Le pantere di Algeri/Capitolo 3 - Il tradimento del moro

Capitolo 3 — Il tradimento del moro

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Capitolo 3 — Il tradimento del moro
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3.

IL TRADIMENTO DEL MORO


Due minuti dopo il giovane barone ed il moro, montati su due cavalli focosi, attraversavano il ponte levatoio che era stato riabbassato e lasciavano il castello, seguendo la spiaggia dell'isola.

La contessa, dall'alto del terrazzo, li aveva seguiti cogli sguardi, non senza inquietudine, temendo che qualche drappello di moreschi fosse sbarcato inosservato e che si tenesse imboscato nelle vicinanze del maniero. Il gentiluomo non era molto tranquillo, quantunque vedesse sempre la feluca a bordeggiare verso le coste meridionali dell'isola. Per essere più pronto aveva sguainata la spada e si era passato sul davanti della fascia di pelle il pugnale.

Anche il moro, prima di lasciare il castello, si era armato di spada e di pugnale, si era cinto una corazza d'acciaio che non doveva avere meno spessore di quella del gentiluomo.

Girati i boschetti e le rupi che coprivano il fianco sinistro del castello, si erano spinti nuovamente verso la spiaggia per dare un ultimo sguardo al mare. Le galere muovevano verso la feluca la quale segnalava la sua presenza facendo scintillare alla luce lunare uno specchio di metallo che aveva collocato a prora. Erano però ancora lontane e non s'avanzavano che con lentezza, essendo la brezza debolissima.

— Avremo tempo — disse il barone.

— Sì, signore, più di quanto ci occorre — rispose il moro.

Salirono le dune e si rimisero in cammino, l'uno a fianco dell'altro, montando verso il settentrione, sulle cui rive in quel tempo sorgeva il villaggio dei pescatori.

Non vi erano che un paio di chilometri da percorrere, forse meno, ed essendo, tanto il barone che il moro, bene montati, vi potevano giungere in dieci minuti.

— Al galoppo — disse il gentiluomo, spronando il cavallo.

Il castello era già scomparso, trovandosi dietro un folto bosco di maestose querce da sughero, alberi che in quel tempo coprivano ancora buona parte dell'isola.

I due cavalli, quantunque il suolo sabbioso si prestasse male ad una rapida corsa, divoravano la via con slancio irresistibile.

Avevano già percorsa quasi mezza distanza fra il castello e la borgatella seguendo sempre la riva del mare, quando quello del moro fece un improvviso scarto e si piegò sui garretti sotto una poderosa strappata.

— Che cosa fai, Zuleik? — chiese il barone.

— Una cosa semplicissima, signore — rispose il moro, mentre il gentiluomo tratteneva il proprio cavallo. — Vi sbarro la via.

Nel medesimo istante levava la spada dal fodero facendola scintillare minacciosamente ai raggi della luna.

— Mi sbarri la via! — esclamò il barone, stringendo la sua arma che, come si disse, teneva sguainata. — Quale capriccio è questo? Impazzisci, Zuleik?

— Signor barone — disse il moro, con voce cupa. — Uno di noi è di troppo su questa terra, perché la donna che voi amate non può appartenere che ad un solo uomo. Od io avrò la vostra vita o voi avrete la mia.

— Di quale donna intendi parlare? — chiese il barone, il cui stupore aumentava.

— Della donna che tormenta le mie notti e che brucia il mio cuore ed il mio sangue; della donna che mi ha stregato; della contessa di Santafiora.

— E tu, miserabile schiavo, oseresti...

— Il miserabile schiavo ha il sangue dei califfi di Cordova e di Granata ed era principe nel suo paese. La mia nobiltà vale la vostra, barone.

— Ah! Cane! — urlò il gentiluomo. — Sei stato tu ad accendere il fuoco e far segnali alla feluca.

— Sì, sono stato io.

— E sei stato tu ad attirare quei barbareschi.

— Sì, sono stato io — ripetè il moro.

— T'uccido! — urlò il barone, furibondo. — Rivale e traditore! Prendi!

Con una speronata fece fare al cavallo un salto improvviso che lo portò addosso a Zuleik e vibrò una stoccata un po' sopra il collare della corazza, credendo di sorprendere l'avversario, ma aveva trovato un competitore degno di lui. Il moro, forte ed agile e cavaliere insuperabile come lo sono tutti i figli del deserto, aveva fatto impennare bruscamente il cavallo il quale aveva ricevuto il colpo di spada nel collo.

Prima che il barone avesse potuto sbarazzare il ferro, a sua volta assalì con impeto disperato, tentando di colpire l'avversario sotto l'ascella e di attraversarlo da parte a parte non ostante la corazza. La punta invece scivolò sull'acciaio ed il colpo andò perduto.

— Lasciami il passo! — gridò il barone.

— No — rispose il moro.

— Le galere s'appressano!

— Non sono io che ho da temere, bensì voi.

— Lasciami il passo in nome di lei!

— Anzi è per lei che voglio uccidervi — rispose Zuleik, con accento implacabile.

Il barone caricava colla spada nella destra ed il pugnale nella sinistra, deciso a finirla. Fidente nella propria abilità e nella propria audacia, contava di sbarazzarsi presto del moro, quantunque si fosse accorto d'aver di fronte un uomo di spada che la gelosia e l'odio rendevano sommamente pericoloso. Dobbiamo però dire che non si era ancora rimesso dallo stupore, prima per quella rivelazione inattesa, poiché era mille miglia lontano dal sospettare che quell'uomo, uno schiavo, avesse osato alzare gli occhi sulla contessa, poi d'aver trovato in quel suonatore di tiorba un uomo di guerra capace di disputargli la vittoria.

Vedendolo caricare, Zuleik aveva cambiato bruscamente tattica. Invece di sostenere l'attacco, aveva lanciato il cavallo al galoppo, facendogli descrivere dei giri fulminei attorno al barone, per cercare di sorprenderlo alle spalle. Era l'attacco dei figli del deserto che solo un barbaresco poteva tentare con buona riuscita, essendo in quell'epoca, i mori d'Africa, i migliori cavalieri del mondo. Quantunque avesse il cavallo ferito, gli faceva descrivere dei giri e dei volteggi vertiginosi, roteando come un turbine attorno al giovane barone il quale aveva ben da fare a difendersi. Anche il siciliano, quantunque uomo di mare, era valente cavaliere, ma non da competere con un moro. Non era che con sforzi sovrumani, con furiose spronate e con strappate che laceravano la bocca, che riusciva a far volteggiare il proprio destriere in modo che presentasse sempre all'avversario la fronte. Avrebbe potuto però durare a lungo a quel vertiginoso attacco? Era quello che si chiedeva il barone con inquietudine. Cominciava a sconcertarsi per quella manovra assolutamente nuova per lui.

Invano, quando Zuleik stringeva il cerchio, menava stoccate furiose; incontrava sempre la corazza o la lama dell'avversario che le paravano.

— Zuleik! — gridò. — Vuoi finirla?

— Sì, la finirò, quando il vostro cavallo sarà stanco di girare su se stesso — rispose il moro, con un riso da jena.

— Che cosa vuoi infine da me? Trattenermi fino a che i barbareschi sbarcheranno?

— Voglio la vostra vita.

— Allora prendi, briccone!

Nel momento in cui il moro gli passava dinanzi, gli tirò un colpo sotto la cintura, là dove la corazza non poteva ripararlo, tentando d'inchiodarlo sulla sella. Zuleik però coll'abilità e colla prontezza d'uno spadaccino consumato rispose con tale rapidità che il barone ebbe lacerata la manica di seta verde in tutta la lunghezza, unitamente alla camicia. Il braccio del gentiluomo, un braccio bianco e tornito come quello d'una fanciulla, rimase quasi nudo.

— Bel colpo — disse, ridendo. — Ma sarà l'ultimo.

Con una strappata improvvisa costrinse il cavallo a piegarsi fino quasi a terra, liberò i piedi dalle staffe e con un volteggio che avrebbe fatto invidia ad un clown, balzò dalla sella.

— Ecco la tua manovra finita — disse.

Questa volta fu Zuleik che rimase sconcertato, giacché rimanendo a cavallo non poteva avere che ben poche probabilità di disfarsi del barone, il quale già mirava a sbudellargli il destriere per farlo cadere.

Risoluto però a non lasciarsi sfuggire la preda, a sua volta balzò dalla sella. Temeva di rimanere sotto il cavallo il quale da un momento all'altro poteva rovesciarsi su un fianco ed imprigionargli l'una o l'altra gamba.

— Vuoi lasciarmi andare? — chiese il barone, il quale pensava, con angoscia, che forse in quel momento i corsari stavano sbarcando ad assalire il castello.

— No — rispose il moro. Poi alzando la voce, tuonò:

— Per Allah e per Maometto! A me!

— Ah! Miserabile! — gridò il barone. — Chiami gli uomini della feluca!

— E fra poco saranno qui, — rispose Zuleik — e voi sarete morto. Uno contro venti o trenta, non resiste.

Il gentiluomo, quantunque valorosissimo, si sentì bagnare la radice dei capelli da un freddo sudore. Non era già la morte che gli faceva paura, era il pensiero che i barbareschi assalissero il castello senza che egli si trovasse là a difenderlo ed incoraggiare gli nomini d'arme ed i marinai maltesi colla sua presenza.

Si gettò contro il moro a corpo perduto, facendo appello a tutte le risorse della temibile scuola della spada. Assaliva con furore moltiplicando le stoccate, mirando a colpire l'avversario alla gola, il solo punto vulnerabile. Il moro si difendeva con accanimento senza pari, balzando a destra ed a sinistra come una tigre e rompendo ad ogni istante. Parava ora colla spada ed ora col pugnale e quando gli si presentava il destro, assaliva a sua volta portando colpi che mostravano una abilità non comune, cosa piuttosto rara fra i barbareschi i quali non avevano una vera scuola, contando esclusivamente sulla impetuosità dei loro attacchi. Le spade, maneggiate robustamente, perché anche il barone, non ostante il suo aspetto femminile, aveva le braccia solide, mandavano scintille, e le corazze, percosse con violenza, risuonavano con fragore metallico che si udiva in distanza. Ad un tratto il moro, che sempre incalzato, era stato costretto a indietreggiare senza tregua, si trovò sulle dune. Un pensiero gli balenò subito nel cervello. Si lasciò sfuggire il pugnale, s'abbassò verso terra come se volesse tentare un colpo di cartoccio; raccolse una manata di sabbia e la lanciò sul viso del barone, operando di acciecarlo.

Fortunatamente questi si era accorto di quell'atto ed ebbe il tempo a ripararsi gli occhi. Esasperato però da quel nuovo tradimento, piombò sul moro prima che questi avesse potuto rialzarsi e lo percosse con tale forza sull'elmetto, da rovesciarlo al suolo tramortito.

Stava per piantargli il pugnale nella nuca, quando dieci o dodici uomini, che dovevano aver salita la spiaggia carponi, balzarono fra le dune mandando urla selvagge e agitando mazze e scimitarre. — I barbareschi! — esclamò il barone.

Dovevano infatti essere marinai della feluca, attirati in quel luogo dal grido mandato poco prima da Zuleik.

Erano tutti bruni come algerini, con lineamenti angolosi, barbe nere e rade, e portavano attorno agli elmetti un mezzo turbantino variopinto e sotto le corazze calzoni ampissimi rossi e azzurri.

Vedendoseli piombare addosso da tutte le parti, il gentiluomo battè rapidamente in ritirata, balzando attraverso le dune coll'agilità d'un antilope. il suo cavallo non si era allontanato ed era rimasto fermo presso il compagno che stava per morire, dissanguato in seguito al colpo di spada ricevuto attraverso il collo.

In pochi salti il gentiluomo lo raggiunse e si slanciò in sella.

— Via! — gridò piantandogli gli speroni nel ventre, mentre i barbareschi gli sparavano contro due o tre colpi di pistola.

Il destriero, spaventato da quelle detonazioni, spiccò un salto passando di volata sopra il compagno agonizzante e partì ventre a terra in direzione del castello, lasciandosi indietro gli algerini, i quali invano, cercavano, di inseguirlo. Il giovane barone, sfuggito miracolosamente a quell'agguato così abilmente tesogli da Zuleik, guardava ansiosamente verso la piccola cala e tendeva gli orecchi sembrandogli di udire sempre a tuonare le colubrine del castello.

— Che cosa penserà Ida di questo mio ritardo? — si chiedeva. — E non aver mai indovinato d'aver un rivale in quello schiavo! Peccato che non abbia potuto finire quel traditore. Ah! ama la mia fidanzata! Voleva rapirmela! La vedremo, mio caro! La mia galera forse a quest'ora ha lasciato il golfo e corre in nostro soccorso. La battaglia sarà terribile ma noi cacceremo ancora una volta in acqua questi maledetti corsari!

Era a quel punto delle sue riflessioni, quando in lontananza, verso le coste settentrionali dell'isola, udì improvvisamente dei clamori accompagnati da scariche di moschetteria. Si udivano urla selvagge, grida di donne, strilli di fanciulli ed un fragoroso cozzar d'armi.

Si volse sulla sella guardando in quella direzione. Una luce vivida e rossastra si diffondeva al di là del bosco di querce, proiettandosi verso il cielo.

— I barbareschi hanno assalita la borgata — mormorò con angoscia. — Povere donne! E non poter far nulla per soccorrerle! Ecco nuovi schiavi e schiave che andranno a popolare i bagni e gli harem d'Algeri. Senza il tradimento di Zuleik avrebbero potuto salvarsi sulla costa sarda o riparare nel castello... Ah! Che cosa c'è ancora.

Una voce aveva gridato in cattivo italiano:

— Fermi!

Invece di obbedire il gentiluomo strinse le gambe, raccolse le briglie e alzò la spada.

Un drappello d'uomini, una mezza dozzina, era uscito dalle querce che nascondevano il castello verso il settentrione. Con un solo sguardo il barone vide subito con chi aveva da fare.

— Devono essere i compagni di quelli che mi hanno assalito sulla spiaggia — mormorò. — Passerò sui vostri corpi.

Vedendo che non si arrestava, gli algerini si erano fatti innanzi per sbarrargli il passo. Tre erano armati di alabarde e gli altri di scimitarre e di scuri d'arrembaggio e tutti avevano corazze e morioni in testa.

Essendosi imboscati sull'unico passaggio che conduceva alla piccola cala, il barone era costretto ad affrontarli se voleva giungere al castello. D'altronde anche retrocedendo non avrebbe certamente salvata la pelle, poiché udiva sempre dietro le spalle le urla di quelli che lo avevano poco prima assalito e verso il settentrione le grida di guerra e di morte dei barbareschi che avevano sorpresa la borgata. Non vi era quindi da esitare.

Con una speronata fece impennare il cavallo, poi con un colpo di pistola tagliò netta un'alabarda che stava per colpirlo, rovesciando nel medesimo tempo l'uomo che la impugnava. Sbarazzatosi di quel primo avversario che era il più vicino, il giovane animoso si scagliò risolutamente sul gruppo che gli stava dinanzi, alzandosi sugli arcioni e menando colpi disperati sugli elmetti e sulle armi che gli venivano puntate contro.

L'audacia di quel giovane che pareva una fanciulla vestita da guerriero, produsse sui mori — grandi ammiratori d'altronde delle gesta cavalleresche e del vero valore — un tale effetto, che rimasero come intontiti ed esitanti. quel breve istante di tregua bastò al barone. Con un colpo di spada ben applicato, rovesciò d'un colpo solo quello che aveva afferrato il cavallo per le briglie e passò come un uragano fra gli altri, urtando violentemente e facendoli stramazzare gli uni sugli altri. — Ciò si chiama aver fortuna! — gridò il prode, con voce trionfante.

Il castello stava dietro al bosco. Passò fra le querce a carriera disperata e si trovò sul piazzale, di fronte al ponte levatoio, nel momento in cui dall'alto del terrazzo si udiva una voce di donna a gridare, con accento angosciato:

— Presto, Carlo! Vengono! — Un colpo di colubrina rimbombò in quell'istante sulla piattaforma della torre. Il barone alzò gli occhi verso il terrazzo. La contessa era lassù e gli tendeva le mani con un gesto disperato, additandogli la spiaggia.

Degli uomini salivano strisciando sulle dune, come se fossero serpenti. — Affrettatevi, Carlo! — gridò la contessa.

Il ponte levatoio si era abbassato d'un colpo solo, con immenso fragore. Il barone stava per slanciarvisi sopra, quando tre colpi di moschetto rimbombarono uno dietro l'altro. Il cavallo s'impennò bruscamente, mandando un lungo nitrito, poi cadde di quarto.

Il gentiluomo aveva però abbandonato le staffe e aperte le gambe cadde assieme all'animale senza lasciare la spada e senza rimanere con una gamba sotto il corpo pesantissimo. La contessa, credendolo perduto, aveva mandato un urlo d'angoscia. I corsari si erano raddrizzati e accorrevano come uno stormo d'avvoltoi avidi di preda. Il barone si era subito rimesso in piedi. Si slanciò sul ponte e lo attraversò come un fulmine, mentre le bombarde dei bastioni rovesciavano sugli assalitori una tempesta di chiodi e di frammenti di vetro, arrestando di colpo il loro slancio.

Testa di Ferro, che si trovava sotto l'atrio, era corso incontro al padrone, colle lagrime agli occhi:

— Ah! Signore! — gridò, mentre gli uomini d'arme, rialzavano precipitosamente il ponte. — Vi credevo morto!

— Io sono invece più vivo di prima — rispose il gentiluomo, sorridendo. — Rassicurati, quantunque abbia menato dei buoni colpi di spada al di là del bosco.

— Per Sant'Isidoro mio patrono! — esclamò il catalano, sgranando gli occhi. — Vi hanno assalito quei maledetti pagani?

— E ho avuto da lavorare assai per sbrigarmene.

— Ed io, che ho avuto l'incarico da vostro padre di vegliare su di voi, non c'ero! Pezzo d'asino che sono! La mia mazza li avrebbe dispersi, annientati, polverizzati e...

Chissà quanto avrebbe continuato il panciuto uomo colle sue guasconate, se il barone non lo avesse piantato per salire lo scalone, sul cui pianerottolo la contessa pallidissima, trasfigurata dall'emozione, lo aspettava.

— Ho tremato per voi, mio valoroso — gli disse con voce commossa.

— Bah! Una semplice sorpresa senza conseguenze — rispose il barone con voce tranquilla. — Un solo cavallo morto ed un po' di fracasso.

— Quelle palle vi potevano colpire, Carlo.

— Ma come vedete, Ida, mi hanno risparmiato. Non è di me che dobbiamo in questo momento occuparci. Ditemi, vi è qualche passaggio segreto che conduce qui?

— Sì, una galleria sotterranea che gira sotto la torre.

— La conosce Zuleik? — chiese il barone con ansietà.

— Zuleik! Dove l'avete lasciato? Non l'ho veduto con voi.

— Rispondete alla mia domanda, Ida, prima di tutto. Dalla vostra risposta può dipendere la nostra sicurezza.

— La ignora — rispose la contessa. — Solamente io ed il capo d'armi la conosciamo.

Il barone respirò liberamente.

— Perché m'avete fatto quella domanda, Carlo? — chiese la contessa.

— Perché Zuleik ci ha traditi: è lui che ha fatto venire qui i barbareschi.

— È impossibile! Lui! Lui che si mostrava così affezionato a me?

— Ne volete una prova? Egli m'ha attirato in un agguato e mi ha assalito a tradimento.

— E l'avete ucciso quell'infame?

— L'avevo già atterrato e stavo per finirlo, quando mi piombarono addosso dieci o dodici bricconi che erano accorsi in aiuto di Zuleik. Ho avuto appena il tempo di fuggire. Ai bastioni, Ida! I barbareschi sono sbarcati e hanno già incendiata la borgata. Ora che so che Zuleik ignora l'esistenza del passaggio segreto sono più tranquillo e ci difenderemo come leoni.