Le pantere di Algeri/Capitolo 24 - Il bagno di Zidi-Hassam

Capitolo 24 — Il bagno di Zidi-Hassam

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Capitolo 24 — Il bagno di Zidi-Hassam
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24.

IL BAGNO DI ZIDI-HASSAM


Il bagno di Zidi-Hassam era uno dei più piccoli dei sei che possedeva Algeri ed era anche quello che godeva la più triste celebrità, nulla avendo da invidiare a quelli orribili di Sale, che erano più temuti dagli schiavi cristiani.

Mentre gli altri avevano spaziosi cortili e vaste terrazze, sulle quali gli schiavi potevano passeggiare liberamente e celle sopraterra, quello di Zidi-Hassam mancava degli uni e delle altre e invece di stanzette aveva le matamur, vere cave sotterranee, collocate a quattro metri sottoterra, umidissime, tenebrose, pullulanti di scorpioni e d'insetti schifosi e che ricevevano solamente un po' d'aria da pertugi piccolissimi difesi da enormi sbarre di ferro che impedivano quasi alla luce, già tanto scarsa, di penetrare.

E come se non bastassero per rendere impossibile la fuga ai poveri prigionieri, i quali poi, per maggior precauzione, ogni sera venivano incatenati, giorno e notte vegliava un giannizzero dinanzi ad ogni spiraglio!

L'esistenza che conducevano entro quelle celle sotterranee gli schiavi cristiani, non poteva essere più infelice. Per la maggior parte delle giornate avevano catene ai piedi ed ai polsi; per giaciglio nemmeno una misera stuoia; per cibo un po' di pane grossolano appena sufficiente a mantenersi in vita, con qualche sorso d'olio rancido od un pugno d'olive; alla minima infrazione, al più piccolo atto di ribellione, legnate senza misericordia che li lasciavano semivivi; un tentativo di fuga poi veniva pagato con atroci martiri che levavano per sempre agli altri la voglia di provarvisi.

Vi erano nelle gallerie abbondanza di arpioni di ferro dove soventi si vedevano a contorcersi, fra gli spasimi d'una atroce agonia, dei disgraziati che, resi furiosi dai maltrattamenti avevano osato ribellarsi ai loro crudeli guardiani; poi pali di ferro dalla punta acuta destinati ad infilzare corpi umani; fosse piene di calce viva; arsenali interi di rasoi, di coltellacci e d'istrumenti di tortura d'ogni specie.

Tale era il bagno di Zidi-Hassam, il più spaventevole di tutti ed il cui solo nome faceva tremare i trentaseimila schiavi d'ambo i sessi che in quell'epoca si trovavano in Algeri.

Il barone, ancora in preda al delirio causatogli dalle gocce d'acqua gelata, era stato, per ordine del feroce Culchelubi, fatto rinchiudere assieme a Testa di Ferro, in una di quelle orribili celle sotterranee, scavata in prossimità del mare, sotto una delle quattro torri che difendevano il bagno dalla parte del golfo. Per un capriccio inesplicabile, ma che certo non doveva attribuirsi a generosità, il capitano generale aveva dato ordine di non incatenarli e solo di raddoppiare le sentinelle dinanzi al pertugio che illuminava la matamur e dinanzi alla piccola porta ferrata e di fornire ai due prigionieri qualche stuoia su cui coricarsi.

Il barone, appena portato nella cella era caduto in un profondo torpore che era di buon augurio. L'esaltazione prodotta da quelle maledette gocce era cessata poco dopo levato l'apparecchio di tortura. D'altronde avevano avuto una durata abbastanza breve per non causare un grave perturbamento nella materia cerebrale.

Quel sonno improvviso, che pareva quasi una sincope, aveva però molto spaventato il povero Testa di Ferro, il cui cervello non si trovava di molto in migliori condizioni di quello del padrone, dopo quel succedersi di terribili avvenimenti che lo avevano completamente terrorizzato.

— Che me lo abbiano ucciso? — si era chiesto, appena la porta ferrata della cella sotterranea si era chiusa dietro di lui, con un fracasso assordante. — Poveri noi, è finita, finita per sempre! Ci taglieranno a pezzi, ci faranno schiacciare entro qualche mostruoso mortaio o, ci getteranno entro qualche fossa piena di calce. Mio povero padrone, non usciremo più vivi dalle unghie di questi antropofaghi, figli del demonio!

Si era trascinato verso il barone, il quale giaceva inerte sulla umida stuoia che gli serviva da giaciglio e si era messo a contemplarlo cogli occhi smarriti, dilatati dallo spavento.

Alcune parole sconnesse, che sfuggirono dalle labbra del povero giovane, gli riaprirono l'animo alla speranza. Il gentiluomo sognava e parlava. Il suo cervello, ancora alterato da quello strano supplizio, rievocava dei lontani ricordi.

— La rivedo — mormorava il disgraziato gentiluomo, con voce affannosa. — Eccola lassù... sul terrazzo... guarda verso il mare e saluta la mia galera... ecco le spiagge di San Pietro... presto la rivedrò...

«Che cosa fa Zuleik? Perché guarda anche lui verso il mare? Non è la mia galera che fissa... gli occhi sono volti al sud... verso l'Africa... Sogna tradimenti ed estermini... la sua destra non suona più la tiorba... pare che cerchi una spada... e mi guata come una pantera affamata...

«Ecco l'uomo che mi sarà fatale... guardati da lui Ida... è la serpe della terra africana.»

— Povero signore — mormorò Testa di Ferro, asciugandosi due lagrime. — Sogna la sua fidanzata che forse non rivedrà più mai. Chi lo trarrà da questa cava nauseabonda? Il giorno in cui noi rivedremo il sole, sarà certamente l'ultimo. E stavamo così bene in quel meraviglioso palazzo della principessa mora! Quale disastro è accaduto per farci arrestare e cacciare in questa tomba? Mio povero Testa di Ferro, qui finirai la tua onorata carriera e la mazza di ferro dei tuoi avi non tornerà più in patria.

Si era accoccolato presso il suo signore, il quale ora pareva che dormisse più tranquillo. Il silenzio che regnava nella cella non era interrotto che dal passo misurato dei giannizzeri veglianti dinanzi alla stretta feritoia e dietro la massiccia porta di ferro.

Di quando in quando però, qualche urlo, che pareva che provenisse di sotto terra, echeggiava lugubramente accompagnato da un fragore di catene. Vi dovevano essere altre celle vicine e altri prigionieri che forse venivano tormentati dai guardiani.

Il catalano, non ostante le sue angosce, ed i suoi terrori, stava a sua volta per assopirsi, quando udì i grossi chiavistelli a stridere.

Un guardiano dall'aspetto arcigno, che teneva in mano una lunga frusta, era entrato assieme a due giannizzeri che avevano le scimitarre sguainate.

— Chi è di voi due il servo? — chiese in pessimo italiano, volgendosi verso Testa di Ferro.

— Sono io — balbettò il catalano, diventando smorto.

— Devi seguirmi, cristiano maledetto.

— Io devo vegliare sul mio padrone.

— Se ne incaricheranno gli scorpioni, per ora. E poi mi sembra che non abbia bisogno di te, poiché dorme.

— E desiderate da me?

— Credo che vogliano scaldarti la pianta dei piedi — rispose il guardiano con un sogghigno. — Se non le avrai ben dure, non so se domani potrai camminare.

— Io non ho fatto male a nessuno.

— Sei un cane d'un cristiano e ciò basta. Orvia, muoviti ventre rotondo, se non vuoi che ti faccia ballare come una scimmia a colpi di frusta. Lo spettacolo sarebbe abbastanza buffo.

— Abbiate compassione del mio povero padrone.

— Nessuno te lo mangerà: ci sono le sentinelle al di fuori e qui non vi sono né leoni, né leopardi.

— Me disgraziato! — gemette Testa di ferro.

Un pugno accompagnato da un calcio poderoso lo fecero balzare rapidamente in piedi.

— Dannati maomettani! — urlò. — Se avessi qui la mia mazza v'insegnerei a rispettare l'ultimo discendente dei Barbosa.

— Cammina, cialtrone! — gridò il carceriere. — Chiacchieri come una gazza e tremi come una timida fanciulla!

— Io, Testa di Ferro!

— Testa di legno! Su, cammina.

I due giannizzeri ad un cenno del guardiano lo avevano afferrato strettamente per le braccia e lo avevano spinto fuori dalla cella, facendo fare alle loro scimitarre dei mulinelli pericolosi. Il povero catalano, un po' trascinato ed un po' spinto, fra minacce e bestemmie fu condotto in una sala sotterranea che s'apriva sotto il cortile del bagno e che era illuminata da parecchi spiragli difesi da grossi vetri.

Fu un vero miracolo se il valoroso Testa di Ferro non cadde al suolo tramortito, vedendo tutto intorno alle pareti arpioni infissi nel muro, pali d'acciaio di tutte le lunghezze, seghe mostruose, caldaie gigantesche che dovevano servire pel supplizio detto dello sciamgat, mazze d'ogni forma, poi immensi rasoi, coltellacci, punteruoli e per colmo d'orrore quattro teste, che parevano spiccate di recente, infisse su delle punte e che perdevano ancora sangue.

— È un macello questo? — chiese, balbettando e roteando gli occhi dilatati dallo spavento.

— Sì, dei cristiani — disse il guardiano, con un sorriso atroce. — Che, ti senti male forse? Sei livido come un morto e meriteresti che ti colorissi un po' il viso col sangue di quei decollati. Fa' un po' di buona cera al caid di Culchelubi.

Il catalano, se era uno spaccone, non mancava però d'un certo coraggio. A quell'atroce offesa dell'aguzzino islamita, si era sentito bollire il sangue dei nobili Barbosa, e salire il rossore fino alla fronte. Con un superbo scatto d'indignazione si rizzò di colpo e, guardando bene in viso il miserabile, gli gridò:

— Mascalzone, prendi!

E la sua pesante e molto grossa mano piombò con uno scoppio secco sul viso dell'ignobile carceriere, facendolo girare due o tre volte su se stesso come una trottola.

I giannizzeri che si trovavano in buon numero nella sala, invece di scagliarsi su di lui e farlo a pezzi a colpi di scimitarra, vedendo il carceriere cadere lungo disteso sul pavimento, erano scoppiati in una omerica risata.

— Picchia sodo il panciuto! — aveva gridato uno.

— E mastro Daud ha avuto il suo conto — aveva aggiunto un altro.

— A te la risposta, Daud! — aveva gridato un terzo, sghignazzando.

Il carceriere, il cui viso era macchiato di sangue che piovevagli a catinelle dal naso pesto, si era alzato bestemmiando.

Stava per scagliarsi su Testa di Ferro, quando entrò nel sotterraneo un vecchio d'aspetto maestoso, con una lunga barba non ancora del tutto bianca, con un immenso turbante sul capo ed il corpo avvolto in ampio mantello di lana oscura.

— Il cadi — avevano esclamato i giannizzeri. Il guardiano si era arrestato.

— Vi bisticciate qui, a quanto sembra — disse il vecchio, corrugando la fronte.

— È questo cane d'un cristiano che si ribella, signore — rispose il carceriere.

— O tu che maltratti il prigioniero senza averne ricevuto l'ordine? Vattene e torna nelle matamur.

Poi avvicinatosi a Testa di Ferro, che si preparava, cosa insolita, a somministrare al brutale carceriere una seconda lezione, si mise a guardarlo attentamente.

— Sei italiano tu? — gli chiese.

— Spagnolo, signore o meglio catalano.

— Ti interrogherò nella tua lingua natìa che conosco benissimo. Sei servo d'un barone, è vero?

— Del signor di Sant'Elmo.

— Io sono il cadi di Culchelubi.

— Ed io Testa di Ferro, ultimo discendente della nobile famiglia dei Barbosa.

Il cadi ebbe un sorriso, poi disse con una certa ironia:

— Se sei nobile sarai certamente un coraggioso.

— Non ho mai avuto paura, signore.

— Il capitano generale delle galere desidera sapere da te chi è stato a condurre qui il barone di Sant'Elmo.

Testa di Ferro provò un brivido, eppure ebbe il coraggio di rimanere muto.

— Mi hai capito?

— Non sono sordo.

— Rispondimi — disse il cadi. — Bada che se non sciogli la lingua, qui vi sono degli istrumenti che strappano le parole anche ai muti più ostinati.

— Lo vedo — rispose il disgraziato catalano, gettando uno sguardo smarrito su tutti quegli attrezzi di tortura.

— Allora parla.

— Ci ha condotti qui un negoziante di spugne tunisino.

— Era veramente un tunisino?

— Si diceva tale — rispose risolutamente il catalano che aveva rapidamente architettato il suo piano, deciso a non denunciare il valoroso Normanno.

— O non era invece un fregatario cristiano!

— Lui un cristiano! Eh! Via! Ne avrebbe mangiati due a colazione e quattro a pranzo e poi pregava tutto il giorno Maometto.

— Dove si trova ora quell'uomo?

— È ripartito pel Marocco, appena ci ebbe sbarcati.

— Come era?

— Piccolo, grasso quanto me, con barba ispida ed il viso molto abbronzato.

— Sei certo di non ingannarti?

— Ho navigato tre giorni assieme a lui, quindi posso ricordarmelo — disse il catalano.

— Dove l'avevate incontrato?

— A Tunisi.

— Sicché dopo il combattimento sostenuto contro le nostre galere, vi eravate recati a Tunisi e quel bey vi ha lasciati tranquillamente entrare in porto colla vostra nave semirovinata. Oh! La bella istoria!

Quindi volgendosi verso i giannizzeri disse:

— Impadronitevi di quest'uomo.

Testa di Ferro era diventato orribilmente pallido.

— Che cosa volete fare di me, signore? — balbettò.

— Farti dire la verità.

— Io l'ho detta.

— Tu m'inganni...

— Lo giuro...

— Su che cosa?

— Su Dio o su Maometto se vi piace meglio.

— Giurerai più tardi.

Quattro giannizzeri l'avevano brutalmente afferrato gettandolo su un tavolo e legandogli strettamente le mani e le gambe in modo da non poter fare più alcun movimento. Subito un quinto, armato d'una verga flessibile, gli tolse gli stivali e le calze.

— Picchiate sodo — disse il cadi. — Quest'uomo non resisterà a lungo e confesserà.

Il giannizzero che funzionava da carnefice, non si era fatto ripetere l'ordine e si era messo a percuotere le punte dei piedi con tale vigore, da strappare al povero uomo delle vere urla di dolore.

Al quinto colpo di verga, il cadi aveva fatto un segno.

— Confesserai? — chiese, accostandosi al catalano.

— Sì, sì, tutto quello che vorrete!

— Rimarrai però legato e se mentisci ricominceremo. Lo sapevo io che non avresti sopportato a lungo la fustigazione. Come si chiamava quel fregatario?

— Cantalub, mi pare.

— Non era dunque un tunisino?

— No, un francese.

— Era alto di statura, colla barba nera, gli occhi color dell'acciaio?

— Sì, nero, alto... col naso che rassomigliava al becco d'un pappagallo.

— È lui! — esclamò il cadi, con accento trionfante.

— Sì lui e va' a cercarlo — mormorò il catalano.

— Dove si trova ora?

— Vi ho detto che è andato al Marocco.

— In quale città?

— A Tangeri.

— No, tu devi ingannarti.

— O è lui che mi ha ingannato, signore, perché a me e al mio padrone ha detto che si recava colà per salvare un prigioniero provenzale.

— Ha una feluca dipinta in verde?

— Sì, signore, tutta verde.

— Che si chiama la Medscid?

— Mi sembra che si chiamasse infatti così — rispose Testa di Ferro, tutto lieto di potersela cavare senza altre vergate.

— Culchelubi non s'ingannava nei suoi sospetti — disse il cadi. — Che occhio di falco ha il capitano generale!

— Un grand'occhio infatti — mormorò il catalano.

— Va bene — riprese il cadi, dopo essere rimasto alcuni istanti silenzioso. — Faremo cercare il Medscid nei porti del Marocco e quando il fregatario sarà nelle nostre mani, te lo condurremo dinanzi. Vedremo se oserà affermare ancora di essere un buon mussulmano.

Testa di Ferro represse a fatica un altro brivido.

— Se tu ci avrai ingannato, — disse il cadi, — ti faremo schiacciare nel tofirigs e sentirai quale piacere proverai quando i piloni ridurranno il tuo corpo in una poltiglia sanguinosa. Ti creperanno il ventre al primo colpo.

— E se ho detto il vero? — chiese Testa di Ferro, con ansietà.

— Penserà il capitano generale a premiarti.

Ad un suo cenno i giannizzeri slegarono il prigioniero e lo rimisero in piedi.

— Riconducetelo nella sua matamur — comandò.

— Grazie, signore — disse il catalano sbuffando e camminando sulla punta dei piedi, avendo le piante già gonfie. — Mi avete reso zoppo.

I giannizzeri lo spinsero fuori dal sotterraneo e lo condussero nella cella, rinchiudendo dietro di lui la porta di ferro. A quel fracasso il barone aveva riaperti gli occhi.

— Sei tu, Testa di Ferro? — chiese con voce debole.

— Sì, sono io, signore, sfuggito per miracolo alla morte. Come vi sentite? Poco fa deliravate.

— Ho la testa pesante e mi pare che un immane martello mi percuota il cranio. È l'impressione di quelle gocce gelate. Dove siamo noi?

— Nel bagno di Zidi-Hassam, un pessimo luogo a quanto sembra, signor padrone. Siamo come sepolti sottoterra.

— Credo che tutto sia ormai finito per noi, mio povero Testa di Ferro — disse il barone, con un doloroso sospiro.

— Non sembra, signore. Fino a che non avranno scoperto quel misterioso fregatario, non avremo nulla da temere. Non so dopo quello che faranno di noi.

— Il Normanno! — esclamò il barone spaventato.

— Oh no, signore, si tratta di un altro che né io, né voi abbiamo mai veduto. Io ho confermato tutto pur di salvare le piante dei miei piedi che minacciavano di rimanere nella sala di tortura, ridotte a brandelli.

— Che istoria mi vai narrando?

— Ah! È vero, signore, voi non sapete nulla.

In poche parole lo informò dell'interrogatorio subito e delle vergate, fortunatamente pochissime, ricevute dal cadi, del capitano generale delle galere.

— Per isfuggire ad un pericolo te ne sei attirato addosso uno più grave — disse il barone. — Se quell'uomo venisse preso?

— Non lo è ancora signore e chissà se riusciranno a catturarlo.

— Sei sicuro che non si tratti del Normanno?

— Certissimo, signore. A proposito del Normanno, che ci abbia abbandonati alla nostra sorte?

— No, non lo crederò mai.

— Che stia cercandoci assieme al mirab?

— Lo suppongo.

— Non potrà però far nulla per noi. Chi sarà capace di trarci da questa cella che è guardata da tutte le parti dai giannizzeri?

— Non rimarremo qui sempre. Io so che alla sera buona parte dei prigionieri e degli schiavi si conducono a bordo delle galere per maggior sicurezza.

— Che facciano altrettanto di noi?

— È possibile, Testa di Ferro.

— E quale sarà la nostra sorte?

— Ci venderanno come schiavi.

— Preferisco la schiavitù alla morte, signore. Vivendo potremo avere almeno la speranza di venire un giorno liberati e di poter anche salvare la contessa.

Il barone ebbe un triste sorriso.

— È perduta per me — disse con voce sorda. — Chissà che cosa sarà accaduto di lei. Ah! La mia testa! La mia povera testa!...

— Ricoricatevi, signore. Il riposo vi farà bene.

Il barone si era già lasciato ricadere sulla stuoia, tenendosi la fronte stretta fra le mani.

— Povero signore — mormorò Testa di Ferro, con un sospiro. — Come finirà tutto ciò?

Nessuno turbò, durante quel giorno, la loro prigionìa. Solamente verso sera un guardiano era entrato gettando loro una manata di olive ed una pagnotta d'orzo, il pranzo della giornata destinato agli schiavi cristiani. Contrariamente alle previsioni del barone, quella notte rimasero nella loro umile cella invece di venire condotti a bordo di qualche galera, però udirono sempre le sentinelle, passeggiare dietro la porta e dinanzi allo spiraglio! L'indomani una sorpresa inaspettata venne a far balenare nei loro cuori un raggio di speranza. Era stata recata loro la magra colazione dei prigionieri, consistente in una pagnotta di grano ed in un piccolo recipiente pieno d'olio rancido, razione appena bastante per mantenersi in vita, giacché i governatori non erano troppo larghi coi prigionieri cristiani che consideravano meno dei cani.

Ora nello spezzare quella pagnotta, Testa di Ferro, con sua grande sorpresa, aveva trovato fra la mollica un piccolo cannello d'argento che presumibilmente non doveva esservi stato messo dentro per sbadataggine e che doveva contenere certo qualche cosa che li riguardava.

— Signore!... Signore!... — aveva gridato al barone, che stava per lasciare la stuoia, sulla quale giaceva ancora. — Che cos'è questo? Lo si direbbe un minuscolo astuccio.

Il giovane gentiluomo se n'era impadronito vivamente. Come si disse, era un cannello d'argento, non più grosso d'un dito mignolo, lungo appena cinque centimetri, con qualche rilievo all'ingiro.

— Che ne dite signore? — chiese Testa di Ferro, il cui stupore aumentava.

— Deve essere stato introdotto da qualcuno — rispose il barone. — Vi era un buco nella pagnotta?

— Non ho osservato, signore.

— Qui vi deve essere dentro qualche biglietto. Questo oggetto sembra un agoraio e che io sappia i panettieri non ne adoperano.

— A menoché quel panettiere non sia anche sarto!

Il barone si provò a svitarlo e vide che nell'interno esisteva un frammento di carta rosa, profumata d'ambra.

— Qui sotto vi è la mano della principessa — disse, aggrottando la fronte. — Riconosco il suo profumo. Che si sia pentita di avermi consegnato nelle mani di Culchelubi e che ora cerchi di salvarmi? Avrei preferito che non si fosse più occupata di me.

Levò con precauzione il pezzetto di carta e trasalì.

— Il mirab! — esclamò.

— L'ex-templario!...

— Sì, Testa di Ferro.

— Non è possibile, signore!

— Leggi.

Non vi erano che poche parole.

«A questa sera — Il Mirab.»

— Per Sant'Isidoro! — esclamò il catalano. — Come può aver fatto quell'uomo per mandarci questo biglietto? Che sia così potente da sfidare impunemente anche l'ira di Culchelubi e d'aver degli amici perfino nei bagni?

— Lui od Amina? — chiese il barone.

— La mora?

— Il biglietto è profumato d'ambra e deve uscire dalle mani della sorella di Zuleik.

— Venga anche dalle mani del diavolo, poco importa, signore. A me basta che trovino il mezzo di levarci da questa tomba. Vorrei sapere come sono riusciti a farci giungere questo biglietto e come faranno a farci fuggire? E sarà per questa sera!... Signor barone, che sia un tiro di quella canaglia di Culchelubi per avere una scusa onde mandarci all'altro mondo?

— Come vuoi che egli abbia potuto sapere delle nostre relazioni col capo dei dervis giranti? No, Testa di Ferro, qui il capitano generale delle galere non deve entrarci.

— Allora è il mirab d'accordo col Normanno che cerca di salvarci.

— E probabilmente anche d'intesa colla principessa.

— Dopo d'avervi dato in mano a quel mostro di Culchelubi ora vuole riavervi. Capite qualche cosa del cuore di queste more? Comunque sia, meglio nelle unghie di quella donna che in quelle del capitano generale — concluse il bravo catalano. — Almeno, se il colpo riesce, non avrò a temere il confronto con quel fregatario dalla feluca verde. Signor barone, dividiamoci questa pagnotta e aspettiamo gli eventi.