Le pantere di Algeri/Capitolo 27 - I furori di Zuleik

Capitolo 27 — I furori di Zuleik

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Capitolo 27 — I furori di Zuleik
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27.

I FURORI DI ZULEIK


Il cabilo con un fischio aveva chiamato il suo schiavo, il quale si era affrettato a mettere in libertà i cavalli ed a condurli sotto una piccola tettoia costruita con canne secche, poi dopo d'aver salutato col tradizionale salem-alek i compagni del Normanno, li invitò a seguirli sotto la tenda più spaziosa, i cui orli erano stati alzati onde l'aria circolasse più liberamente.

Su una bella stuoia bianca, che pareva fosse stata intrecciata di fresco, vi erano due capretti arrostiti interi e che fumavano ancora, delle pallottole di frumento cucinate al forno, dei recipienti di argilla contenenti dei datteri pestati e nuotanti in una salsa giallastra e mucchi di prugne e di albicocche color dell'oro. Sospeso ad una corda, una pelle di capra, un otre, contenente del latte di cammella mescolato con acqua, l'unica bevanda degli abitanti dei duar algerini e marocchini.

— Ecco una colazione che giunge a tempo — disse Testa di Ferro, fiutando l'appetitoso odore che tramandavano i capretti e ammirando, estasiato, la loro pelle lucente e croccante. — Almeno qui non vedo né olive, né olio rancido.

Il cabilo invitò i suoi ospiti a sedersi e preso il suo coltellaccio, spaccò i due capretti, avendo la delicatezza di offrire le parti migliori agli uomini bianchi. Mentre mangiava non staccava gli sguardi dal Normanno, stupito forse di non vederlo più quasi nero come quando l'aveva incontrato nella foresta, durante l'uccisione della feroce pantera.

Quand'ebbero finito e sorseggiata una tazza di caffè eccellente, profumato con un pizzico d'ambra, il cabilo, che pareva non potesse più tenersi fermo, si alzò facendo segno al fregatario di seguirlo fuori della tenda.

— Il tuo compagno è giunto — gli disse, quando furono all'aperto. — Si trova nella tenda di Ahmed.

— Lo sapevo che sarebbe venuto prima di me — rispose il fregatario. — Grazie di averlo ospitato nel tuo duar.

— Tu sei il nostro fratello maggiore, quindi puoi condurre qui quanti amici vorrai — disse il cabilo con nobiltà.

— E quel mio giovane amico saprà compensarti largamente dell'ospitalità che ci hai accordata.

— Non parliamo di ciò, qui tutto è tuo, te l'ho già detto.

— Sai tu chi è quel giovane?

— Non ho alcun diritto di chiedertelo.

— Te lo dirò egualmente, Ibrahim. Egli è uno dei più potenti signori di Algeri.

— Un uomo?...

— Silenzio per ora. E quell'altro giovane che è giunto con me è uno dei più valorosi guerrieri del suo paese.

— Non è un algerino è vero? — chiese Ibrahim, sorridendo.

— No e sarò franco con te: non lo sono nemmeno io.

— Me n'ero già accorto vedendoti ora non più bruno come un beduino. Tuttavia, chiunque tu sia, tu sei e rimarrai sempre mio fratello e la mia riconoscenza non cesserà mai, anche se tu fossi un infedele.

— Grazie, Ibrahim. Ora lasciamo soli il giovane dai capelli biondi e quello dai capelli neri. Devono dirsi delle cose che né io né tu, né gli altri possono ascoltare.

— Andremo a tenere compagnia a mio fratello, che desidera vederti e salutarti.

— Avverti il giovane di entrare nella tenda.

Mentre il cabilo ubbidiva, il Normanno s'appressò a Testa di Ferro ed ai due negri e fece loro un cenno imperioso, invitandoli a uscire. Il barone che era assorto nei suoi pensieri e che s'era semicoricato su un tappeto, non aveva fatta alcuna attenzione al gesto del fregatario.

— Andiamo a visitare l'altro mio amico — disse il Normanno a Testa di Ferro. — Lasciate che il vostro padrone si riposi un po'. Deve essere assai stanco.

— Ed anch'io non lo sono meno — rispose il catalano.

— Nessuno v'impedirà di dormire nell'altra tenda.

Erano appena usciti, quando dalla parte opposta entrava, senza far rumore, il giovane algerino, fermandosi dinanzi al barone. Avendo il volto coperto del taub calato sulla fronte, non potevansi subito ravvisare i suoi lineamenti. Il signor di Sant'Elmo d'altronde, sempre assorto nei suoi pensieri, non si era nemmeno accorto dell'entrata del giovane.

Per alcuni istanti l'algerino rimase immobile presso l'entrata della tenda, tenendosi il mantello stretto al petto con ambe le mani, poi tutto d'un tratto, con un moto rapido lo riaprì, lasciandolo cadere al suolo e si strappò il velo che gli copriva il volto.

Al lieve rumore che fece la stoffa nel cadere al suolo, il barone s'era voltato vivamente, mandando un grido. Aveva subito riconosciuto in quel giovane la principessa.

— Voi! — esclamò, balzando in piedi.

Fissò la mora con uno sguardo nel quale si leggeva un profondo rancore e fors'anche un lampo d'odio. Amina era rimasta silenziosa, immobile, colle braccia incrociate sulla azzurra zuavina ricamata in oro che modellava squisitamente le sue splendide forme di donna berbera.

La cupa fiamma che brillava negli occhi del signor di Sant'Elmo a poco a poco spariva. Il rancore non doveva durare a lungo nel valoroso gentiluomo, il quale d'altronde ormai non ignorava che la sua libertà la doveva in gran parte a quella donna.

— Siete sorpreso di rivedermi, barone? — chiese Amina, quando il lampo cattivo si spense nelle pupille del giovane.

— Sì — rispose con voce un po' secca il gentiluomo. — Credevo di non incontrarvi più mai.

— Vi rincresce?

Il signor di Sant'Elmo esitò un po' prima di rispondere, poi disse:

— No, quantunque voi, dopo d'avermi difeso contro i giannizzeri di Culchelubi, mi abbiate gettato nelle sue braccia perché facesse di me un miserabile schiavo.

— Vi ho anche ritolto a lui.

— Non dico il contrario, signora.

— Che volete? — disse la principessa, passandosi una mano sulla bella fronte alabastrina. — La gelosia mi aveva resa cattiva ed ho agito sotto l'impulso d'una passione che noi donne more sentiamo più intensamente e più violentemente delle donne della vostra Europa. Perdonatemi, è stato un momento di follia... e poi — aggiunse con voce triste, sospirando, — vi amavo.

«Avevo giurato di vendicarmi del vostro rifiuto e di uccidervi la fanciulla cristiana se fossi riuscita ad averla mia schiava, ma ora un altro sentimento è entrato nel mio cuore ed ho tirato un velo sul mio sogno. Non ne parliamo più: considerate tuttociò come una follia, perdonatemi.»

— L'avete già il mio perdono, signora — rispose il barone, commosso dalla infinita tristezza che alterava il bel viso di Amina. — Se quella fanciulla non mi avesse prima di voi ferito il cuore, credetelo Amina, quantunque voi mussulmana ed io cristiano, vi avrei un giorno amata.

— Ah! Grazie! — esclamò la principessa, mentre i suoi occhi si inumidivano. — Come vi avrei anch'io amato, barone!... No, sarei stata troppo felice e la vera felicità non è fatta per me. Un triste destino è sempre pesato sulla mia vita, che né la potenza né la ricchezza, né la mia alta posizione di discendente dei califfi, hanno potuto mai raddolcire.

Si terse quasi con rabbia due lagrime che le scendevano sotto le lunghe ciglia, poi proseguì con voce amara:

— Il secondo sogno è finito. Amate la giovane cristiana che prima di me vi ha toccato il cuore e fatela felice, signor barone, e contate su di me per realizzare la vostra unione. Promettetemi almeno quando sarete tornati sotto il bel cielo d'Italia, e che le vostre anime saranno unite, di pensare qualche volta alla povera Amina rimasta nella terra d'Africa a piangere la sua triste esistenza.

Fece due o tre volte il giro della tenda, col capo chinato sul petto, poi fermandosi dinanzi al barone che rimaneva silenzioso, gli disse bruscamente:

— Sapete dove si trova la cristiana?

— Me lo hanno detto.

— Che cosa pensate di fare?

— Non lo so ancora, ma vi giuro che non lascerò Algeri senza quella fanciulla o che morirò nella impresa.

— Così immensamente l'amate? — chiese Amina con voce sorda.

— Che cosa sarebbe la mia vita senza di lei?

— Sì — disse la principessa, come parlando fra sé. — Il fiore non può vivere senza il sole e la goccia d'acqua.

Fece un gesto come per allontanare un tormentoso pensiero, poi riprese:

— Strappare una donna ad un pascià, può essere facile; toglierla ad un capitano generale, difficile ma non impossibile; rapirla al bey, varcare inosservati le alte muraglie della Kasbah, vegliate giorno e notte da giannizzeri, sarà una impresa che metterà a dura prova la vostra audacia. E poi avete dimenticato che vi è un nemico potente, tenace, invaso al pari di voi dal demonio della passione e che vigila su di lei e che può essere più pericoloso dello stesso bey.

— Vostro fratello?

— Sì, Zuleik — rispose la principessa.

— E voi vi schiererete contro di lui?

— Zuleik non mi ha mai amata — disse Amina. — E poi se io perdo il cristiano, egli perda la cristiana. D'altronde egli non mi troverà mai sulla sua via.

— Credete che io possa un giorno riavere la fanciulla che amo? Ditemelo, Amina, siate sincera.

— Forse.

— È una schiava del bey.

— Schiava! Oggi è una beslemè ma chi vi assicura che domani non possa diventare una favorita del rappresentante del Profeta? Tutto è possibile qui e allora la cristiana sarebbe perduta per voi.

— La vendicherei — gridò il barone.

— In qual modo.

— Uccidendo il bey.

Amina lo guardò con spavento.

— Voi osereste tanto? — chiese.

— Non esiterei.

— Siete ben audace, alla vostra età. No — disse poi — non farete questo, né ve lo permetterei. Non dimenticate, innanzi a tutto, che egli rappresenta qui la nostra fede e che io sono mussulmana.

— Non saprei rassegnarmi a perdere quella fanciulla per la quale ho già dieci volte giuocata la mia vita. Da questo potete comprendere quanto l'ami.

Fra il barone e la principessa successe un breve silenzio. Amina, appoggiato ad un palo della tenda, pareva che cercasse qualche idea nel suo cervello. Ad un tratto si scosse, dicendo:

— Ci rivedremo fra alcuni giorni. Voi rimarrete qui e nulla tenterete fino al mio ritorno. L'aria d'Algeri è troppo pericolosa per voi in questi momenti; ormai sapranno che voi siete coinvolto nell'assassinio di Culchelubi e faranno di tutto per scoprirvi.

— Io invece tremo per voi, Amina.

— Per me?

— Se sapessero che siete stata voi a togliermi dalle mani dei giannizzeri?

— E chi oserebbe muovere un dito contro la discendente dei califfi di Cordova e di Granata? — disse, aggrottando la fronte. — Nemmeno il bey lo farebbe. Forse un uomo solo a cui premerebbe vedervi scomparire o finire la vostra vita sulla cima d'un palo o sulla punta d'un arpione, potrebbe tentarlo, ma sa che io sono donna da tenergli fronte.

— Zuleik?

— Sì, mio fratello. Non crediate però che egli sia capace di compromettermi. Zuleik è impetuoso e ardente e tuttavia non è cattivo. Anche sapendo ciò che ho fatto non parlerà.

— Che cosa fa ora vostro fratello?

— Lo ignoro. Sono parecchi giorni che io non lo vedo, però sospetto che egli stia mettendo in opera tutta la sua influenza per riprendere al bey la giovane cristiana.

Il barone era diventato pallido.

— Oh, rassicuratevi — disse Amina che se n'era accorta. — Non otterrà nulla. Una donna che entra nella Kasbah non esce che morta.

— E se trovasse il modo di rapirmela?

— Ciò che sarà difficile per noi, non lo sarà meno per lui.

— Allora non avrò nemmeno io alcuna speranza di poterla un giorno riavere.

— Chissà? — disse Amina. — Aspettate il mio ritorno. Molte cose possono succedere in questo momento in Algeri e desidero conoscerle. Vi lascio i miei due negri i quali veglieranno su di voi, quantunque nessuno possa sospettare che voi siate stato condotto in questo duar. Non verrete inquietato, di questo ne rispondo io.

Il barone si era avvicinato alla giovane donna e prendendole la destra, le disse con voce dolce:

— Sono commosso della grandezza del vostro sacrificio, signora. Anche nel mio paese, una donna non sarebbe stata generosa come Amina Ben-Abad e quando tornerò in Italia, se il destino lo vorrà, mi ricorderò sempre di voi e dirò a tutti che se Algeri ha le sue pantere, vi si trovano anche dei cuori d'oro e delle donne che hanno delle abnegazioni sublimi.

— Dio è grande — si limitò a rispondere la principessa, portandosi una mano al cuore.

Guardò per parecchi istanti il gentiluomo, cogli occhi umidi, ripieni d'una tristezza infinita, poi sciogliendo bruscamente la sua mano dalla stretta, uscì rapidamente, dicendo con voce soffocata:

— Addio, barone... non trattenetemi più.

Al di fuori vi era il suo cavallo, tenuto per le briglie da uno dei due negri. Salì in sella, fece colla mano un ultimo saluto e lanciò il destriero a corsa sfrenata, dirigendosi verso le colline. Il barone, ritto presso la tenda, la guardava allontanarsi, mormorando:

— Povera donna, quanto deve soffrire. Meriterebbe di essere felice!

Quando la principessa giunse sulla cima della collina, arrestò il cavallo e guardò un'ultima volta verso il duar. Sventolò per qualche istante il suo velo in segno di saluto, poi scomparve, scendendo al galoppo il pendio opposto. Spronava con rabbia, facendo fare al nobile corsiero, certo non abituato a sentirsi così maltrattare, dei balzi immensi e degli scarti violentissimi ed improvvisi che avrebbero sbalzato di sella qualunque cavaliere. Pareva che volesse calmare la disperazione che regnava nel suo animo con quella corsa furiosa.

Di tratto in tratto qualche lagrima volava via e un sordo singhiozzo le saliva alle labbra ed era allora che maggiormente spronava, come se volesse vendicarsi sul povero cavallo.

Attraversò la pianura, poi le foreste, trasportata in una corsa vertiginosa, superando crepacci, cespugli, torrenti. Passò come una meteora in vista di Medeah, poi più tardi presso Blidah, senza accordare al disgraziato animale un istante di riposo.

Quando giunsero in vista d'Algeri cominciava ad annottare. Aveva percorso trenta e più miglia tutte di un fiato, senza scendere dalla sella e senza fermarsi in alcun luogo.

Non rallentò quella pazza corsa se non quando fu presso la Kasbah ed era tempo. Il cavallo, cominciava già a rantolare.

Amina aveva però riacquistata la sua calma e dal suo viso era scomparsa ogni traccia di commozione. Entrò in città dalla porta d'oriente e si diresse a piccolo trotto verso il suo meraviglioso palazzo, dove giunse col cavallo completamente rattrappito e quasi morente.

Ebbe appena il tempo di entrare nel cortile e di balzare a terra che se lo vide stramazzare dinanzi.

— Povero Kasmin — disse, guardandolo con occhio compassionevole. — Hai ridato alla tua padrona la sua tranquillità ma tu hai perduta la vita.

I servi e gli schiavi erano accorsi in folla, sorpresi di vedere la loro padrona in quel costume e ritornare coperta di polvere e col cavallo moribondo.

— Signora, — disse il maggiordomo, che si era accostato prima di tutti, — vostro fratello vi ha fatto cercare dovunque quest'oggi. Egli è molto inquieto e di cattivo umore.

Amina trasalì e rimase per qualche istante muta, guardando il cavallo che rantolava sulle pietre del cortile, poi facendo uno sforzo su se stessa, chiese:

— Dov'è?

— Nella sala verde.

Scosse la polvere che le copriva il mantello e salì, con passo fermo, il marmoreo scalone preceduta da alcuni valletti che erano accorsi con delle torce. Quando entrò nella sala, Zuleik stava cenando. Vedendola si era alzato di scatto, respingendo con un movimento irato il piatto d'argento che gli stava dinanzi e allontanando impetuosamente la sedia.

— Da dove vieni? — gli chiese con voce severa. — Ed in quel costume! Mia sorella si dimentica di essere una Ben-Abad?

— Torno dal castello di Yosk-Issid — rispose Amina, con voce tranquilla.

— Vestita da algerino!

— Ho cacciato tutto il giorno le gazzelle e le vesti delle donne impacciano quando si cavalcano i nostri destrieri; d'altronde nessuno mi ha riconosciuta, fuorché i nostri schiavi.

— E dove hai cacciato?

— Nelle foreste del castello.

— Ebbene, Amina, tu menti — disse Zuleik, con violenza. — Io ho mandato dei servi in tutti i nostri castelli e nessuno ti ha trovata, come nessuno dei nostri maggiordomi ti ha ricevuta.

— Vuol dire allora che non sono stata in nessuna delle nostre terre — rispose la principessa sempre calma.

— Sai che cosa si dice qui?

— Non mi curo delle chiacchiere che si fanno in Algeri.

— Che ieri sera, quando i giannizzeri inseguivano gli assassini di Culchelubi, un drappello d'uomini, guidati da un giovane algerino, ha rapito due di quei cristiani.

— Ah!

— E che uno era il barone di Sant'Elmo.

— Lo ignoravo.

— Tu? — esclamò Zuleik. — Il vestito che ancora in questo momento indossi, ti ha tradito.

— E che cosa vorresti concludere?

— Che quel drappello era guidato da te.

— Chi lo ha affermato?

— Nessuno finora, il sospetto è venuto solamente a me, vedendoti tornare sola e così vestita.

— E se così fosse? — chiese Amina guardandolo fieramente, ed incrociando le braccia con un gesto di sfida.

— Se ciò si conoscesse dalle autorità d'Algeri, il disonore piomberebbe sulla nostra casa. Una Ben-Abad protettrice degli assassini di Culchelubi!

La principessa alzò le spalle.

— Che lo cerchino quell'algerino — disse. — Io non ti ho ancora detto che fosse Amina Ben-Abad.

— Allora dove sei stata in queste ventiquattro ore?

— Tu non hai il diritto di saperlo, Zuleik. Mi occupo forse delle tue faccende?

— Tu devi aver aiutato quel dannato barone a fuggire. Lo leggo nei tuoi occhi.

— Può essere. A te la cristiana, a me il cristiano.

— Quell'uomo è mio rivale! — gridò Zuleik, mandando in frantumi una splendida coppa di lapislazzulì che si trovava sulla tavola. — Ma se tu speri di sottrarlo alle ricerche dei vizir e dei caid t'inganni, Amina. Parecchi dei rinnegati sono caduti vivi nelle mani dei giannizzeri e da essi si saprà, coi più atroci martiri, il luogo ove si è celato il barone.

— Mostruosità e ferocie inutili, perché quei disgraziati nulla sanno.

— Vedremo, — rispose Zuleik, — se il barone rimarrà a lungo nascosto. Tutti gli assassini del capitano generale sono stati condannati e anche egli non sfuggirà alla sorte comune.

— E se il signor di Sant'Elmo non avesse preso parte al delitto?

— Faceva parte della congiura.

— Non è vero; io so che la ignorava.

— Che cosa importa? È fuggito assieme ai rinnegati e basta questo fatto per condannarlo.

— Cercatelo adunque.

— Si è già su una buona traccia.

Amina impallidì.

— Tu vuoi spaventarmi — disse.

— Si sa che è uscito da Algeri.

— L'Algeria è grande.

— Lo si troverà, non dubitare ed io m'incarico di frugare i nostri castelli e vedrai: che in qualcuno lo scoverò.

— Non mi oppongo.

Zuleik gettò sulla sorella uno sguardo ripieno d'ira.

— Una mussulmana che ha nelle sue vene sangue di califfi che protegge un cristiano — disse con profondo disprezzo.

— Proteggo un valoroso disgraziato, ecco tutto.

— Che ami.

— Che non amo.

— Tu menti!

Una vampa salì in viso della principessa.

— Basta — disse. — Tu non hai il diritto d'insultarmi.

— Voglio che la sia finita con quel barone, che io odio con tutte le forze della mia anima. Avrò il suo sangue, te lo giuro, perché lo consegnerò nelle mani del vizir.

— Tuo padre sarebbe stato più generoso.

— Ed io non lo sarò.

— La generosità era tradizionale nella nostra famiglia. Ricordati che il nostro grande avo, Ahmed Ben-Abad, ha salvato i cristiani di Granata, sciabolando di suo pugno i suoi generali che stavano per ordinare alle truppe l'esterminio della popolazione; ricordati pure che l'altro nostro avo, il battagliero Omar, sotto le mura di Cordova strappava dalle mani dei suoi guerrieri il comandante delle truppe spagnole e lo rimandava sano e salvo al suo re, sfidando l'ira di tutti i mori. E anche quello era un cristiano.

— Io non sono né Ahmed, né Omar.

— E che nostro padre, sdegnato per le infamie che commetteva Culchelubi contro le schiave cristiane, ne fece fuggire parecchie e ricondurre in patria, mettendosi in aperta ribellione anche contro il bey.

— Quelle generosità, io non le sento e nemmeno le comprendo — rispose Zuleik. — Io non vedo nel barone che un rivale che deve scomparire e farò il possibile per gettarlo fra le unghie del vizir. Tu lo proteggi e me lo nascondi? Sia, vedremo chi sarà il più forte ed il più astuto.

— Ti sfido a trovarlo.

— Lo troverò, non dubitare — rispose Zuleik, il cui furore, anziché calmarsi aumentava. — E chissà che forse a quest'ora i prigionieri non abbiano già parlato. Addio sorella — aggiunse poi con voce ironica. — Avrai presto nuove da Zuleik.

Ciò detto il moro uscì, chiudendo violentemente la porta dietro di sé. Stava scendendo le scale col viso fosco e le labbra contratte quando vide salire, sorretto da un servo e seguito dal maggiordomo e da alcuni valletti, un vecchio dervis.

Si era arrestato, traendosi da un lato per lasciargli il passo, poi fece un gesto al maggiordomo.

— Chi è costui? — gli chiese.

— Il mirab dei dervis giranti, signore — rispose l'interrogato.

— Che cosa viene a fare qui?

— Lo ignoro, padrone. Ha chiesto di parlare a vostra sorella ed è già venuto un'altra volta. Probabilmente verrà a fare appello alla generosità della principessa per erigere qualche nuova moschea.

— A quest'ora! — mormorò Zuleik.

Ebbe l'intuizione che quell'uomo, quantunque mirab d'uno degli ordini più rispettati, entrasse in qualche cosa nella scomparsa del barone. Trascinò rapidamente il maggiordomo in una galleria laterale e stringendogli il braccio con violenza, gli disse:

— Vi è una porta segreta nella sala verde, e che tu devi conoscere.

— Sì, padrone.

— Da quel posto è possibile udire tutto, ciò che verrà detto fra mia sorella e quel mirab?

— Lo credo.

— Tu mi riferirai l'esito di quei colloquio che a me preme conoscere. Tu tieni nelle tue mani la tua libertà e la morte: quale preferisci?

Il maggiordomo lo guardò spaventato.

— Che cosa volete dire... signore? — chiese balbettando.

— Che se tu riuscirai a sapere quello che dirà il mirab, domani sarai libero e ricco e che se m'inganni ti farò morire sotto il bastone.

— Voi siete il padrone e non esito ad accettare quello che mi proponete.

— Poi farai seguire il mirab quando uscirà di qui. Voglio sapere dove abita.

— Manderò dietro di lui degli schiavi fidati, signore.

— Vattene.

Zuleik discese la scala, salì su un superbo cavallo bianco che due negri tenevano per le briglie e uscì dal palazzo, dicendo:

— Credo che Amina finirà per perdere la partita e che il barone lascerà qui le sue ossa. Al bagno saprò forse qualche cosa.