Le pantere di Algeri/Capitolo 9 - La costa algerina

Capitolo 9 — La costa algerina

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9.

LA COSTA ALGERINA


Alla sera le due feluche, che avevano già percorso un buon numero di miglia, senza essere riuscite a scoprire le galere algerine, si separavano, avendo differenti destinazioni.

Mentre quella del Normanno volgeva la prora verso Algeri, la sua compagna, che era guidata da un fregatario napoletano, faceva rotta verso Tunisi dove andava pure a tentare un buon colpo per cercar di strappare dalla schiavitù alcuni mercanti salernitani, caduti in potere di Scipione Cicala, un tempo valente capitano siciliano e poi fattosi rinnegato per diventare quindi uno dei più intraprendenti corsari barbareschi del Mediterraneo. Il Solimano del Normanno, dopo aver fatta una inutile corsa colla speranza di scoprire le vele algerine, aveva volta risolutamente la prora verso il sud, volendo avvistare le coste d'Africa, prima di mettere la prora verso l'ovest, così si poteva più facilmente credere che venisse dai porti tunisini anziché italiani. Essendo il Mediterraneo tranquillo ed i venti del nord-est costanti, la marcia del velocissimo legno non incontrava ostacoli e le miglia si accumulavano senza che l'equipaggio si affaticasse troppo.

Il Normanno che pareva non sentisse il bisogno di riposarsi, non abbandonava un solo istante la prora del legnetto. I suoi occhi, grigiastri e vivaci, che dovevano essere acutissimi, scrutavano incessantemente l'orizzonte, cercando di sorprendere qualche fanale che annunciasse l'avvicinarsi di qualche galera. Si trovavano allora nelle acque pericolose, frequentate dai corsari algerini e tunisini che potevano disalberarli a colpi di cannone o affondarli con una sola bordata, senza prendersi prima la briga di appurare se erano amici o nemici come sovente accadeva per smania di esterminio.

Il mare però, fino allora, si manteneva deserto. Solamente dei delfini guizzavano rapidissimi dinanzi la prora del Solimano, lasciandosi dietro dei solchi luminosi, che spiccavano stranamente fra la tinta oscurissima delle acque. Erano già parecchie ore che il Normanno esplorava insistentemente l'orizzonte, mentre gli uomini di guardia manovravano in silenzio alle scotte stringendo sempre più il vento per imprimere alla feluca una maggior velocità, quando verso il sud, ad una grande distanza, apparve un piccolissimo punto luminoso.

— Vedremo che cosa sarà — mormorò il fregatario. — Se però non abbiamo deviato di molto, non sarà una galera. Abbiamo filato come una rondine marina in queste sedici ore.

Una mano gli battè in quel momento la spalla.

— Ah! Voi, signor barone — disse, volgendosi. — Potevate riposarvi tranquillamente fino all'alba.

— Ho dormito perfino troppo — rispose il gentiluomo. — Che cos'è quel punto luminoso?

— Suppongo che sia la lanterna di Deidjeli, signore.

— Già la costa africana?

— Le nostre feluche corrono meglio delle galere, specialmente la mia.

— Virate di bordo?

— No, signore.

— Volete recarvi in quella cittaduzza?

— Sì, signor barone.

— Non abbiamo alcun interesse colà.

— Interessi no, ma l'approdo a Deidjeli ci procurerà un buon passaporto — rispose il fregatario, con un sorriso misterioso.

— Non vi comprendo — rispose il barone.

— Voi sapete che le navi cristiane non osano entrare nei porti barbareschi.

— Non è cosa nuova.

— Ora siccome io non ho approdato a Tunisi, per allontanare qualsiasi sospetto che io venga da un porto italiano, o francese o spagnolo, vado a prendere la mia pratica a Deidjeli che metterò poi sotto il naso alle autorità algerine, per provare loro, come due e due fanno quattro, che io traffico esclusivamente coi barbareschi. Eh, signore! Ci vuole molta furberia e molta prudenza per non finire impalati.

— E che cosa andate a fare in quel porto?

— A caricare qualche quintale di spugne. È l'epoca della pesca questa e oltre ad assicurarmi un buon certificato di mercante barbaresco, farò contemporaneamente anche un buon affare.

— Siete un bel furbo voi.

— Si tratta di salvare la pelle, signore — rispose il Normanno. — Signor barone, ho fatto portare nella mia cabina parecchi vestiti moreschi: andate a scegliere e fatene indossare uno anche al vostro servo. Se vi vedono vestito così, ci prenderanno subito. Guardate, potrei farvi passare per una bellissima ragazza coi vostri occhi azzurri ed i vostri capelli biondi. Avete dei lineamenti così delicati e così perfetti, che nessuno vi crederebbe un uomo e scommetterei che fareste girare più di una testa.

— Preferisco rimanere uomo, per ora — rispose il barone, sorridendo a quella strana proposta.

— Sbrigatevi, signore. Fra due ore sorgerà l'alba e noi entreremo nella cittadella.

— Si conosce laggiù il vostro Solimano?

— Ho approdato altre volte e la mia entrata in quel porto non desterà alcun sospetto. Sul ciò sono tranquillissimo. Non è a Deidjeli che si corrono dei pericoli, bensì ad Algeri, le cui autorità sono curiosissime e assai diffidenti.

— Non avete più scorti i fanali delle quattro galere?

— No, signore. O che hanno fatto rotta falsa per evitare di venire inseguite o che si sono spinte molto verso l'ovest, prima di mettere le prore su Algeri. Può darsi che abbiano scambiato le nostre feluche per due galere da guerra e che abbiano avuto paura di dover sostenere un altro combattimento. Signor barone, andate a cambiare pelle e rendetevi più irriconoscibile che potrete.

Mentre il gentiluomo ridiscendeva nel quadro di poppa, già anche quello ingombro di barili e di casse in mezzo alle quali, a malapena si poteva muoversi, il Normanno aveva fatto prendere terzaruoli sulle vele latine, onde scemare la velocità della feluca, non volendo entrare in porto prima dell'alba. Sapeva che vi erano due fortini sulla punta del Cavallo e non desiderava esporsi ad una scarica improvvisa, ciò che poteva succedere presentandosi all'entrata della baia ancora di notte.

Appena sorta l'alba il fregatario fece spiegare sulla cima dell'albero maestro la bandiera tunisina e mosse verso la punta del Cavallo al di là della quale, situate in una profonda insenatura, si scorgevano le bianche casette moresche colle loro ampie terrazze ombreggiate da pittoreschi palmizi. Il barone e Testa di Ferro erano saliti in coperta. Il primo aveva indossato un costume moresco con casacca azzurra a ricami d'argento, alta fascia e ampi calzoni rossi fermati sotto il ginocchio; il catalano invece, che non aveva trovato vestiti così larghi da contenere il suo ventre maestoso, aveva dovuto accontentarsi d'un paio di calzoni da negro e d'una fascia, gettandosi poi sulle spalle un largo mantello di lana bianca e mettendosi in testa un turbante rosso e verde di dimensioni monumentali, che gli dava un aspetto grottesco.

— Voi siete ammirabile, signor barone — disse il fregatario, dopo d'aver osservati entrambi scrupolosamente. — Siete un bel giovane moresco che farà colpo sulle algerine, se riusciranno a vedervi e farete ingelosire i loro padroni. È il vostro compagno che ha una cera un po' sospetta, con tutto quel grasso che ha indosso. Infine passerà per un fenomeno o per un idropico.

— Sentiranno se peserà più la mia mazza che non l'idropisia — rispose il catalano.

— Lasciate in pace la vostra mazza — disse il fregatario. — Non si tratta qui di menare le mani, anzi di rimanere molto tranquilli se non vorrete provare le delizie dello sciamgat. Gli algerini sarebbero ben contenti di vedervi seduto sul vaso fumante.

— Che cos'è ciò? — chiese Testa di Ferro.

— Un certo supplizio che fa fremere anche i mori, quando assistono a quello spettacolo.

— Misericordia! — esclamò il catalano, gettando via precipitosamente la mazza.

— Deve essere tremendo.

— Tanto che le immersioni nella calce viva, l'impalamento, il cincischiamento del corpo con relative aspersioni di cera bollente, sono cose da ridere in paragone.

— E noi andiamo ad Algeri!

— No, per ora andiamo a Deidjeli; non entreremo che domani o questa notte in Algeri.

Il prode Testa di Ferro, il discendente dello sterminatore dei mori, divenne livido e guardò il barone, il quale stava osservando molti punti neri che percorrevano la baia in tutte le direzioni, arrestandosi di quando in quando or qua ed or là per riprendere poco dopo le mosse.

— Signor barone, — disse, — noi diventiamo pazzi e la nostra pelle comincia a pesarci troppo indosso.

— Testa di Ferro, — rispose il gentiluomo, con voce severa, — le tue paure cominciano a seccarmi un po' troppo e diventi ridicolo.

— Ma no, signore, io non ho affatto paura... e che! Un Barbosa temere i barbareschi! Nemmanco per sogno. Dico solamente che...

— Non mi annoiare altro, Testa di Ferro. Comincio ad averne abbastanza di te.

Poi volgendosi verso il Normanno che guardava il panciuto catalano, ridendo maliziosamente, gli chiese:

— Sono scialuppe tutti quei punti neri, è vero?

— Sì, signor barone — rispose il fregatario. — Sono barche montate dai pescatori di spugne. Cominciano ora a lavorare e vedremo i palombari all'opera.

— Sono negri?

— No, signore, schiavi cristiani, per lo più pescatori siciliani e sardi, rapiti alle loro isole.

— Un mestiere faticoso senza dubbio.

— E anche pericoloso, perché di quando in quando qualche vorace pescecane s'introduce di nascosto nella baia e non ritorna al largo senza portarsi via qualche disgraziato palombaro.

— Si raccolgono molte spugne qui?

— Sì ed anche di così belle da fare concorrenza vittoriosa a quelle che si pescano presso le isole dell'Arcipelago greco e sulle coste della Siria. Ehi, timoniere, manovra con prudenza; non voglio tagliare le funi delle draghe. I padroni delle barche sarebbero capaci di prenderci a colpi d'archibugio.

Il Solimano, colla sua velatura ridotta, s'avanzava nella baia seguendo la penisoletta del Cavallo, la quale ripara il porto dai venti di levante. Le prime barche s'incontravano già. Erano grosse scialuppe, montate da una dozzina d'uomini fra rematori e palombari e guidate da un algerino armato fino ai denti e munito d'uno scudiscio che di tratto in tratto piombava senza misericordia sui corpi nudi degli schiavi, tracciando solchi sanguinosi che strappavano acutissime urla di dolore.

Talune pescavano colla draga, specie di rete di ferro, formata a sacco, che veniva trascinata sul fondo della baia e che poi veniva issata faticosamente a bordo piena di frammenti di corpi calcarei, di fango e anche di spugne strappate violentemente dagli scogli subacquei.

Altre scialuppe impiegavano i palombari. Questi, abilissimi nuotatori, s'immergevano a picco tenendo fra le gambe una grossa pietra e armati d'un coltello andavano a tagliarle, portandole sollecitamente a galla. Anche in quell'epoca la pesca della spugne che oggidì è così produttiva, si esercitava su tutte le coste del Mediterraneo, specialmente su quelle tunisine e algerine, su quelle greche e sulle siriache, impiegando un numero infinito di barche e di pescatori ben addestrati, scelti per lo più fra gli schiavi siciliani, sardi e greci che non avevano rivali.

Si credeva in quei tempi che le spugne fossero semplicemente delle piante marine, mentre si potè poi constatare che sono formate da colonie di animaletti al pari del corallo.

Curiosissima è la produzione di queste spugne che tappezzano il fondo del Mediterraneo, il luogo da loro preferito, mentre negli altri mari, eccettuato in quello Rosso, non si trovano che raramente ed in così piccola quantità da non valere la pena di raccoglierle.

Talune si riproducono per germi staccatisi dalla spugna madre e che dopo d'aver errato per qualche tempo in balìa dei flutti e delle correnti, si fissano alla base d'uno scoglio, formando delle colonie che si sviluppano con rapidità prodigiosa. Altre invece si producono per gemme che spuntano sulla spugna madre, nella stessa guisa delle piante che formano dei rami che poi non tardano a riunirsi. Anche la loro organizzazione è svariata. Molte ve ne sono che immedesimati nello scheletro contengono corpi calcarei e frammenti silicei chiamati spiculi e che costituiscono il sostegno della gelatina vivente. Altre invece, e sono le più pregiate, si formano senza sostegni di sorta.

La quantità di spugne che si pesca tutti gli anni è enorme e tuttavia non accenna a scemare tanto è rapida la loro riproduzione. Non sono però tutte pregiate, anzi molte sono scadentissime, specialmente quelle che contengono frammenti calcarei e sono per lo più assai grossolane. Le migliori sono quelle a scheletro corneo che preferiscono le acque del Mediterraneo meridionale. La più pregiata è quella morbida che si pesca sulle coste della Siria e che viene chiamata spugna di Venezia; poi quella che si pesca nell'Arcipelago greco, che raggiunge talvolta un diametro di sessanta e anche di settanta centimetri e che viene chiamata la Greca; ultima quella che si raccoglie sulle coste barbaresche e che viene chiamata la Marsiglia. Se ne pescano oggidì ed in abbondanza anche nell'America australe, specialmente nei canali magellanici, però non sono così belle come quelle che si producono nel Mediterraneo.

Tutte, prima di essere messe in commercio, devono subire molte cure, essendo quasi sempre mescolate a pezzi di conchiglie e contenendo nel loro interno sabbie e frammenti calcarei o silicei ed un trattamento speciale con acidi onde renderle più bianche e quindi più pregiate.

La pesca, in quella piccola baia, sembrava abbondante. Le draghe che risalivano a bordo apparivano piene e anche i palombari tornavano alla superficie colle braccia cariche.

Ma quali fatiche dovevano affrontare quei disgraziati e sotto quel sole implacabile che bruciava i loro dorsi nudi solcati da lividure prodotte dagli staffili dei loro crudeli padroni, soprattutto quelli incaricati a ritirare le pesantissime draghe! Nemmeno d'altronde i palombari si trovavano meglio e si vedevano risalire a galla sfiniti e sovente mezzi soffocati, cogli occhi schizzanti dalle orbite.

— E quelli sono dei nostri — disse Testa di Ferro, che guardava con compassione quei poveri diavoli ai quali i loro padroni non concedevano un istante di riposo.

— Tutti cristiani, — rispose il Normanno, — e questi sono i più fortunati. Almeno hanno qualche capanna dove ripararsi alla notte, non essendovi bagni qui.

— E li chiamate fortunati, con tutte quelle scudisciate che grandinano sui loro magri corpi!

— Sono inezie in paragone ai tormenti che subiscono quelli rinchiusi nei bagni.

— Quante infamie! — esclamò il barone. — E gli Stati cristiani le tollerano, mentre potrebbero, con uno sforzo supremo, spazzare via e ridurre alla ragione queste canaglie. Speriamo che il giorno non sia lontano.

Il Normanno crollò il capo in segno di dubbio e diede il comando di approdare. Deidjeli, anche in quel tempo, non era che una semplice borgata di pochissima importanza, frequentata solamente da poche feluche che importavano merci tunisine e che esportavano le spugne che si pescavano nella sua rada, l'unica risorsa di quegli abitanti.

Si componeva di poche centinaia di casette bianche, senza finestre, con cortiletti interni e terrazze sulla cima, dove gli abitanti si raccoglievano alla sera a respirare un po' di brezza notturna e di due o tre moschee sormontate da esili minareti, dai quali i muezin lanciavano nello spazio le loro preghiere. Vi era però molta animazione sulla spiaggia, dove si vedevano già montagne di spugne messe a seccare. Mori, barbareschi, beduini delle regioni sahariane, avvolti in candidi mantelloni e con enormi turbanti sui capi rasati, discutevano animatamente coi pescatori che giungevano coi loro carichi. Il Normanno, la cui navicella era conosciuta, sbarcò tranquillamente, accompagnato da due uomini, mescolandosi ai gruppi. Gli premeva soprattutto di farsi notare per poter, all'accorrenza, provare che egli era salpato dai porti barbareschi anziché da quelli italiani.

Fece i suoi acquisti di spugne e di viveri, offrì del caffè alle persone di sua conoscenza, fece la sua preghiera in mezzo alla via e le sue abluzioni prescritte dal Corano come se fosse un fervente maomettano ed a mezzodì tornò a bordo dopo aver annunciato a tutti la sua partenza per Algeri.

— Ecco fatto — disse al barone che lo attendeva nella cabina, non senza qualche ansietà. — Mi sono procurato sufficienti testimoni del mio sbarco in questa borgata e della mia fede in quel briccone di Maometto.

— Quando salpiamo?

— Dopo il pasto. Se mi fosse possibile e per evitare noie e sospetti, vorrei tentare di entrare in Algeri questa notte. Avremo delle nubi questa sera e l'oscurità sarà profonda. Entrati nel porto e confusi fra i tanti navigli che lo ingombrano, chi si occuperà di noi? Che cosa ne dite?

— Mi rimetto interamente a voi — rispose il barone.

— Talvolta i barbareschi sono molto noiosi e assai curiosi e un sospetto fa presto a germogliare nei loro cervelli, quantunque io possa sempre provare d'aver frequentato, per tre anni, i porti della Barberia. E voi sapete che cosa può produrre una pulce introdotta nell'orecchio di quei furfanti.

— Conduce al palo se non di peggio.

— Sant'Isidoro ci protegga — borbottò Testa di Ferro, rabbrividendo. — Ci siamo imbarcati in una bella avventura.

Pranzarono sul ponte, all'ombra delle vele e verso le due pomeridiane il Solimano salpava l'ancora uscendo, leggero come un alcione, dalla piccola rada.

Frescava sempre da levante, sicché la feluca potè prendere una corsa velocissima lungo la costa africana, senza aver bisogno di ricorrere alla faticosa manovra delle bordate.

Qualche piccolo veliero barbaresco radeva la spiaggia verso il capo Carbone forzandosi di accostare il porticino di Bugia. Al largo invece, nessuna nave, giacché le galere barbaresche sempre in agguato, si tenevano fuori per sorprendere e dare addosso a tutte quelle navi le cui nazioni non avevano trattati vergognosi coi bey di Tunisi, Tripoli, Algeri e Tangeri e che si risolvevano in grossi tributi.

Dei branchi di delfini e di pescispada apparivano invece a fior d'acqua, giuocherellando fra le spume delle onde, mentre in alto volteggiavano alcioni e fregate, descrivendo curve e giri fulminei.

Durante tutto il giorno il Solimano seguì la costa, sulla quale apparivano di quando in quando dei villaggi e qualche fortino, poi dopo il tramonto si spinse al largo per non farsi avvistare dalle galere di guardia che durante la notte incrociavano dinanzi ad Algeri per dare la caccia ai fregatari ed impedire le evasioni, non molto rare, degli schiavi cristiani.

Come il Normanno aveva predetto, appena scomparso il sole, una nuvolaglia nerissima si era sparsa pel cielo, cacciata innanzi dal vento di levante, sicché l'oscurità era diventata profondissima.

— Ecco un tempo propizio per cacciarci in Algeri senza farsi scoprire — disse il fregatario, guardando il cielo. — Che nessuno accenda il fuoco, per nessun pretesto ed io rispondo di tutto. Fra quattro o cinque ore noi saremo nella rada.

Il barone provò una stretta al cuore.

— Che le galere siano già giunte? — gli chiese, con voce alterata.

— Certo — rispose il Normanno. — Avevano un vantaggio considerevole su di noi.

— Avranno allora fatta la ripartizione degli schiavi.

— Non la fanno all'atto dello sbarco, signore; prima li conducono ai bagni dove vi rimangono talvolta delle settimane.

— Mia povera Ida, dove potrò ritrovarti io? — sospirò il giovane.

— Parlate della contessina di Santafiora? — chiese il Normanno.

— Sì.

— Vediamo — disse il fregatario, dopo qualche istante di silenzio. — Il vostro servo mi ha narrato che l'ha rapita un moro, già suo schiavo.

— È vero.

— Come si chiama?

— Zuleik Ben-Abad.

— Un principe moro, mi ha detto Testa di Ferro. Se è un personaggio importante, l'avrà condotta nel suo palazzo ammenoché...

— Continuate — disse il barone.

— Il bey preleva per suo conto il dieci per cento sulle prede di guerra, compresi i prigionieri. La contessina era bellissima e potrebbe darsi che i funzionali del bey l'avessero scelta pel loro signore. In tal caso sarebbe ben difficile a strapparla dall'harem di un simile uomo.

— Zuleik non gliel'avrà ceduta a nessun patto. Egli l'ama alla follia.

— Nessuno potrebbe resistere agli ordini od agli agenti del bey, il quale ha il diritto di fare la prima scelta sui prigionieri.

— Voi mi atterrite.

— Io non ho fatto che una semplice supposizione, signor barone. Può darsi che quel moro, valendosi delle sue influenze e della sua posizione, l'abbia sottratta e tenuta per sé.

«Zuleik Ben-Abad! Questo nome non mi sembra nuovo, almeno quello degli Abad. Se è un principe moro avrà un palazzo, sarà noto e non ci sarà difficile a trovarlo.

«Non disperiamo troppo presto, signor barone. Quello che vi raccomando è di non pronunciare una sola parola italiana in presenza degli algerini, anzi sarà meglio che voi ed il vostro compagno vi facciate credere muti. E soprattutto nessuna imprudenza, nessun scatto checché accada, se vi preme condurre a buon fine la nostra impresa.

«Ah! Eccole le galere di guardia! Ora passeremo sotto il loro naso senza che se ne avvedano. Lo vedrete.»

Chiamò i suoi uomini e fece abbassare e staccare le vele latine, surrogandole con due piccole vele di tela nera, che si confondevano perfettamente colle tenebre e fece fare altrettanto ai fiocchi del bompresso.

Eseguita quella manovra, si mise alla barra del timone, non avendo fiducia che in se stesso.

Quattro punti luminosi, accoppiati a due a due, radevano lentamente l'orizzonte. Erano due gagliotte di guardia, incrocianti dinanzi la rada d'Algeri. Il Normanno esaminò attentamente la loro direzione, fece stringere il vento e slanciò risolutamente innanzi la sua feluca la quale, bassa come era e colle vele nere, non si poteva quasi scorgere.

Con tre lunghe bordate passò silenziosamente a trecento metri dalla gagliotta che incrociava verso il capo Malifa, senza che l'equipaggio barbaresco l'avesse scorta, poi imboccò la rada filando fra un gran numero di velieri allineati lungo le calate.

Si gettò in mezzo a tutte quelle navi, galere da guerra, galere mercantili, gagliotte, feluche, sciabecchi e andò a gettare l'ancora fra due orche.

Quella manovra era stata compiuta così rapidamente e così silenziosamente, che nessuno se n'era accorto.

— Eccoci nel cuore della piazza — disse il bravo marinaio, al barone. — Possiamo andare a dormire col cuore tranquillo, almeno per ora.