Le pantere di Algeri/Capitolo 2 - Zuleik
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2.
ZULEIK
Il castello dei conti di Santafiora, di cui oggidì non sussistono che insignificanti rovine, coperte ormai dalle male erbe e dalle sabbie, era nel 1630, epoca in cui comincia la nostra veridica istoria, una fortezza ancora solida, quantunque non troppo vasta e munita d'una sola torre. Costruito per impedire le frequenti incursioni dei corsari barbareschi, i quali avevano già più volte devastata l'isola di San Pietro, conducendo in schiavitù buona parte di quella misera popolazione, era stato dato in feudo ai conti di Santafiora, cavalieri di Malta, gente di spada che si erano distinti contro i saraceni in Sicilia e nelle acque tunisine e algerine.
Il conte Alberto, primo proprietario, aveva infatti reso importanti servigi coprendo dalle scorrerie di quei fieri predoni del mare non solo San Pietro, ma anche la vicina isola d'Antioco.
Suo figlio Guglielmo, soprannominato Braccio d'acciaio non si era mostrato meno valoroso del padre. Aveva sostenuto parecchi assedi, difendendo con vigore sovrumano il castello, aveva sfidato colle sue galere i più rinomati corsari tunisini ed aveva spinto la sua audacia fino a cannoneggiare i forti d'Algeri, audacia però che aveva pagata colla vita perché assalito dalle navi di Culchelubi, il più famoso capitano che avesse allora il bey, dopo un combattimento sanguinosissimo, aveva finito per soccombere assieme a tutta la sua gente ed ai cavalieri di Malta che l'accompagnavano.
Unica erede del maniero glorioso, era rimasta una bambina di sei anni, figlia di Guglielmo, la contessina Ida, affidata alle cure d'un lontano parente, dacché anche la madre era morta, uccisa da un colpo di colubrina, durante un assalto di barbareschi.
La fanciulla era cresciuta fra il rombo delle artiglierie, perché i corsari, istigati da Culchelubi, il quale ambiva di porre un piede anche sulla Sardegna, spento il valoroso conte, erano tornati più volte alla carica per impadronirsi dell'isola e soprattutto del castello.
Il valore però dei cavalieri di Malta, che erano sempre accorsi ad ogni richiesta della fanciulla, che si trovava impotente a far fronte a tanta tempesta, aveva rintuzzato le brame dei corsari, con sanguinose disfatte di cui questi se n'erano ricordati per lunga pezza.
Fra quei valorosi, accorsi colle loro galere in soccorso della giovane contessa, primo fra tutti era stato il barone Carlo di Sant'Elmo, un prode gentiluomo siciliano, creato cavaliere di Malta appena ventenne. Le prove di valore date da lui negli ultimi combattimenti, la sua bellezza, la nobiltà del suo sangue, non avevano tardato a produrre nell'animo della contessina una profonda impressione. Giovani, belli entrambi, figli di scorridori del Mediterraneo, soli al mondo dacché i loro padri erano morti entrambi nella spedizione d'Algeri, dovevano ben presto intendersi... ed i loro cuori avevano palpitato d'una passione d'intensità eguale.
La felicità pareva che dovesse loro arridere e Carlo aveva già armata la sua galera per andare a chiedere la mano della giovane contessa, quando sorpreso da una tempesta aveva dovuto cercare un rifugio alla sua nave maltrattata, nel golfo degli Aranci.
E non era stata la sola disgrazia. Come abbiamo veduto, un'altra e ben più grave, l'aveva sorpreso: la notizia recata da un pescatore, che i corsari barbareschi, i quali non avevano forse rinunciato ancora alla speranza di rendersi padroni del castello, stavano per piombare, come uno stormo d'avvoltoi, sulla disgraziata isoletta già tanto duramente provata.
Nel momento in cui la scialuppa del barone avvistava da lungi San Pietro e scopriva la feluca corsara, la contessina di Santafiora stava sul terrazzo del castello, seduta su una di quelle ampie poltrone di broccato ad alta spalliera, sormontata dallo stemma della casa ed i piedi posati su un cuscino di seta cremisi.
Era una splendida fanciulla di diciassette anni, di statura piccola e pieghevole come un giunco, colle gote pallide, con una leggera tinta rosea che faceva pensare ai chiarori dell'alba, cogli occhi d'un nero intenso, dolci e vividi ad un tempo, con lunghe palpebre che lasciavano cadere la loro ombra sul viso. A pochi passi di distanza, un giovane dalla pelle assai bruna, coi capelli nerissimi e cresputi, dai lineamenti arditi e di una regolarità perfetta ed il mento appena ombreggiato da una barbetta rada, stava coricato su un tappeto, tenendo sulle ginocchia una chitarra dal manico lunghissimo, una tiorba algerina. S'indovinava in lui l'africano o meglio il moro barbaresco, un figlio di quella terribile razza di conquistatori che avevano portate le loro armi in Spagna spingendosi fino nel cuore della Francia.
Ne indossava d'altronde il costume: turbante di seta rigata sul capo, giacca verde a ghirigori d'argento, calzoni ampi di mussola rossa ed ai piedi babbucce di cuoio giallo. Le sue mani, piccole e nervose, toccavano di quando in quando, quasi distrattamente, le corde di seta della tiorba, traendo dei suoni dolcissimi, poi s'interrompeva per guardare, come estasiato, la giovane contessa, la quale teneva invece gli occhi fissi sul mare.
Di tratto in tratto però gli occhi del moro s'accendevano improvvisamente ed un lampo selvaggio illuminava le nere pupille, mentre le sue labbra sottili si contraevano, mostrando una superba dentatura che non avrebbe sfigurato in bocca ad una pantera.
Allora non guardava più la contessa. Quegli occhi neri, che rilucevano come carboni si portavano sul mare, arrestandosi sulla feluca che s'allontanava, dopo i segnali scambiati, e un triste sorriso che pareva il ghigno d'una fiera in agguato, che già assapora il sangue della preda, appariva sul suo fosco viso. La signora di Santafiora, pareva che non si occupasse del moro. Anch'ella guardava, con una certa ansietà, l'argentea superficie del Tirreno e la feluca che continuava le sue misteriose manovre.
— Zuleik — diss'ella ad un tratto, volgendosi verso il moro. — A chi credi che appartenga quel piccolo veliero che da tre sere si mostra presso le nostre spiagge e che all'alba scompare? Sai che io non sono tranquilla?
— Una misera feluca — rispose il moro, con accento quasi sardonico. — Come può spaventarvi, signora? Saranno pescatori di Cagliari o d'Antioco.
— E se fossero invece corsari barbareschi?
— Avete quattro colubrine sugli spalti del vostro castello e una sulla piattaforma della torre. Come potrebbe una così piccola nave osare accostarsi a tiro di cannone?
— Sarei però più tranquilla se Carlo di Sant'Elmo fosse qui colla sua galera.
Un lampo più terribile e più selvaggio dei precedenti, illuminò gli occhi del moro.
— Lo aspettate, signora? — chiese, facendo uno sforzo onde la sua voce apparisse calma.
— Sì: la sua galera deve essere partita da Malta — rispose la contessina, mentre un lieve rossore le imporporava le gote. — Si vedono volentieri i valorosi.
— Che sterminano la mia razza — disse il moro, coi denti stretti.
— Sono i tuoi che fanno la guerra ai nostri.
— Maometto lo vuole.
— E Dio arma il braccio dei nostri guerrieri per difendersi.
Il moro crollò le spalle e riprese a pizzicare la tiorba.
— Guardala quella feluca — rispose la contessa, la quale s'era alzata, appoggiandosi alla balaustrata di pietra del terrazzo. — Torna a virare di bordo come se avesse desiderio di tornare verso San Pietro.
— Vi ripeto che saranno pescatori cagliaritani, padrona.
— Eppure mezz'ora fa io ho veduto brillare per tre volte, sul ponte di quel veliero, dei lampi lucentissimi.
— Non ho veduto nulla.
— Eri sulla spiaggia allora tu.
— Quando i nostri pescatori algerini vanno di notte al largo, accendono dei fuochi sulla prora delle loro feluche per attirare i pesci — disse il moro. — Avrete scambiato quei lampi per fuochi.
— Eppure sono certa di non essermi ingannata, Zuleik.
Il moro sorrise e continuò a pizzicare la tiorba. Dalle corde di seta le sue dita magre e nervose non cavavano più suoni dolci. Erano suoni aspri e selvaggi che si seguivano precipitosamente come una fanfara di guerra. Pareva che il suonatore volesse imitare i terribili ruggiti del simun e del kasmin, o le urla feroci degli arabi quando eseguiscono le loro turbinose fantasie o le loro cariche irresistibili.
Pareva che quei suoni producessero anche sul suonatore un effetto profondo. Il suo viso aveva contrazioni feroci, i suoi occhi mandavano bagliori fosforescenti, tutto il suo corpo fremeva e le sue labbra si aprivano come se dal suo petto fosse lì lì per irrompere quel tremendo urlo di guerra dei mori, che un giorno aveva fatto tremare tutti i guerrieri dell'Europa cristiana.
— Che cosa suoni? — chiese la giovane contessa.
— Una fantasia del deserto — rispose il moro.
Continuò per qualche minuto ancora quella fuga di note stridenti e selvagge, ma ad un tratto dalla tiorba uscirono dei suoni dolcissimi, malinconici. Pareva che il moro volesse imitare il lontano mormorio delle onde ed i gemiti della brezza quando fischia attraverso le palme del deserto od il dolce mormorìo delle fontane.
D'improvviso le sue dita rimasero inerti sulla tiorba. Aveva chinata la testa sul petto, i suoi lineamenti poco prima alterati avevano ripresa la loro tranquillità, i suoi occhi si erano socchiusi. Si sarebbe detto che dormiva.
— A che cosa pensi, Zuleik? — chiese la contessa. — Sei ben strano questa sera.
— Pensavo in questo momento alla libertà perduta — rispose il moro con voce cupa. — Pensavo alla mia Algeri, alle infinite distese di sabbia del deserto, alle ridenti spiagge del mio paese, alle palme ombreggianti le moschee, ai cavalli scalpitanti fra i turbini di polvere delle fantasie, ai tranquilli duar delle nostre pianure.
«Quante notti rivedo in sogno il marmoreo palazzo de' miei avi coi suoi svelti porticati dove avevo trascorso felice e libero la mia giovinezza, il minareto che proiettava sul cortile la sua grande ombra e su cui, tutte le mattine e tutte le sere, il vecchio muezin lanciava nello spazio il suo grido; la fontana marmorea zampillante acqua purissima attorno a cui le donne di mio padre si radunavano alla sera a cantare; alla dolce figura di mia sorella; al grande palmizio sotto cui io andavo a giuocare o dove m'addormentavo sognando imprese gloriose e battaglie, armi lucenti e occhi profondi di fanciulle; a galere veleggianti sull'azzurro Mediterraneo cogli stendardi verdi del Profeta spiegati al vento; ai cavalli scalpitanti con guerrieri in groppa scintillanti di corazze e coi bianchi manti svolazzanti.
«Che cosa sarei diventato io un giorno, se il cristiano maledetto non m'avesse rapito al mio paese? Dove sono andati a finire tutti quei bei sogni di gloria e di conquista? Schiavo!... Sia maledetto il mio destino!... Queste mani, che erano state create per impugnare le mazze e le scimitarre; per brandire scudi e lance, per portare lo sterminio fra le genti che non credono al Profeta a che mi servono ora? A suonare la tiorba come fossi una femmina. Maledetto strumento, va'!»
Con un rapido gesto il moro aveva scagliata la tiorba al disopra della balaustrata, mandandola a fracassarsi nel fossato del castello.
— Zuleik! — disse la contessa, guardandolo con inquietudine. — Mi sembra che tu dimentichi che tu sei mio schiavo.
— Sicché al povero schiavo non è nemmeno permesso di ripensare al suo paese e di rimpiangere la perduta libertà? — chiese il moro con amara ironia.
— Io ti avevo promesso di renderti un giorno alla tua Algeri contro la resa d'uno schiavo cristiano. Tu soffri, e i nostri che il feroce Culchelubi tiene fra le mani, non patiscono e ben più di te? Di che cosa ti lagni infine? Ti ho trattato come un uomo libero, mentre i nostri vengono sferzati, torturati, uccisi dai tuoi compatrioti.
— Mi lagno di non essere libero ecco tutto — rispose il moro. — Io non ero nato per diventare uno schiavo, io nelle cui vene scorre il sangue dei conquistatori di Granata.
— Eppure non hai mai cercato di fuggire in questi due anni che sei presso di me e nemmeno quand'eri presso il cavaliere di Malta che ti aveva fatto prigioniero.
— Il maltese aveva gli sguardi troppo acuti per potermi sottrarre alla sua vigilanza e poi a Malta non approdano le galere dei miei compatrioti — rispose il moro.
— E perché non hai tentato di andartene dopo? Le scialuppe del castello non sono mai state guardate e la libertà presso di me l'avevi, almeno di girare per l'isola senza sorveglianti.
— E credete che non l'avrei tentata la fuga? — chiese il moro. — Sono figlio d'un uomo di mare ed il Mediterraneo non ha mai fatto paura a Zuleik Ben-Abad.
Tacque un momento, passandosi e ripassandosi una mano sulla fronte, poi riprese con voce dolce:
— Se quella fanciulla che turba i miei sogni non m'avesse ammaliato, Zuleik Ben-Abad da gran tempo avrebbe attraversato il Tirreno e sarebbe rientrato nella casa di suo padre.
— Una fanciulla! — esclamò la contessa, guardandolo con sorpresa.
— Sì, una donna, bella come una uri del paradiso del Profeta, che mi darà o la felicità immensa o la sventura più triste. Per lei ho soffocato i ricordi della mia famiglia; per lei ho preferito rimanere qui schiavo che uomo libero in Algeri e mai ho pensato alla fuga. Ella m'ha stregato e m'ha dannato l'anima a segno che rinnegherei senza rimpianti, purché diventasse mia, perfino la religione dei miei padri e maledirei il Profeta che mi ha fatto nascere mussulmano.
— Tu, un moro! — esclamò la contessa. — È, dunque una cristiana quella donna?
— Sì, per mia sventura — rispose Zuleik.
— Dove vive?
— Qui, su quest'isola: io respiro l'aria che ella respira ed il sole che la illumina dà pur la luce ai miei occhi.
— La figlia di qualche pescatore?
Il moro fece un gesto di supremo disprezzo.
— Nel mio paese, mio padre era principe e principe sono nato anch'io — disse Zuleik con orgoglio. — I califfi di Cordova e di Granata hanno mescolato il loro sangue nobile e guerresco con quello dei miei avi.
«La mia famiglia ha in Algeri palazzi e cavalli e galere sul Mediterraneo; schiavi negri e cristiani e uomini d'armi; e terre nel deserto e terre sulle coste e gioielli da far impallidire tutti quelli che vantano i principi d'Europa. Come potrei io avere posato gli occhi sulla figlia d'un misero pescatore? Forse perché oggi sono uno schiavo? Ma domani le mie catene potrebbero essere spezzate ed io tornerei principe e potente ancora.»
— Allora quella fanciulla non vive qui — disse la contessa. — Qui non vi sono che povere famiglie. Io credo, mio povero Zuleik, che il tuo cervello sia ammalato quest'oggi. Va' a chiamare le mie donne e tu va' a riposare.
— Questa sera! — disse il moro, con accento così strano che colpì profondamente la giovane castellana. — Che cosa vuoi dire, Zuleik?
Il moro si era morso le labbra, pentito forse che quelle parole gli fossero sfuggite.
— Parla Zuleik — disse la contessa, con voce imperiosa.
— Sì, il mio cervello deve essersi guastato — rispose il moro, con voce lenta. — Ho troppo fantasticato oggi: devo essere pazzo.
In quell'istante verso la spiaggia si udì lo squillo d'un corno e subito dopo la scolta della torre a gridare:
— All'armi!...
La contessa si era alzata precipitosamente in preda ad una visibile emozione, curvandosi sulla balaustrata del terrazzo.
— Chi può sbarcare a quest'ora? — si chiese. — Zuleik, va' a destare gli uomini d'arme. Guarda: ecco la feluca che si accosta ancora. Che siano i tuoi compatrioti che tentano una sorpresa?
— Sono cristiani — rispose il moro, mentre la sua fronte si aggrottava.
— Come lo sai tu?
Una voce squillante si era alzata per l'aria tranquilla: — Calate il ponte al barone di Sant'Elmo.
— Lui! Carlo! — aveva esclamato la contessina, mentre sul suo bel volto passava un rapido fremito e si portava una mano sul petto, come per comprimere i palpiti del cuore. — Lui!
Il viso del moro si era invece fatto torvo, assumendo un aspetto feroce. Un rauco suono, come una bestemmia a malapena repressa, gli era sfuggita dalle labbra contratte.
Chiuse per un momento gli occhi e le sue mani si strinsero violentemente come se cercassero l'impugnatura di un'arma.
Ad un tratto però si riaprirono fissandosi sul mare. La feluca muoveva silenziosamente verso l'isola rapida e leggera come una freccia e sul lontano orizzonte si vedevano vagamente dei punti bianchi che la luna faceva risplendere. Un lampo di gioia selvaggia illuminò le pupille dello schiavo.
— Eccole le pantere — mormorò. — Guatano già il castello e preparano le scimitarre. Hanno sete di sangue cristiano.
Il ponte era stato calato sul fossato con un cupo fragore di catene e di ferramenta ed il capo d'armi seguito da quattro scudieri muniti di torce, si era mosso incontro al barone ed ai suoi marinai, dandogli il benvenuto a nome della castellana.
— Qual vento vi ha portato qui, signor di Sant'Elmo, ad un'ora così insolita? — chiese il guardiano. — Nessuno vi aspettava.
— Un pessimo vento, mio vecchio Antioco — rispose il giovane gentiluomo. — È vento che soffia da Algeri.
— Che cosa dite, signore? — chiese il capo d'armi, impallidendo.
— Rialza e barrica il ponte, fa' caricare le colubrine e sveglia tutta la servitù e se puoi manda a chiamare i pescatori che sono validi a portare le armi. I barbareschi sono già in vista dell'isola. Dov'è la tua padrona?
— V'aspetta nella sala azzurra, signor barone.
— Signor Antioco — disse il catalano. — Non dimenticate che siamo affamati e soprattutto assetati e che a ventre vuoto si combatte male.
— Avrete tutto quello che vorrete, signor Barbosa — rispose il capo d'armi.
Il barone, preceduto da due scudieri, aveva intanto attraversato rapidamente il cortile d'onore, salendo poscia il gran scalone che conduceva agli appartamenti superiori.
La contessina di Santafiora, in preda ad una profonda emozione che dava maggior risalto al suo bellissimo viso, tutta chiusa in una lunga veste di seta rosa a pizzi di Murano, coi lunghi capelli bruni raccolti intorno ad un piccolo pettine di argento che raffigurava una corona, l'aspettava nel salotto azzurro che era illuminato da pesanti doppieri d'argento.
Zuleik, col viso fosco, i lineamenti contratti, stava ritto nella parte meno illuminata del salotto, in attesa degli ordini della sua padrona. Pareva però una belva in agguato ed i suoi occhi si tenevano fissi sulla giovane contessa con una indefinibile espressione di inquietudine e di adorazione. Quando il barone entrò, coll'elmo piumato in mano e la sinistra posata fieramente sulla guardia della spada, la contessa non potè trattenere un piccolo grido di gioia.
— Voi, Carlo! — esclamò, muovendogli incontro. — Quale lieta sorpresa! Il mio cuore non m'ingannava.
— Perché dite questo Ida? — chiese il gentiluomo, baciando galantemente la piccola mano che ella gli porgeva. — Mi aspettavate voi dunque?
— Non questa sera, ma presto di certo. Da parecchi giorni spiavo la comparsa della vostra galera, mio prode. Noi donne presentiamo anche da lungi l'avvicinarsi di coloro che ci amano.
— Disgraziatamente non sono giunto colla mia nave — rispose il barone. — Una tempesta mi ha guastato il timone ed ho dovuto cercar rifugio nel golfo degli Aranci. Se ciò non fosse avvenuto, sarei qui giunto sino da ieri e forse i mori d'Algeri non avrebbero osato riaccostarsi.
— I mori! — esclamò la contessa.
— Stanno per giungere.
— Dunque quella feluca che da tre sere veleggia silenziosa, come un uccello di cattivo augurio, sarebbe...
— L'avanguardia di qualche flotta.
— Chi ve lo ha detto Carlo?
— L'ho saputo da un pescatore.
— E voi siete subito accorso?
— A difendere od a morire assieme alla mia fidanzata — disse il barone.
— Dunque si preparano ad assalire il mio castello?
— Ne ho la convinzione, ma non temete Ida. Ho condotto con me pochi uomini è vero, però sono i più prodi del mio equipaggio e daranno ben da fare ai barbareschi.
— Voi siete un valoroso, Carlo.
— Sono uomo di guerra e cavaliere di Malta. Peccato che quei corsari vengano a guastare questi istanti di felicità — disse il barone guardando dolcemente la contessa. — Anelava l'istante di rivedervi, di passare qui qualche giorno al vostro fianco, mia adorata, ed ecco che quei pirati del Mediterraneo vengono a gettare una triste ombra sulle nostre gioie. Questo castello che doveva risuonare di grida festose, risuonerà invece di urla di guerra e di colpi di colubrina, di fragor d'armi e di gemiti di moribondi.
— Noi vinceremo, Carlo. La vostra spada valorosa, fugherà una volta ancora le pantere d'Algeri.
— Quanti uomini vi sono qui?
— Una ventina, fra cui dodici uomini d'armi.
— Sicché coi miei siamo in trentaquattro — disse il barone, la cui fronte si era abbuiata. — Ben poca cosa di fronte ai barbareschi che piomberanno qui numerosi e con grosse artiglierie.
— Signore — disse in quell'istante il moro, facendosi innanzi. — Mi permettereste un consiglio?
— Ah! Sei tu, Zuleik! — esclamò il barone. — Non m'ero nemmeno accorto della tua presenza. Che cosa vuoi dire?
— Che nell'isola vi sono più di duecento pescatori, uomini robusti, che più o meno hanno battagliato e che potrebbero aumentare la guarnigione del castello.
Il barone lo guardò con stupore.
— E sei tu che proponi questo, un moro che dovrebbe anzi essere lieto di vedere i suoi compatrioti entrare qui.
— Non desidero più ora la libertà — rispose Zuleik.
— Eppure pochi momenti fa tu la rimpiangevi — disse la contessa.
— La vorrei, ma non solo.
— Ah! La vorresti colla fanciulla o colla donna che ti ha stregato.
Il moro fece col capo un lieve gesto affermativo, poi continuò:
— Se il signor barone di Sant'Elmo volesse seguirmi alla borgata intanto che gli altri preparano le difese, potremmo raccogliere in meno di mezz'ora duecento e forse più combattenti.
— Vediamo prima se i corsari hanno preso terra — disse il gentiluomo.
Uscirono tutti tre sul terrazzo del castello. Sugli spalti inferiori, i marinai della galera e gli uomini d'armi, s'affaccendavano a mettere in batteria due lunghe colubrine, le quali dovevano difendere la piccola cala ed impedire od almeno ritardare lo sbarco dei barbareschi.
Anche sulla cima della massiccia torre si vedevano agitarsi delle fiaccole, segno evidente che anche lassù, sulla piattaforma merlata, i difensori del castello piazzavano delle bocche da fuoco.
Il barone percorse il mare con un rapido sguardo, cercando la feluca e la vide bordeggiare verso l'estremità meridionale dell'isola, a circa trecento metri dalla costa. Ad un tratto impallidì.
Aveva scorte in lontananza delle vele che s'avanzavano dal sud e che muovevano verso l'isola.
— Le galere dei barbareschi! — esclamò.
— Vengono? — chiese la contessa, stringendosi presso di lui con un moto istintivo.
— Guardatele, Ida.
— Molte, Carlo?
— Non le posso contare, perché veleggiano in gruppo serrato e poi perché sono ancora troppo lontane. Ma certamente sono parecchie.
La giovane guardò il gentiluomo: nei suoi occhi neri e profondi si leggeva un terrore intenso, un'angoscia inesprimibile.
— Se ci opprimessero? — chiese, con voce tremante. — Oh mio Carlo!
— I bastioni e le muraglie del castello sono robuste, — rispose il barone, — ed i nostri petti sono saldi. Come abbiamo respinto altre volte quei predoni del mare, li vinceremo ancora.
— Ma allora vi erano i cavalieri di Malta.
— Il coraggio supplirà il numero, Ida — disse il gentiluomo. — E poi la mia galera non è lontana ed i miei uomini, udendo il rombo delle artiglierie, accorreranno più presto. A quest'ora il timone deve essere stato riparato. Zuleik, andiamo a raccogliere i pescatori ed avvertire le loro famiglie d'imbarcarsi senza ritardo e di riparare sulle coste della Sardegna. Saranno ancora in tempo di mettersi in salvo.
— E se gli uomini della feluca fossero di già sbarcati? — chiese la contessa.
— Non scenderanno a terra prima che giungano le galere — disse Zuleik, mentre un perfido sorriso gli appariva sulle labbra. — Signor barone sono ai vostri ordini e facciamo presto.
— La sala d'armi è ben fornita, è vero, Ida? — chiese il gentiluomo.
— Può bastare per duecento combattenti.
— Andiamo, Zuleik. Prima che le galere giungano qui ci vorrà un'ora e questo tempo ci basterà.