Le pantere di Algeri/Capitolo 13 - La misteriosa scomparsa del rinnegato
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13.
LA MISTERIOSA SCOMPARSA DEL RINNEGATO
L'indomani, dopo una dormita di dieci buone ore, Testa di Ferro, che aveva sognato tutta la notte fiaschi di quell'eccellente Xeres fattogli bere il dì innanzi dal rinnegato e che desiderava ardentemente berne un buon bicchiere per svegliarsi completamente, rimase stupito trovando il cortile vuoto. Vedendo però i tappeti ed il bottiglione ed avendo notato, prima d'addormentarsi, che il rinnegato si era sdraiato in quel luogo, credette da prima che il taverniere si fosse ubriacato e poi recato a dormire in qualche altro luogo.
— Avevamo una brava sentinella — mormorò. — I mori potevano entrare liberamente e saccheggiare anche la cantina e poi sgozzare anche noi. Andiamo a vedere dove si sarà cacciato quel poltrone.
Fece il giro del cortile, poi quello del porticato, e visitò le stanze pianterrene che erano prive di porte, senza riuscire a trovarlo.
— Che Maometto, poco convinto della sua conversione se l'abbia portato all'inferno? Sono cose che potrebbero succedere in questo paese.
Si diresse verso il corridoio che metteva alla porta e con spavento constatò che quella era solidamente chiusa.
L'eroico discendente dei Barbosa si sentì drizzare i capelli e scorrere pel corpo un brivido gelido.
— Se la porta è ancora sprangata, ciò significa che non è uscito. Che questa bicocca sia stregata?
Alzò i tacchi guardandosi attorno con smarrimento, credendo di veder sbucare dalle colonne legioni di diavoli e di folletti e si precipitò come una bomba nella stanza dove il fregatario ed il barone riposavano ancora.
— Signore! Marinaio! In piedi! — gridò.
— Chi ci minaccia? — chiese il giovane gentiluomo, gettandosi giù dal divano e guardando la faccia sconvolta del catalano. — I barbareschi?
— Qualche cosa di peggio forse, signor barone — rispose Testa di Ferro che diventava rapidamente livido. — Io non so... succedono certe cose qui... c'è da spaventarsi e anche da perdere la testa.
— Insomma che cosa è accaduto? — chiese il Normanno, che erasi slanciato verso le pistole che aveva appese alla parete.
— C'è che il rinnegato è scomparso.
— Sarà andato a fare le sue provviste.
— Ma no, marinaio, perché la porta è sprangata internamente.
— Che cosa venite a raccontarci?...
— Testa di Ferro — disse il barone, con voce severa. — Hai bevuto forse?
— Nemmeno una goccia d'acqua, signor barone, lo giuro sull'onore e sulle gloriose spade dei miei avi.
— Andiamo a vedere — disse il Normanno, nel cui animo cominciava ad infiltrarsi un po' d'inquietudine. Preceduti da Testa di Ferro, visitarono tutte le stanze, la cantina, il porticato ed il terrazzo senza alcun resultato.
— Normanno, — disse il barone, un po' preoccupato, — avevate completa fiducia in quell'uomo?
— Intera, signore. Lo conosco da cinque anni, mi ha aiutato a far fuggire non pochi cristiani ed è devoto al mirab.
— Dunque non possiamo ammettere che egli ci abbia lasciati per andare a denunciarci.
— Lui! Oh, mai, signor barone.
— Come spiegate la sua scomparsa senza averci detto nulla?
— Non lo so davvero. E poi da qual parte può essere uscito se la porta è ancora sprangata internamente? Non sarà di certo saltato dal terrazzo, mentre aveva la chiave.
— Siete inquieto?
— Molto, signor barone e vorrei andarmene presto da qui, prima che succeda qualche cosa di peggio. Questa scomparsa non mi tranquillizza affatto.
— Che sia stato rapito?
— E da chi?
— Non lo so.
— Mi fate nascere un sospetto, ma qui non v'è alcuna traccia che possa essere avvenuta una lotta. È bensì vero che lo spagnolo amava troppo il buon vino del suo paese e che può essere stata sorpreso mentre era ubriaco. Diversamente si sarebbe difeso e avrebbe dato l'allarme. Avete udito nulla voi?
— No — rispose il barone.
— E nemmeno io — aggiunse Testa di Ferro.
— Vediamo — disse il Normanno. — Il rinnegato, se non m'inganno, si era coricato su quel mucchio di vecchi tappeti.
— L'ho osservato anch'io — disse il catalano.
— Una lotta non deve essere avvenuta perché vedo là un fiasco che è ancora ritto.
— E metà pieno di Xeres — aggiunse Testa di Ferro.
— Ora mi domando da qual parte possono essere entrate le persone che lo hanno portato via.
— Dal terrazzo di certo — disse il barone.
— Andiamo a vedere se troviamo qualche traccia di scalata. Ah!
— Che cosa avete?
— Guardate là, presso quelle colonne. Non scorgete a terra dei pezzi di muratura e due o tre mattoni? Ieri sera non vi erano.
— È vero — rispose il barone. — Il cortile era pulito ma possono essersi staccati dal parapetto senza alcun urto, dato il pessimo stato del muricciuolo.
— Saliamo, signore.
Montarono la scala che metteva sul terrazzo e guardarono attentamente il parapetto, il quale in molti luoghi presentava delle fenditure. Giunti verso il lato che prospettava sulla via, si arrestarono mandando un grido di sorpresa.
Dal margine del terrazzo pendeva una fune trattenuta al muricciuolo da un robusto gancio di ferro.
— I rapitori del rinnegato sono saliti per di qui — disse il Normanno.
— E devono anche essere ridiscesi assieme allo spagnolo — disse il barone. — Vedo qui sotto altri mattoni che sono caduti.
— Ora sappiamo che l'hanno portato via.
— Tuttavia non ne conosciamo il motivo e ignoriamo ancora chi sono stati i rapitori — rispose il barone.
— Io dico che è stato Maometto, — mormorò Testa di Ferro, — od il diavolo.
— Signor barone, — disse il Normanno, — andiamocene e presto. Il rinnegato si trarrà d'impiccio come potrà; torneremo questa sera a vedere se è rientrato nella sua bicocca. Non spira buon'aria per noi, in questo luogo. Giacché vi è ancora la fune, approfittiamone per calarci sulla via.
— Sì, sgombriamo — rispose il gentiluomo.
— Andremo a far colazione a bordo della mia feluca, poi, giacché lo desiderate, ci recheremo al bagno dei Pascià. Chissà, forse potremo raccogliere qualche notizia sulla contessa.
— Dio lo volesse — rispose il giovane, con voce triste. — Ah! Mia povera Ida, chissà se potrò riaverti un giorno e vendicare l'infame tradimento di Zuleik.
Si calarono sulla viuzza che era deserta e scesero verso la città che cominciava allora a popolarsi.
Mori, arabi, beduini, gente del deserto e montanari dell'Atlante, gli uni scintillanti d'oro e le larghe fasce riboccanti d'armi finamente cesellate ed incrostate d'argento e di madreperla, gli altri avvolti in semplici cappe di lana bianca o di pelo di capra e armati di lunghissimi fucili coi calci quadrangolari e contorti, si pigiavano nelle strette vie della città chiacchierando, ridendo, pettegolando.
Di quando in quando gruppi di superbi cavalieri, che montavano dei piccoli destrieri dallo sguardo ardente e colle lunghe criniere, con selle ricamate e gualdrappe a vivaci colori, passavano fendendo la folla e urtandola, senza troppo preoccuparsi se storpiavano o travolgevano qualcuno. Poi passavano ondate di negri, provenienti da tutte le regioni dell'Africa equatoriale, veri èrcoli, con dorsi poderosi che parevano sfidare i più pesanti carichi, quasi interamente nudi, che venivano spinti innanzi, a colpi di frusta, dai loro padroni, veri tipi di briganti del deserto, con lunghe barbe nere, ampi caffettani, turbanti immensi e yatagan e scimitarre, e pistole alla cintura, Quindi lunghe file di schiavi cristiani, magri, sparuti, coi dorsi coperti di lividure, appena coperti da pochi cenci, colle catene alla cintura, che venivano spinti verso il porto o fuori della città a coltivare le terre dei padroni, sotto l'implacabile sole africano e fino all'esaurimento completo delle loro forze. Correvano ansanti, trafelati, come bestie spaventate, insultati dai passanti, derisi dai monelli barbareschi, percossi senza misericordia dagli staffili dei loro feroci guardiani, i quali pareva che provassero una gioia immensa a tormentare quei poveri corpi ischeletriti dalla fame e dalle fatiche. Il Normanno ed i suoi compagni, procedendo stentatamente fra tutta quella gente che ingombrava le vie e le piazze, verso le dieci giungevano al porto, di fronte alla feluca.
I marinai, senza preoccuparsi del loro capitano, avevano già sbarcata buona parte del carico e cominciata la vendita. Circondati da una cinquantina di barbareschi discutevano animatamente come veri mercanti, vantando la qualità delle loro merci, parlando arabo, turco e levantino con una abilità sorprendente, ed invocando ad ogni momento Maometto e giurando pel Corano come mussulmani perfetti.
— Non perdono tempo i vostri uomini — disse il barone al Normanno.
— Così facendo allontanano ogni sospetto — rispose il fregatario. — Tutti questi mercanti conoscono i miei uomini e anche la mia feluca e potranno testimoniare, in qualche brutto momento, che noi siamo degli onesti trafficanti e non già dei fregatari.
Salirono sul Solimano e fecero colazione. Durante la loro assenza nulla era avvenuto che potesse far nascere qualche sospetto da parte dei capitani del porto.
Nessuno si era occupato della feluca, la quale, confusa fra le molte altre che ingombravano il porto, non era stata notata.
Interamente tranquillizzati da quel lato, il Normanno ed i suoi compagni, dopo d'aver cambiati i costumi, indossando delle cappe oscure ornate di nappine variopinte, come usavano i rifani e gli abitanti dell'interno e coprendosi il capo con enormi turbanti, sbarcarono nuovamente per recarsi al bagno dei Pascià, colla speranza di raccogliere qualche notizia sulla triste sorte della disgraziata fanciulla.
Tutte le gettate erano ingombre di trafficanti, di schiavi negri e cristiani incaricati dello scarico di navigli e delle montagne di merci provenienti per la maggior parte da saccheggi compiuti sulle coste di Spagna, di Francia, d'Italia e della Grecia, giacché in quell'epoca i barbareschi, imbaldanziti dai loro continui successi e resi audaci dalla loro potenza, non risparmiavano ormai più nessuno. Nel porto, numerose galere da guerra stazionavano, in attesa d'una occasione propizia per riprendere le loro scorrerie sul Mediterraneo, e fra esse vi erano pure le quattro che avevano combattuto contro la Sirena, riconoscibili per i danni riportati e non ancora riparati.
— Vorrei poterle incendiare tutte — disse il barone.
— Ed io farle saltare coi loro equipaggi — rispose il Normanno. Attraversarono la parte occidentale del porto e verso le quattro s'arrestarono dinanzi ad un immenso fabbricato di forma quadrata, tutto bianco, sormontato da immense terrazze.
— Il bagno dei Pascià — disse il Normanno.
Il barone era diventato pallidissimo, come se tutto il sangue gli fosse affluito al cuore.
— Ed ella si trova lì dentro — mormorò con angoscia. — Michele, datemi un mezzo qualunque per poter entrare.
— È impossibile, signore. Nessuno può ottenere un tale permesso.
— Dove sarà rinchiusa?
— Chi può saperlo? Probabilmente in qualche cella assieme a molte altre compagne di sventura. Ah! Guardate là, sulla spiaggia! Non vedete tutti quei vecchi cenciosi, sdraiati al sole, che sembrano boccheggianti?
— Sì, chi sono.
— Dei cristiani che lasciano morire di fame, non essendo più capaci di lavorare e che quindi non valgono la pena di venire nutriti.
— Una simile infamia...
— E altre peggiori ne vedrete, signore — disse il Normanno.
Arrestò un negro che gli passava accanto, portando sulle spalle un carico enorme, che gli faceva piegare la poderosa schiena.
— Chi sono costoro? — gli chiese.
— Cristiani giunti ieri colle galere di Ossum. I validi sono stati condotti al bagno, quelli lì, che sono vecchi impotenti e ammalati li lasciano crepare. D'altronde, a che servirebbero?
— Sono i vecchi di San Pietro — disse il Normanno al barone. — Canaglie di barbareschi!1
— E noi lasceremo morire quei miseri?
— Non accostateli, se vi preme la vita e la libertà della contessa. Verreste subito notato e anche sospettato. Questa sera manderò qui alcuni dei miei uomini con dei viveri e del denaro, ma ciò non basterà a salvarli dalla morte.
— È orribile!
— Corazzate il vostro cuore, signor barone. È necessario.
Lo trasse lontano da quel luogo, conducendolo di fronte al bagno, il quale prospettava su una vasta piazza ombreggiata da splendidi palmizi. Tutto intorno al gigantesco fabbricato e dinanzi alle feritoie aperte quasi a fior di terra, vi erano soldati armati di archibugi e di scimitarre, sdraiati sul margine del fossato.
Un odore nauseante usciva dalle aperture, un odore di muffa e di cose corrotte. Di quando in quando si udivano delle grida alzarsi nell'interno e sulle terrazze e nei cortili uno strascinare di catene e di ferramenta.
— Mi pare di avere il cuore stretto da una morsa — disse il giovane gentiluomo, che si tergeva il sudore che gli bagnava la fronte. — E la contessa è lì dentro, in quella bolgia infernale ed io nulla posso fare per salvarla. È orribile! È orribile!
Il Normanno lo guardava, profondamente commosso dall'intenso dolore che traspariva sul bel viso dei valoroso gentiluomo. Testa di Ferro si dava dei pugni sul turbante e masticava imprecazioni contro quelle canaglie barbaresche, promettendosi stragi spaventevoli alla prima occasione.
— Signor barone — disse ad un tratto il Normanno. — Ho veduto uscire dal bagno in questo momento un soldato a cui ho venduto parecchie volte dei fez di Smirne e che è entrato in quel caffè. Andate ad attendermi presso quella fontana. Cercherò di strappare a quell'uomo qualche notizia.
— Non vi comprometterete?
— Oh! Sarò prudente e astuto. Non temete per me.
Li lasciò e si diresse verso una casetta che si trovava su un angolo della piazza, dove si vedevano aggirarsi parecchi gruppi di mori fumando e chiacchierando.
— Che fegato ha quel Normanno! — esclamò Testa di Ferro. — Ecco un uomo! Signor barone, quel fregatario, farà grandi cose.
Il marinaio aveva raggiunta la casetta ed era entrato nel cortile che era ombreggiato da alcuni palmizi e coperto da tappeti di Rabat; sui quali, mori, turchi e beduini sorseggiavano tazze di eccellente moka, discorrendo e pettegolando.
In un angolo, un soldato che aveva il viso sfregiato da una cicatrice profonda, centellinava con beatitudine una tazza di caffè fra due boccate di fumo.
— Che cosa fai qui, tutto solo, Mohamed-el-Sadok? — chiese il Normanno, sdraiandosi presso di lui. — È un bel po' che non ci si vede e che non si vendono fez.
Il soldato si levò dalle labbra la canna del cibuk, guardando attentamente il fregatario.
— Ah! — esclamò ad un tratto. — Il mercante di fez...
— E d'altre cose ancora — aggiunse il marinaio. — Mohamed-el-Sadok non si ricordava più di me?
— Quando sei giunto? — chiese il soldato.
— Stamane.
— Buon carico?
— Un po' di tutto.
— Era molto che non ti si vedeva in Algeri.
— Sono stato a Tangeri ed a Tunisi. Che cosa abbiamo di nuovo qui? Ho veduto delle galere molto danneggiate nel porto. Le avete date a quei cani di cristiani?
— E ne abbiamo anche ricevute — rispose il soldato, facendo una smorfia. — Si battono bene i cristiani e si difendono con furore.
— Avete fatto buone prese almeno?
— Un bel numero di schiavi.
— Presi dove?
— A San Pietro di Sardegna.
— Sono rinchiusi qui nel bagno dei Pascià?
— Tutti.
— Persone di distinzione?
— Uff! Pescatori, ma che lavoreranno bene. Non v'è che una donna che valga, anzi che varrà molto e che i mercanti si disputeranno a colpi di zecchini, se sfuggirà al bey ed a Culchelubi.
— Bella?
— Giovane, bellissima e nobile — disse il soldato. — Sarà un po' difficile che cada nelle mani dei mercanti di schiavi e che la si esponga sul bolistan.2
— Se finisce fra le unghie di Culchelubi non si troverà certamente troppo bene — rispose il Normanno tentando di sorridere.
— È cattivo il capitano generale delle galere e non ha riguardi per nessuno. Frusta le sue donne quando è ubriaco e ciò succede bene sovente.
— Compiango quella povera giovane.
— Bah! è una cristiana.
— Quando si farà la scelta degli schiavi?
— Quest'oggi verranno i provveditori dell'harem del bey e quelli di Culchelubi. Tu sai, marinaio, che essi hanno la precedenza.
Il Normanno avrebbe desiderato mettere in campo Zuleik, ma vedendo che il soldato sembrava annoiato e non osando mostrarsi informato per non destare qualche sospetto, dovette lasciar morire la conversazione. Vuotò una tazza di caffè, pagò anche quella del soldato e se ne andò.
Non era certo troppo soddisfatto di quel colloquio. Se la bellezza della contessa era stata notata, vi era da temere che quella povera giovane andasse a finire nelle mani del bey o del feroce Culchelubi e strapparla all'uno o all'altro, non era impresa facile.
— Nascondiamo al barone questo pericolo — mormorò, avviandosi verso la fontana. — Sarebbe un colpo troppo forte per quel bravo gentiluomo.
Il capitano della Sirena, in preda ad una profonda tristezza, stava appoggiato alla vasca di marmo, raffigurante una gigantesca conchiglia, tenendo gli sguardi smarriti sulle massicce mura del bagno, colla vaga speranza di veder comparire sulle terrazze, ingombre di schiavi cristiani, la fidanzata.
— Ebbene, che cosa avete saputo? — chiese con angoscia al Normanno.
— Ben poche cose, signor barone. La contessa di Santafiora si trova là dentro assieme alle donne rapite a San Pietro e questo è tutto. Il soldato non ha saputo dirmi di più.
— E Zuleik?
— Non se ne sa nulla, ma se la contessa si trova nel bagno ciò vuol dire che il moro non ha potuto sottrarla alla sorveglianza dei guardiani del bey e del capitano generale delle galere.
— Preferisco che sia nel bagno piuttosto che in qualcuno dei suoi palazzi.
Il Normanno crollò la testa senza rispondere. Avrebbe preferito che se l'avesse portata via il moro, ora che sapeva che poteva cadere nelle unghie del feroce Culchelubi o essere rinchiusa nell'inaccessibile harem del bey. Tornarono lentamente verso il porto orientale, tutti tre pensierosi ed un po' scoraggiati, e senza scambiare una parola salirono sulla feluca, in attesa della sera per recarsi dal capo dei dervis giranti.
Note
- ↑ Anche nell'invasione barbaresca del 1798, diretta contro la disgraziata isola di San Pietro, che perdette l'intera sua popolazione, tratta tutta in Algeri schiava, i vecchi vennero abbandonati sulla spiaggia e lasciati morire di fame e di sete.
- ↑ Bazar destinato alla esposizione e alla vendita degli schiavi cristiani.