Le pantere di Algeri/Capitolo 30 - La trasformazione d'un guerriero

Capitolo 30 — La trasformazione d'un guerriero

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Capitolo 30 — La trasformazione d'un guerriero
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30.

LA TRASFORMAZIONE D'UN GUERRIERO


Il cabilo, aiutato dai negri, si era subito messo all'opera per improvvisare alla meglio una capanna di frasche per la principessa, la quale cadeva dal sonno, mentre il Normanno ed il barone accendevano un bel fuoco per asciugarsi le vesti che erano grondanti d'acqua.

Si divisero fraternamente le poche focacce di maiz, avanzate al mattino, poi tutti si coricarono sotto la guardia d'uno dei negri, a cui era toccato il primo quarto. Nessuno venne a turbare il loro sonno. Solamente verso l'alba una banda di sciacalli si divertì a offrire ai dormienti un diabolico concerto da nessuno desiderato, ma che fu subito fatto cessare con qualche colpo d'archibugio. Alle cinque erano tutti in piedi, raccolti attorno al fuoco, essendo le mattine piuttosto fresche in Algeria, specialmente nell'interno e presso i grossi corsi d'acqua.

Si trattava di prendere una decisione sul da farsi e senza troppo indugiare, mancando di viveri ed essendo il paese deserto. Dei giannizzeri non si preoccupavano ormai più, non essendo più ricomparsi.

— Quello che bisognerà procurarci innanzi a tutto, sono le cavalcature — aveva detto il Normanno. — Cavalli o mahari poco monta purché si trovino.

— A questo ci penso io — aveva risposto il cabilo.

— Spero che non andrai a prenderli al tuo duar.

— Non commetterò una simile sciocchezza — rispose il cabilo. — I tuoi nemici avranno lasciato dei cavalieri colà per riprenderci al nostro ritorno.

— Questo è certo — disse il barone.

— Andrò invece a cercarli presso una tribù mia amica che possiede oltre ad un gran numero di montoni e di cammelli anche parecchi cavalli berberi di razza.

— È lontana? — chiese Amina.

— Una diecina di miglia. Accampa nelle pianure di Bogar.

— In quattro ore potresti giungervi — disse il Normanno.

— Non chiedo tanto. Le mie gambe e anche quelle del mio negro sono buone.

Amina si era levata dalla fascia una borsa di seta assai gonfia.

— Vi sono qui cinquanta zecchini — disse, porgendola al cabilo. — Non mercanteggiare purché i cavalli siano buoni e soprattutto resistenti.

— Me ne intendo, signora, essendo stato allevatore.

— E non dimenticare di portarci dei viveri — disse il Normanno.

— Dove andremo poi? — chiese il barone, guardando Amina. — Ad Algeri?

— Osereste tornarvi? — chiese la principessa.

— Voi sapete che non è qui che si trova la contessa di Santafiora.

— Ah! è vero — mormorò la mora, con un sospiro. — Ma tornare ad Algeri per voi è voler cercare la morte.

— Sono già due settimane che io la sfido ogni giorno.

— Ma allora si ignorava che voi eravate un cristiano, mentre oggi tutti sanno che voi siete il barone di Sant'Elmo e poi, vi è mio fratello.

— Vorreste condannarmi a rimanere in questo deserto a ramingare pei duari?

— Ed io ed il mirab ed i miei uomini? — chiese il Normanno. — Non contiamo forse nulla? Vi abbiamo ben promesso di lavorare per la liberazione della contessa di Santafiora.

— Lo so, — rispose il barone, — nondimeno non potrei rassegnarmi a rimanere qui inoperoso. Qualunque cosa possa accadere, io tornerò in Algeri.

— E dopo ventiquattro ore sareste preso — disse il fregatario. — Da tutte le parti si veglierà attentamente e qualunque persona vi somigliasse, anche lontanamente, verrebbe arrestata. Che cosa ne dite, signora?

Amina che da qualche istante rimaneva silenziosa, tutta raccolta in se stessa, aveva alzato vivamente il capo, dicendo:

— Noi condurremo il barone in Algeri e sfiderò tutti a riconoscerlo.

— Eh! — fece il Normanno, guardandola con stupore.

— E ciò forse ci permetterà di introdurlo anche nella Kasbah e nell'harem del bey. Saremo però prima costretti a recarci in uno dei miei castelli per compiere la trasformazione. Si tratta solo di sapere se voi, barone, accetterete.

— Sono deciso a tutto pur di rientrare in Algeri — disse il giovane gentiluomo.

— E trovereste il mezzo di farlo entrare anche nella Kasbah! — esclamò il Normanno.

— Sì.

— È impossibile! Se voi foste capace di operare tale miracolo, la salvezza della signora di Santafiora non sarebbe che un giuoco.

— Questo miracolo si compirà e sfiderò anche Zuleik a riconoscere il barone.

— Spiegatevi signora — disse il gentiluomo.

— Se vi trasformassimo in una fanciulla, che cosa direste barone? — chiese Amina.

— Mille colubrine! — esclamò il Normanno, colpito da quell'idea. — E perché no? Siete giovane, imberbe, bello come una circassa, anzi meglio, come una uri del paradiso del Profeta e nessuno mai potrebbe supporre in voi un giovanotto.

— E ciò non m'impedirebbe di farvi accettare nell'harem come una schiava cristiana, una issir1 per esempio, se non come una beslemè.

Il barone era rimasto muto; Testa di Ferro invece rideva a crepapelle, pensando alla figura che avrebbe fatto quel giovane e valoroso guerriero nelle vesti d'una donna.

— Orsù, signor barone — disse il fregatario. — Vi sembra impossibile la cosa? O vi rincresce cambiare sesso? Pensate che si tratta della salvezza della signora di Santafiora. Entrato nella rocca, voi, valoroso, audace, intelligente, risoluto a tutto, potreste ben riuscire a farla fuggire.

— Sì, avete ragione — disse il gentiluomo. — Entrato nella Kasbah saprei ben io rapire la contessa a dispetto dei giannizzeri, degli eunuchi e delle guardie del bey. Potrò riuscire però nella trasformazione?

— Ne rispondo io — disse Amina. — E voi potrete entrare tranquillamente in Algeri, nonostante la più rigorosa sorveglianza, facendovi passare per una mia schiava. Chi oserebbe sospettare ancora in voi il barone di Sant'Elmo, il cavaliere di Malta vincitore di galere?

— Quale figura farò io?

— Stupenda, signore — disse il fregatario. — Ben poche fanciulle potranno vantarsi di essere belle come voi.

— Il barone di Sant'Elmo vestito da donna! — esclamò Testa di Ferro. — Riderebbero molto a Malta se lo sapessero.

— Signor Barbosa, — disse il Normanno, — si tratta di salvare la pelle e non esitereste nemmeno voi, malgrado tutte le vostre spacconate.

L'illustre discendente degli sterminatori barbareschi ritenne opportuno non fiatare.

— Ebbene, signor barone, siete, deciso? — chiese Amina.

— Farò tutto ciò che vorrete.

— Andremo nel mio castello di Top-Hané che si trova a mezza via fra Milianah e Blidah, e là compiremo la vostra trasformazione. Troveremo tutto ciò che ci sarà necessario e anche delle lettighe per recarci in Algeri come dame.

A mezzodì il cabilo ed il suo negro erano di ritorno. Conducevano dieci splendidi cavalli dalle lunghe criniere e di forme perfette, veri animali da corsa allevati nel deserto e perciò d'una resistenza a tutta prova e viveri in gran copia. Fu preparata rapidamente la colazione, poi tutti salirono in sella, compreso Ahmed il quale pareva che non avesse troppo sofferto per la lunga cavalcata del giorno precedente.

— Tu verrai con noi, — disse Amina ad Ibrahim — e non ti pentirai della perdita del tuo duar. Ho terre e castella in gran numero e tu sceglierai e avrai bestiami finché vorrai.

— Tu sei generosa signora, — rispose il cabilo, — ed io sono tuo servo fin d'ora.

— Al trotto! — gridò la principessa allegramente. — Se ritroviamo i giannizzeri, li faremo correre finché scoppieranno i loro cavalli.

Il cabilo aveva fatta una buona scelta. I dieci figli del deserto, appena lanciati, avevano presa un'andatura così rapida da percorrere facilmente quattro leghe all'ora, velocità quasi sconosciuta ai cavalli europei. La foresta fu attraversata senza aver incontrato alcuno, poi la pianura. La principessa, che doveva conoscere a menadito l'Algeria centrale, si era messa alla testa del drappello e lo guidava senza mai esitare sulla direzione da prendere. Alle tre del pomeriggio passavano ad oriente di Medeah impegnandosi fra le catene rocciose che separano questa cittadella da Milianah, senza rallentare la loro corsa vertiginosa. Il paese d'altronde in quell'epoca era ben poco abitato, non essendovi che pochissimi villaggi e gruppetti di duar e nessuna guarnigione da temersi, essendo tutte le forze del bey concentrate nelle città costiere, le sole che potessero correre qualche pericolo da parte delle galere maltesi, siciliane e spagnole.

Alle otto della sera, coi cavalli ancora in ottimo stato, non ostante quella lunghissima corsa, il drappello si arrestava dinanzi ad un castellaccio situato sulla riva d'un vasto stagno difeso da due torrette e da qualche bastione. Era il maniero di Top-Hané di proprietà dei Ben-Abad. La principessa, fattasi riconoscere dal maggiordomo, fece introdurre i suoi amici. Sua prima cura era stata di chiedere notizie di Zuleik, temendo che avesse mandato nei suoi possedimenti delle guardie onde impedirle di celare il barone, ma nessuno si era presentato al castello, né nessuno aveva udito a parlare del moro da lungo tempo.

Nondimeno non era forse prudente soffermarsi a lungo in quel luogo. Zuleik, non avendo trovato nel duar il barone, poteva sospettare che avesse cercato un rifugio nei castelli o nelle fattorie e spedire cavalieri dappertutto. Fu dunque deciso di rimanere colà solamente quella notte e di ripartire l'indomani per Algeri, prima che si spargesse la notizia dell'insuccesso dei giannizzeri. Per maggior sicurezza però, furono mandati nei boschi vicini gli schiavi del castello coll'ordine d'avvertire se dei cavalieri si mostrassero. Nondimeno anche quella notte passò senza allarmi. Probabilmente Zuleik aveva continuato ad inseguire i fuggiaschi lungo il corso del Keliff, supponendo che avessero cercato di raggiungere la baia d'Arzeu od Orano per imbarcarsi e tornarsene ad Algeri per mare.

L'indomani Amina, aiutata da alcune schiave, procedeva alla trasformazione del barone. Aveva fatto aprire gli enormi forzieri della famiglia, che teneva disseminati nei suoi castelli e nelle sue ville.

Oltre a splendidi costumi contenevano pure inestimabili tesori accumulati in Spagna dai suoi avi, conquistatori di Granata e di Cordova e vi aveva tratto quanto di meglio vi aveva trovato: vesti di seta d'una ricchezza inaudita, ricamate in oro e tempestate di perle, giubbetti splendidi con bottoncini formati da smeraldi e da rubini, fasce variopinte, mantelli d'ogni genere, turbanti multicolori. Aveva cambiato idea. Per allontanare ogni sospetto voleva trasformare il barone in una dama marocchina proveniente da Fez, invece d'una sua schiava.

— Vedendovi entrare in Algeri assieme a me, — aveva detto al gentiluomo, — potrebbero sospettare l'inganno o per lo meno avvertire Zuleik.

— È vero, signora — aveva risposto il Normanno che assisteva alla toletta del giovane. — Vostro fratello, che deve essere furbo, vorrebbe certo vedere chiaro in questa faccenda. Lasciate che conduca io il barone con una piccola scorta d'uomini vestiti da marocchini. La vostra compagnia potrebbe essere più pericolosa che utile, perché sono certo che vi si terrà gli occhi addosso, signora, e che ogni vostra mossa sarà spiata.

— Allora non mi consigliereste di condurre il barone nel mio palazzo.

— Oh! Non fate ciò, signora. Zuleik verrebbe subito avvertito.

— Dove andrò dunque ad alloggiare? — chiese il barone.

— Abbiamo il rinnegato in Algeri, un uomo fidato, signore e che vi rivedrà ben volentieri. Vi nasconderete in quella bicocca fino a quando avremo trovato il modo di potervi fare accogliere nella Kasbah.

— Di ciò me ne incarico io — disse la principessa. — Non mi sarà difficile, appoggiato con un buon regalo, decidere il capo degli eunuchi ad ammettervi nell'harem. Nulla può rifiutarsi ad una principessa Ben-Abad. Ecco qui delle vesti che vi staranno molto bene indosso, signor barone. Farete una splendida figura.

Il barone aveva cominciata la sua toletta senza la menoma esitazione, quantunque provasse un certo dispiacere nell'indossare, lui, uomo di guerra, quelle vesti femminili. D'altronde si trattava di salvare non solo la vita, bensì anche di strappare dalle mani del bey la contessa e quel sacrificio s'imponeva. Indossò una ricchissima zuavina di seta rossa ricamata in oro e ornata di larghi e spessi galloni dorati, che gli si attagliava meravigliosamente e che strinse con una di quelle stupende fasce variopinte, infilò dei calzoncini di seta bianca, rigonfi e che gli scendevano fino al collo dei piedi, le babbucce di marocchino giallo e quindi un ricchissimo caffettano con maniche ampie adorne pure di ricami.

La principessa gl'intrecciò i biondi capelli secondo il costume di quell'epoca, formando due grosse trecce che adornò con pendenti formati da zecchini, gli tinse le unghie coll'hermé facendole diventare leggermente gialle e lucentissime e tracciò sotto i suoi occhi due linee con un pezzetto d'antimonio onde far meglio risaltare gli occhi.

— Meraviglioso! — esclamava il Normanno. — Ecco una fanciulla che farà girare delle teste! Chi potrebbe sospettare ora, in voi, signor barone, un uomo di spada?

— Signore — diceva Testa di Ferro. — Io non vi riconosco più e sarò fiero di scortare una così bella dama.

Il barone rideva, ma doveva convenire anche lui che quella trasformazione non poteva riuscire più perfetta. Coi suoi capelli biondi, i suoi occhi azzurri, le sue carni rosee e prive assolutamente della più leggera peluria, faceva uno splendido effetto.

— Una gran bella fanciulla! — esclamava la principessa, dando gli ultimi tocchi coll'antimonio. — Colpirete anche il capo degli eunuchi, il quale sarà ben lieto di ammettervi fra le beslemè della Kasbah.

Il barone, ritto dinanzi ad uno specchio di Venezia, si guardava stupefatto, senza parlare. Lui stesso non si riconosceva più.

— E così? — gli chiese la principessa, ridendo.

— Infatti è prodigioso — confessò il giovane. — Se questa idea vi fosse venuta prima, forse a quest'ora la mia missione sarebbe terminata.

— Credete che vi si possa riconoscere ora?

— No, è impossibile, vostro fratello non potrebbe sospettare in me il barone di Sant'Elmo.

— Potete rientrare in Algeri senza tema di venire scoperto — disse il Normanno. — I due cabili, il loro negro ed io vi faremo da scorta, vestiti da marocchini e basteremo per proteggervi.

— Ed io? — chiese Testa di Ferro.

— Tornerete colla principessa e ci raggiungerete più tardi dal rinnegato — rispose il fregatario. — Si potrebbe riconoscervi e mettere in pericolo tutti noi.

— Peccato! — esclamò il catalano. — Sarei stato orgoglioso di diventare il maggiordomo d'una così bella signora.

I due cabili ed il loro servo erano già pronti. Avevano indossato dei costumi marocchini, con immensi turbanti bianchi e cappe turchine e aspettavano a fianco d'una lettiga portata da due cavalli riccamente bardati.

Il Normanno in pochi minuti indossò un vestito da rifano, che la principessa aveva scovato in fondo ad uno dei suoi forzieri e che bene o male gli si attagliava, mettendosi nella fascia un vero arsenale di armi come usano quei fieri e bellicosi montanari.

— Signora, — disse il fregatario, nel momento di partire, — agite con prudenza e badate a vostro fratello il quale non mancherà di farvi spiare. I vostri negri conoscono la casa del rinnegato, di quell'uomo che una notte hanno rapito. Servitevi di essi, se siete certa della loro fedeltà.

Amina si era avvicinata al barone, il quale era già salito nella lettiga. Pareva profondamente commossa e un velo di tristezza si era steso sul suo bel viso.

— Quando ci rivedremo? — gli chiese.

— Quando lo desiderate, Amina — rispose il barone, stringendo la mano che ella gli aveva abbandonato. — Dovesse costarmi la vita, io verrò da voi, nel vostro istesso palazzo, dovessi affrontare vostro fratello, se voi lo vorrete.

— No — diss'ella, scuotendo la testa. — Vi ho protetto perché non vi uccidessero e facendovi venire da me non vi risparmierebbero. Un nuovo incontro fra noi, vi sarebbe forse fatale. Prima però che voi abbandoniate Algeri, se riuscirete nella vostra impresa, come spero, noi c'incontreremo un'ultima volta...

Si era interrotta. La voce le era diventata tremula e pareva che un singhiozzo le montasse e le facesse nodo alla gola.

— Dio è grande — disse poi, con accento rassegnato. — Non lo ha voluto.

Poi, liberando bruscamente la mano che il barone le stringeva, rientrò frettolosamente nel palazzo. Aveva gli occhi bagnati di pianto.

La lettiga, ad un cenno di Michele, a cui premeva interrompere quella scena troppo dolorosa per tutti, si era messa in cammino, preceduta dai due cabili e seguita dal negro.

Il barone si era coricato sui ricchi cuscini di seta, ancora assai commosso da quel colloquio colla bella mora e che forse poteva essere l'ultimo. Un sole torrido, che annunciava una giornata caldissima, versava una vera pioggia di fuoco sulla bianca e polverosa via che serpeggiava fra campagne coltivate a miglio ed a zafferano, senza un palmo d'ombra. In lontananza si vedeva qualche gruppetto di tende, qualche duar, nei campi invece nessun contadino, né schiavi.

Il drappello procedeva lentamente non potendo i muli della lettiga camminare troppo velocemente, imprigionati come erano fra le stanghe. Era il solo a percorrere quella via solitaria.

A mezzodì fece una fermata all'ombra di un gruppo di fichi che crescevano sul margine di un campo, per concedere un po' di sollievo agli animali e allestire la colazione.

Gli uomini erano però tutti così preoccupati che non scambiarono che poche parole.

Fu solamente verso le quattro che da un'altura scorsero gli alti minareti di Algeri, spiccanti vivamente fra l'azzurro purissimo del cielo e nuotanti fra una luce intensa ed acciecante.

— Coraggio, signore — disse il Normanno, che cavalcava a fianco della lettiga. — Non pronunciate alcuna parola e lasciate a me l'incarico di parlamentare colle guardie. Trattandosi d'altronde d'una dama e per di più d'una principessa, non oseranno guardarvi troppo insistentemente. D'altronde nessuno potrebbe riconoscervi.

Scesero la collina e marciarono verso la città, seguendo una larga via, ombreggiata da superbe palme e che conduceva alla porta d'occidente. Il negro aveva aperto un gigantesco parasole di seta rossa, indizio che era ai servigi di personaggi importanti. Come il Normanno aveva preveduto, la porta era guardata da un numeroso drappello di soldati guidato da un ufficiale. Ogni arabo o schiavo o moro che entrava od usciva veniva attentamente osservato e anche interrogato. Si sorvegliava attentamente colla speranza di sorprendere il barone che forse si riteneva il vero assassino del capitano generale delle galere. Il fregatario, dopo d'aver scambiato uno sguardo col signor di Sant'Elmo, si mise alla testa del gruppo mettendosi fieramente una mano sull'anca e assumendo un aspetto sdegnoso come si conveniva a un maggiordomo d'una famiglia principesca e per giunta marocchina.

L'ufficiale di guardia, scorgendo la lettiga e soprattutto l'ombrello di seta, si era accostato rispettosamente seguito da quattro soldati, facendo cenno al Normanno di arrestarsi. Questi, invece di obbedire, aveva gridato ben forte:

— Fate largo alla figlia del governatore di Udjda, la principessa Zamora Ain Faiba el Garbhi.

— Perdonate, ma io ho l'obbligo di osservare tutte le persone che entrano in Algeri, ordine del bey — rispose l'ufficiale cortesemente, ma anche fermamente.

— Anche le principesse? Farò rapporto al Sultano del Marocco, signore, sul modo con cui vengono accolti i suoi sudditi nell'Algeria.

— È l'ordine.

— Allora dite alla principessa, di abbassare il velo, se l'osate.

— Mi basterà vedere se è veramente una donna quella che si trova nella lettiga.

— Guardatela, dunque.

L'ufficiale s'accostò allo sportello e lanciò un'occhiata al barone, il quale aveva abbassato un po' il velo quel tanto che bastava per guardargli la fronte.

— Passate — disse, facendo cenno ai soldati di tirarsi da parte. — La salute sia con voi.

La lettiga si avanzò sotto la porta ed entrò in città sempre preceduta dal Normanno e fiancheggiata dai due cabili e dal negro.

— Eccoli ben giuocati — mormorò il fregatario, respirando liberamente. — Aspettate ora che entri il barone di Sant'Elmo.

Per non destare sospetti e temendo di essere seguiti da qualche spia, scesero verso il porto dove era facile far perdere le loro tracce fra la moltitudine di marinai, di soldati e di mercanti che lo ingombravano.

Uno spettacolo atroce però li attendeva, presso le calate della rada e che fece fremere il Normanno e soprattutto il barone.

Erano i corpi di cinque schiavi bianchi, infilati in pali di ferro e che ancora si agitavano fra gli ultimi spasimi d'un'agonia durata troppo a lungo. Per aumentare le loro torture, i carnefici, con una raffinatezza diabolica, li avevano spalmati di miele onde mosche e vespe aumentassero i loro tormenti.

Ed infatti sciami d'insetti ronzavano attorno a quei disgraziati che non avevano più la forza di alzare le mani, già gelide per l'imminente morte. Un cartello, appeso ai piedi di ognuno, portava scritto in arabo, a caratteri cubitali: «Impalati come uccisori del capitano generale delle galere, Culchelubi».

— Birbanti! — borbottò il Normanno che era diventato livido. — Non hanno avuto torto a chiamarvi, maledetti mussulmani, le pantere d'Algeri.

Fece affrettare il passo alle mule della lettiga, urlando alla folla che si accalcava, ed imprecando intorno agli assassini del feroce Culchelubi, di fare largo, premuroso di sottrarsi a quell'atroce vista che gli faceva accapponire la pelle e che gli produceva un profondo malessere.

Giunti sulla piazza del balistan, o mercato degli schiavi, risalirono verso le parti alte della città, avviandosi in direzione della Kasbah, nelle cui vicinanze, come sappiamo, si trovava l'abitazione semidiroccata del rinnegato. Vi giunsero al calar del sole. Il Normanno, prima di entrare, esplorò le vicinanze e rifece parte della via percorsa per accertarsi che nessuno li aveva seguiti, poi entrò nel cortile avendo trovata la porta aperta. Il rinnegato, come di consueto, stava semisdraiato su un mucchio di vecchi tappeti, in adorazione dinanzi ad un fiasco già in gran parte vuoto. Era il suo modo di consolarsi dei disprezzi che non gli lesinavano gli schiavi cristiani per aver rinnegata la sua fede e dell'isolamento in cui lo lasciavano i mussulmani, i quali ben di rado varcavano la porta della sua taverna, trattandolo come un essere immondo.

Vedendo entrare quel gruppo di marocchini e quella ricca lettiga, il povero diavolo era rimasto così sorpreso, che invece di accoglierli, si era alzato per fuggire nella bicocca. Un grido del Normanno lo arrestò.

— È così, che tu ricevi gli amici? — gridò il fregatario. — La Croce ti farebbe ormai paura?

— Michele! — esclamò lo spagnolo, accostandosi con passo malfermo, dubbioso ancora di non essersi ingannato.

— Lascia il tuo fiasco e aiutaci. Abbiamo fame, sete e anche sonno e una principessa marocchina da alloggiare nella tua stamberga. Va' a chiudere la porta innanzi a tutto e sbarrala per bene, poi porta una lampada.

— Ma sei proprio tu?

— Sì, nella pelle d'un marocchino.

— Sai che il mirab...

— Non si è più trovato nella sua cuba, lo so; cose vecchie amico mio. Va', spicciati.

Il rinnegato, che fra il vino bevuto e lo stupore pareva fosse diventato imbecille del tutto, finì coll'obbedire. Quando tornò colla lampada, per poco non la lasciò cadere vedendo una fanciulla riccamente vestita, senza velo in viso, seduta tranquillamente sull'ammasso di vecchi tappeti.

— Una dama nella mia casa! — esclamò, sbarrando gli occhi.

— Zitto, non gridare così forte — gli disse Michele. — E una dama che hai già ricevuto altre volte qui e che ha bevuto anche assieme a te quel vecchio Alicante che ti incretinisce.

— Non mi riconoscete dunque? — chiese il gentiluomo, levandosi la cappa col turbantino adorno di perle che gli copriva il capo.

— La voce del signor barone di Sant'Elmo! Ed io che temevo vi avessero ucciso! Se sapeste...

— Sappiamo anche questo — disse il Normanno. — Invece di chiacchierare come un pappagallo dà la cena a gente affamata. Porta quanto hai di meglio. Poi parleremo finché vorrai. Eccoti intanto dieci zecchini per rifornirti la cantina che deve essere quasi vuota.

La vista di quell'oro aveva messe le ali ai piedi del rinnegato. Tornò, portando una vecchia fiasca di Xeres che assicurava non trovarsene di migliore in tutta la Spagna e che era quanto conservava ancora nella sua dispensa.

— Ceniamo — disse il Normanno.


Note

  1. Schiave bianche o africane.