendermi sulla vostra feluca assieme ad un mio compagno e sbarcarmi in Algeri. Se lo potrete, mi aiuterete nell'impresa che io vado a tentare.

— Volete andar a salvare qualcuno laggiù?

— La contessa di Santafiora.

— Me l'ero immaginato — disse il Normanno. — Voi avete dato battaglia alle galere algerine colla speranza di strapparla agli infedeli, prima che la conducessero in Algeri.

«Signore, per la somma che mi promettete io metto a vostra disposizione la mia feluca ed i miei uomini e m'impegno di aiutarvi come meglio potrò, nella difficile impresa.

«Come tutti i fregatari, ho laggiù dei compari che ci saranno di molto aiuto; solo desidero che vi affidiate interamente a me e mi facciate la promessa di essere prudente. Capirete che si tratta della pelle e voi sapete che le pantere d'Algeri hanno sete di sangue cristiano.»

— Farò tutto quello che vorrete. Signor Le Tenant, prelevate dalla cassa di bordo i cinquemila scudi che m'appartengono.

— Signore, — disse il Normanno, — per ora stanno meglio a bordo della vostra galera che sulla mia feluca e me li farete versare dal Gran Maestro dell'Ordine ad impresa finita.

— Come vorrete.

— Accordatemi dieci minuti per prepararvi una cabina signor...

— Il barone Carlo di Sant'Elmo — disse il maltese.

— Per la Garonna! — esclamò il fregatario, guardando il giovane capitano con ammirazione. — Ecco un nome molto temuto nel Mediterraneo e soprattutto dagli infedeli.

«Così giovane e di già tanto famoso! Dovevo immaginarmi che solo voi, signore, potevate osare di dare addosso a tante galere.

«Signor barone, è un altissimo onore per me ricevervi a bordo e potete contare sulla mia devozione.» Poi balzando verso la scala, gridò:

— Ohe, accostate!... Sgombrate la mia cabina.

— Dov'è Testa di Ferro? — chiese il barone.

— Che cosa ne volete fare di quell'uomo? — chiese Le Tenant. — Vi sarà più d'impiccio che di utilità, quel rodomonte.

— Malgrado la sua paura per gl'infedeli non mi lascerebbe — rispose il barone. — Mi è troppo affezionato.

Testa di Ferro non si trovava però né sul cassero, né sul castello di prora, né sulla tolda. Fu invece scoperto, dopo non poche ricerche, rannicchiato nella cala, colla sua formidabile mazza accanto, e che dormiva come un ghiro. Quando comparve in coperta, ancora cogli occhi istupiditi, forse più pel soverchio Cipro bevuto che per sonno, ricominciò come al solito le sue rodomontate.

— Ah! Che battaglia, signor barone! La storia narrerà ai posteri la nostra impresa gloriosa ed il nome del barone di Sant'Elmo verrà scritto in lettere d'oro.

«Perdonate di essermi addormentato cinque minuti, ma a furia di maneggiare la mia mazza e di spaccare elmetti e corazze, avevo perduto completamente le forze. Voi sapete quanto pesa la mia arma e come stanchi presto.

«Dio, che massacro! Non rimpiango i trentadue algerini che ho mandati a trovar Maometto.»

— Infatti avete un braccio terribile, messer Testa di Ferro — disse il cavalier Le Tenant, ironicamente. — Senza la vostra mazza, i barbareschi avrebbero invasa la Sirena e non so se nessuno di noi sarebbe rimasto vivo. Erano poi solamente trentadue quelli che avete annegati nel Cipro?

— Nel sangue, signore — disse il catalano, fingendosi indignato.

— Allora speriamo che quando sarete in Algeri ne ucciderete almeno sessantaquattro.

— In Algeri! — esclamò il povero discendente dei Barbosa, stralunando gli occhi.

— Partiamo a bordo di quel fregatario — disse il barone.

— Per Algeri!...

— Andiamo a liberare la contessa.

Il prode Testa di Ferro per poco non cadde sulla tolda. Fortunatamente per lui, aveva dietro l'albero maestro.

— Signore! — esclamò. — Voi andate a cercare la morte! Io, che sono stato incaricato dal vostro signor padre di vigilare su di voi, non ve lo posso permettere.

— Tu mi seguirai — rispose il barone, seccamente.

— Pensate che...

— Che tu hai paura.

— Io, un discendente dei Barbosa! Ah! Signor barone, risparmiatemi questa ingiuria. Non ho paura dei barbareschi io, nemmeno di Culchelubi.

— Scendi nella feluca.

Il catalano fece una smorfia orribile. Sapendo che il suo padroncino non era uomo da scherzare e premendogli soprattutto di non mostrarsi codardo dinanzi all'equipaggio, discese la scala trascinandosi dietro una enorme mazza che forse non aveva mai ucciso un solo uomo.

— Signor di Sant'Elmo non commettete imprudenze e soprattutto badate a non farvi riconoscere da alcuno, se volete salvare la contessa e non perdere la vita fra i più atroci tormenti.

— Ve lo prometto, cavaliere.

— Come sarei lieto di accompagnarvi e di dividere con voi i pericoli della vostra temeraria impresa.

— Avrete da condurre in salvo questi valorosi e non potete abbandonare il vostro posto.

— Ditemi almeno dove potrei attendervi.

— Se giungerete in tempo, mi aspetterete alle Baleari, giacché sarà su quelle isole che io cercherò protezione, dopo salvata la contessa.

— Io incrocerò lungo le coste della Spagna e se troverò il momento favorevole, farò una punta verso Algeri. Chissà che l'appoggio della galera non vi possa essere utile.

— Addio, signor Le Tenant, e se io muoio nell'impresa senza riuscire nell'intento, ricordatevi che conto su di voi.

— Vi giuro, signor barone, che tenterò anch'io la liberazione della signora di Santafiora dovesse costarmi la vita e che interesserò anche il Gran Maestro dell'Ordine e tutti i più prodi cavalieri di Malta.

S'abbracciarono, entrambi profondamente commossi, mentre l'equipaggio si scopriva dinanzi al giovane capitano.

— Addio — disse un'ultima volta il barone rivolgendosi verso quei valorosi che avevano gli occhi umidi. — Spero di riavervi un giorno sotto il mio comando e di guidarvi ad altre vittorie.

Poi scese rapidamente la scala e balzò sulla tolda della feluca dove lo aspettava, con qualche impazienza, il Normanno.

— Affrettiamoci, signore — disse il fregatario. — Se volete sbarcare ad Algeri prima che le galere barbaresche ci precedano troppo, non abbiamo tempo da sprecare.

I dodici marinai che formavano l'equipaggio, tutti uomini di forme erculee e d'aspetto fiero, raccolti in tutti i porti del Mediterraneo, avevano alzate prontamente le due immense vele latine e sciolto l'ormeggio.

Sul ponte della galera i marinai, affollati lungo le semi-infrante murate, agitavano i loro elmetti in segno d'addio.

— Arrivederci, miei prodi! — gridò un'ultima volta il barone.

— Che Dio vi aiuti, signore! Buona fortuna al signor di Sant'Elmo — risposero ad una voce i maltesi.

Con una bordata la feluca raggiunse l'altra che si era già allontanata e spinte da una fresca brezza, che gonfiava le loro enormi vele, presero la corsa verso il sud-ovest, con una velocità straordinaria, mentre la Sirena, messasi pure alla vela, si dirigeva lentamente verso le coste sarde.

Il barone, seduto su uno dei barili che ingombravano la coperta della feluca, la seguiva collo sguardo, mentre Testa di Ferro, sdraiato presso la murata, mandava fuori sospironi interminabili, borbottando e guardando la sua mazza.

Il Normanno, a prora del suo piccolo legno, scrutava attentamente l'orizzonte occidentale, corrugando di quando in quando la fronte. Certamente cercava di scoprire le galere algerine.

— Avranno percorso già un bel tratto — mormorò. — Il vento è buono e se non hanno subito gravi guasti nella velatura, domani sera saranno in Algeri ma anche noi ci entreremo.

Si accostò al barone, il quale continuava a guardare la sua galera che rimpiccioliva rapidamente.

— Signore — gli disse. — Dovete essere stanco dopo una simile battaglia e dovreste andare a riposarvi. Pel momento nessun pericolo ci minaccia e la costa d'Africa è ancora assai lontana.

— Ne sento il bisogno — rispose il barone. — Ho il corpo affranto.

— Lo credo, signore. Mi hanno detto a Cagliari che voi eravate tra i difensori del castello dei conti di Santafiora. Due battaglie in ventiquattro ore ammazzano anche un gigante e mi stupisco che voi, così giovane, che sembrate una fanciulla, abbiate potuto compiere simili prodigi.

Il barone sorrise tristamente, senza rispondere.

— Cani d'infedeli! — continuò il Normanno. — Spingersi fino nelle acque sarde! Hanno del fegato quei bricconi e ormai se ne ridono delle repubbliche, del Papa e dei re della cristianità. Quando si decideranno, i nostri, a dare un buon colpo e spazzarli via? Se ci fosse ancora Carlo Martello che ha così ben pestato i mori della Spagna nelle pianure di Poitiers, non so se i barbareschi avrebbero ancora tanto coraggio.

— Quale rotta terrete? — chiese il barone.

— Cercherò di seguire le galere a debita distanza — rispose il Normanno.

— È veloce la vostra nave?

— Fila come un delfino, signore. È un vero legno da corsa, che non ha l'eguale in tutto il Mediterraneo.

— Vi credono un algerino?

— No, un tunisino, signore, e finora nessuno ha mai sospettato di me in Algeri, dove il mio Solimano è abbastanza noto. Passo per un onesto negoziante di datteri e di pesce salato e come vedete la mia navicella è ben carica. Spero che anche questa volta l'andrà bene, che noi entreremo in Algeri senza fastidi e che potremo fermarci fino a cose compiute. Siate prudente però, signor barone, e soprattutto camuffatevi bene da moro, perché quei furfanti tengono gli occhi bene aperti.

— Lo so.

— Nel mio ultimo viaggio, ad un mio amico, un bravo marinaio di Majorca, che parlava il moresco forse meglio di me e che portava a meraviglia il taub e anche il turbante, è toccata una brutta disgrazia. Scoperto da un giannizzero che in altri tempi aveva avuto dei rapporti con lui, è stato arrestato e riconosciuto per un fregatario, l'hanno bruciato vivo dinanzi la porta di Babel-Ued.1 Comprenderete bene che io non ho nessun desiderio di arrostire, come un cappone.

— Credete che sia possibile salvare la contessa?

— Ecco, signor barone: un uomo si può rapirlo più facilmente anche se si trova incatenato in qualche bagno, e ne ho già strappati quattordici alla schiavitù. Per una donna, la cosa è più difficile, perché bisognerà penetrare nell'harem del suo padrone, dove gli eunuchi vegliano giorno e notte. Nondimeno io ho salvato una contessa napoletana che era stata presa a bordo d'una nave siciliana e che si trovava nell'harem di Ali Mami, capitano generale delle galere del bey d'Algeri.

«Mi ha costato fatiche immense e pericoli gravissimi e per poco non terminavo i miei viaggi sulla punta d'un arpione o con un palo attraverso il corpo. Eppure sono riuscito a condurla in patria.

«Io spero che non sarò meno fortunato colla contessa sarda, però nessuna precipitazione, molto sangue freddo e nessuna impazienza. Dovremo prima scoprire in quale harem sarà stata condotta e non sarà cosa facile, poi agiremo. Lasciate a me la cura di dirigere tutto.»

— Io vi obbedirò ciecamente.

— Andate a riposare, signor barone. Il vostro servo dorme già come un ghiro.

— Accetto il vostro consiglio — rispose il giovane, alzandosi con grande fatica.

— Troverete un letto non troppo soffice e una cabina assai stretta; capirete che su navi così piccole non si possono trovare molte comodità.

— Sono uomo di mare; grazie egualmente.

— Povero giovane — mormorò il Normanno, seguendolo collo sguardo. — E forse finirà fra i più atroci supplizi. Orsù non disperiamo e siamo prudenti; la pelle corre un grave pericolo e allora addio pometi della Normandia, addio buon sidro.


Note

  1. Storico.