Le pantere di Algeri/Capitolo 12 - Attacco notturno
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12.
ATTACCO NOTTURNO
Era quella una vera bicocca, che un moro od un barberino avrebbero sdegnato di abitare, colle altissime pareti prive di finestre, tutte screpolate, i porticati interni del cortiletto in disordine, la terrazza sovrastante quasi priva di parapetti e gli angoli che parevano dovessero crollare da un momento all'altro. Doveva però anticamente essere stata molto vasta e anche bella. Infatti tutto all'intorno si vedevano ammassi di rovine, colonne spezzate, capitelli scolpiti, qualche arcata di stile moresco-arabo, ricca di fregi e anche alcune fontane le cui ampie coppe erano cadute al suolo.
Il rinnegato, un uomo tarchiato, colla barba nera, d'aspetto quasi brigantesco e abbronzato come un barbero, aveva però accomodato alla meglio il cortiletto interno, il cui pavimento era in mosaico variopinto, piantando delle aloè, delle acacie e dei leandri che spandevano acuti profumi e stendendovi sopra un velario sdruscito per riparare dal sole i frequentatori. Il Normanno e lo spagnolo, che si conoscevano da vecchia data, si strinsero la mano sorridendo, guardandosi negli occhi, con un: Dannato Maometto e tutti i suoi seguaci, che dimostrava chiaramente quale specie di islamiti fossero.
— Hai qualche colpo da fare? — chiese lo spagnolo. — Non per nulla tu vieni ad Algeri.
— Ho un carico di spugne da vendere e dei datteri — rispose il Normanno, ridendo.
— E qualcuno da riportare via — disse il rinnegato. — Sta' in guardia e apri bene gli occhi, marinaio. Senti tu questo odore che il vento porta fino qui?
— Infatti sento un certo profumo che non mi sembra né di rose né di aloè.
— Ne hanno cucito uno, cinque giorni or sono, nel ventre d'un toro ed ora sta putrefacendosi.
— Un fregatario? — chiese Normanno.
— Un siciliano che hanno sorpreso, non so come, al bazar. Pare che dovesse salvare un cavaliere aragonese preso alle Baleari sei mesi fa, dopo un terribile combattimento.
— Ed uno l'hanno arrostito stamane collo sciamgat. Ecco delle cose che non incoraggiano affatto e che mettono indosso la febbre.
— Tu hai della furberia da vendere e hai delle conoscenze qui — disse lo spagnolo.
— Che l'inferno s'inghiotta tutti questi cani idrofobi. Portaci da mangiare e soprattutto da bere e che non sia acqua. Spero che nessuno ci vedrà a ingollare del vino. Tu sai che la religione vieta le bevande fermentate, tu che sei mussulmano convinto ormai.
— Tanto che tutte le sere vado a dormire colle gambe malferme e la testa pesante — rispose il rinnegato. — Se beve e si ubriaca Culchelubi che è nato mussulmano, posso bere anche io che sono nato cristiano.
— Che cosa fa quella pantera?
— Passa il suo tempo a far frustare le sue schiave ed a vuotare barili di vino di Spagna e d'Italia.
— Potessero ammazzarlo una buona volta! — esclamò il fregatario, digrignando i denti.
— C'è chi ci pensa — disse lo spagnolo, facendo un gesto di minaccia. — La pantera morrà.
Entrò in una delle stanze che mettevano sotto il porticato, e tornò portando un canestro contenente del montone arrostito, delle olive salate e delle scodelle ripiene di salse untuose e profumate ed un rispettabile fiasco.
— Signor barone — disse il Normanno, tagliando una enorme pagnotta di miglio. — Mangiate, bevete, e parlate anche liberamente nella vostra lingua. Siamo soli ed il taverniere non è uomo da tradire. Se ha rinnegata la sua fede per salvare la pelle, in fondo al cuore è rimasto cristiano e odia queste canaglie di barbareschi al pari di me e di voi. Consideratevi qui come foste a bordo della mia feluca.
— Non potrà darci alcuna indicazione quest'uomo su Zuleik?
— Non è possibile; non osa mai scendere in Algeri. Quantunque lo si sappia un rinnegato, i mori ed i barberi non trascurano di tormentarlo, di deriderlo, sicché è costretto a starsene quassù per evitare di peggio.
«Non vi è che un solo uomo che possa fare le ricerche con buon successo: il mirab e quel vecchio andrà a fondo della cosa, specialmente quando saprà che si tratta di rendere un servizio al barone di Sant'Elmo e alla contessa di Santafiora. Abbiate pazienza e aspettiamo la sera.»
— E si può averne finché si vuole, della pazienza — disse Testa di Ferro che tracannava avidamente il vecchio Xeres del rinnegato. — Quando si ha dinanzi un fiasco così rispettabile, il tempo non sembra mai lungo. Eccellente vino, signor barone! Non ne ho mai bevuto di simile nella Catalogna.
— Non scherzate troppo — disse il Normanno. — Riscalda gli orecchi questo vino, messer Testa di Ferro, e potrebbe farvi un brutto tiro.
— Mi dà anima — rispose il catalano. — Ne avevo proprio bisogno dopo la scena di stamane.
— Ne vedrete ben altre, prima di lasciare Algeri. Non sarà l'ultimo cristiano che questi cani tortureranno.
— Dovesse toccare a me...
— Cosa fareste?
— Taglierei il naso a tutti i carnefici.
— Terribile voi, Testa di Ferro.
— Vedrete alla prima occasione.
Trascorse così chiacchierando l'intera giornata, fumando e bevendo all'ombra del velario e dei leandri, contando pazientemente le ore.
Il fregatario più volte era uscito per accertarsi se il beduino si aggirava nei paraggi, e non avendolo già scorto aveva finito per rassicurarsi completamente. Era ormai quasi convinto di essersi ingannato e di aver scambiato quel beduino con un altro. Il barone però, pur discorrendo, era ricaduto frequentemente nelle sue tristezze, malgrado gli sforzi del Normanno per distrarlo e le smargiassate del catalano. Il pensiero che la fanciulla amata, si trovasse in quel momento nel palazzo di Zuleik, doveva torturargli atrocemente il cervello e fargli sanguinare il cuore. Più volte anzi, per nascondere la sua emozione, si era alzato, passeggiando agitatissimo sotto i chioschi del cortile. Verso le undici di sera, il Normanno diede finalmente il segnale della partenza, tanto ansiosamente atteso dal barone.
— È il momento di andarlo a trovare — aveva detto alzandosi. — Fra un quarto d'ora noi saremo alla cuba del mirab.
— È vicina, dunque?
— Dietro la Kasbah, presso una moschea rovinata.
Salutarono lo spagnolo promettendogli di ritornare e s'incamminarono fra le rovine che si prolungavano lungo i fossati ed i saldi bastioni della Kasbah.
Il normanno si fermava di frequente per guardarsi alle spalle. Quantunque non avesse più veduto il beduino e fosse quasi convinto di essersi ingannato, eppure diffidava ancora. Nessun indizio avvalorava tuttavia i suoi sospetti. Non si vedeva alcun essere vivente vagare fra quegli ammassi di rottami, né sotto i gruppi di palme. Avevano percorso circa duecento passi quando il fregatario, che da qualche momento si turava il naso, si fermò nuovamente, dicendo:
— Dobbiamo essere vicino al cristiano cucito nella pelle del toro. Non sentite questo odore nauseante che ci prende alla gola?
— È già da un po' che me ne sono accorto — rispose Testa di Ferro. — Credevo che provenisse dalla carogna di qualche cammello.
— È un povero uomo che si putrefa assieme al toro, un fregatario sorpreso cinque giorni or sono, mi ha detto il rinnegato.
— Quali atroci supplizi hanno inventato questi infami! — disse il barone.
— Devono averli appresi dal diavolo, signori — rispose il Normanno. — Eccolo là, alla base di quel bastione.
— E dite che lo hanno cucito? — chiese Testa di Ferro che si sentiva raggrinzare le carni.
— Vivo entro un toro sventrato, onde si putrefi lentamente.1
— Quale orrore! — esclamò il barone rabbrividendo. — Ah! Hanno ben ragione di chiamare questi mostri le pantere d'Algeri.
— Signor barone, giriamo al largo — balbettò Testa di Ferro. — Coi morti non mi trovo bene io.
Si allontanarono frettolosamente non potendo più sopportare quell'odore pestilenziale e si cacciarono in mezzo ad un boschetto di palme che si prolungava sul fianco della collina, girando attorno alla cittadella del bey. Dopo d'aver fatto attraversare ai compagni il boschetto e parecchi giardini difesi da siepi di fichi d'India, il marinaio raggiunse una spianata che si estendeva dietro la Kasbah ed in mezzo alla quale si vedevano le rovine d'una moschea, la cui cupola era caduta.
Un po' più oltre, presso una superba quercia che estendeva i suoi rami in tutte le direzioni, proiettando una fosca ombra, si scorgeva un piccolo edificio quadrato, tutto bianco, sormontato da una cupoletta semisferica.
— La cuba del mirab, o meglio del vecchio templario, — disse il Normanno, additandola al barone, — È la tomba d'un sonéti, ossia d'un santo molto venerato dai barbareschi.
— Sarà solo il vecchio?
— Sì. E ci aspetterà — rispose il marinaio.
Si fermò guardando all'ingiro per vedere se erano stati seguiti, poi s'avvicinò alla cuba, mandando un fischio.
Un momento dopo la porticina si apriva ed il capo dei dervis giranti compariva, tenendo in mano una lampadina d'argilla.
— Sei tu, Michele? — chiese.
— Sì, signor d'Arin...
— Silenzio, io sono per tutti mirab Abd-el-Hagil. Chi conduci con te?
— Un gentiluomo ed il suo servo.
Il vecchio squadrò attentamente il barone ed il catalano, dardeggiando su di loro uno sguardo penetrante come la punta d'una spada, poi, soddisfatto di quell'esame, si tirò da una parte, dicendo:
— Entrate nella mia umile dimora.
L'interno della cuba, consistente in una unica camera quadrata, era arredata meschinamente, non dovendo i dervis sfoggiare alcun lusso, facendo parte della corporazione dei monaci mendicanti.
Non vi erano che un divano sgangherato che doveva servire di letto, dei tappeti scoloriti pel lungo uso, e dei vasi di terra contenenti probabilmente i viveri e l'acqua del mirab e due cassettoni contenenti le sue vesti. Il vecchio, con un gesto maestoso, e ad un tempo grazioso, che tradiva il signore europeo, fece cenno al barone di sedersi sul divano, poi gli disse:
— Voi non siete un prigioniero cristiano, è vero?
— Questi è il barone Carlo di Sant'Elmo, cavaliere di Malta — disse il Normanno.
— Un cavaliere di Malta così giovane!... — esclamò il mirab con stupore.
— E valoroso fra i valorosi — aggiunse il Normanno. — Io l'ho raccolto mentre colla sua galera combatteva terribilmente contro le quattro che hanno depredata e messa a ferro ed a fuoco l'isola di San Pietro.
— Un bel coraggio, signor barone — disse l'ex-templario. — Anch'io nella mia gioventù, prima che cadessi prigioniero di questi infami barbareschi, di queste pantere algerine, ho combattuto e aspramente contro gl'infedeli a Candia ed a Negroponte, in difesa del glorioso vessillo di San Marco... ma quei tempi sono ormai così lontani.
«Il templario non ha più né la sua corazza, né la sua spada, né la sua galera, affondata negli abissi del Mediterraneo dallo scoppio della santabarbara e l'antico guerriero, un giorno temuto, è diventato oggi un mirab dei suoi nemici.»
Tacque, mandando un profondo sospiro, mentre una tristezza infinita si diffondeva sul suo viso rugoso, poi volgendosi nuovamente al barone, gli chiese:
— Che cosa desiderate da me, signor di Sant'Elmo? Se Michele vi ha condotto qui, suppongo che voi avrete qualche persona cara da strappare alle unghie delle pantere d'Algeri.
— È vero signor...
— Chiamatemi semplicemente Abd. Da quando fui costretto a riscattare la mia vita, dannato ai più orribili supplizi, colla rinuncia della mia fede, devo essere considerato come un seguace di Maometto, come un mussulmano.
— Che rende più preziosi servigi dei cavalieri di Malta — disse il barone. — So quanto fate, signore, e so quanti devono a voi la loro libertà.
— Sono diventato mirab per aiutare i disgraziati che languono sotto la sferza dei barbareschi. Parlate, signor barone, tutto quello che potrò fare per voi, lo tenterò e con piacere.
Il signor di Sant'Elmo in brevi parole lo mise al corrente dell'improvvisa invasione dei barbareschi a San Pietro, dell'assalto del castello, del tradimento ordito da Zuleik, del rapimento della contessa di Santafiora e dell'inseguimento che senza la provvidenziale comparsa delle due feluche, avrebbe dovuto terminare con un completo disastro per i maltesi.
— La contessa di Santafiora qui e prigioniera! — aveva esclamato il vecchio, con doloroso stupore. — Io conoscevo suo padre, quel valoroso che ebbe l'audacia di venire fino qui, a coprire di palle i forti algerini e conoscevo anche il suo castello. I barbareschi avevano già giurata la rovina di quel maniero per vendicarsi del bombardamento e hanno mantenuta la parola.
— Non avete mai udito parlare di quel Zuleik, che si dice principe e discendente dei califfi di Granata e di Cordova? — chiese il Normanno.
— Zuleik... è poco.
— Ben-Abad — disse il barone.
— Sì, è una delle più cospicue famiglie di Algeri — rispose il mirab. — I Ben-Abad erano potentissimi e ricchissimi e credo che lo siano ancora. So che hanno grandiosi palazzi, castelli e anche galere, quindi mi sarà facile sapere dove abita quel Zuleik e anche dove avrà nascosta la contessa di Santafiora.
— Credete che la prigioniera si trovi presso di lui? — chiese il barone con ansietà.
— I corsari devono essere giunti ieri sera, — rispose il mirab, — quindi è impossibile che a quest'ora si siano fatte le spartizioni dei prigionieri.
— Zuleik può averla portata via.
— No, non è possibile. La prima scelta degli schiavi spetta al bey, poi a Culchelubi, il più crudele dei barbareschi ed ai proprietari dei bagni. Nessuno prima di loro può accampare pretese, nemmeno i capitani delle galere.
— E se Zuleik avesse trovato il modo, d'accordo coi capitani, di sottrarla alla scelta?
— Non l'avrebbe osato. Qui si fa presto a uccidere un uomo anche se appartiene ad una famiglia potente.
— Dove saranno i prigionieri?
— Al bagno dei Pascià, che è il più vasto di tutti — rispose l'ex-templario. — Prima che la scelta possa essere fatta e si proceda alla vendita degli schiavi, passerà qualche settimana, barone. È bella e giovane la contessa?
— Sì, una fanciulla adorabile — disse il Normanno.
— È vero — confermò il barone, con un mesto sorriso.
— Allora non sarà di certo venduta — disse il mirab. — Forse è meglio così, perché almeno rimarrà in Algeri. Sarà molto difficile poterla strappare dall'harem dei Pascià o da quello del bey o di Culchelubi, tuttavia qualcuna l'abbiamo fatta fuggire, è vero Michele?
— Sì, signore — rispose il Normanno.
— Domani sera, a quest'ora, tornate qui, barone. Sono certo di potervi dare notizie su quel Zuleik Ben-Abad e anche sulla disgraziata contessa. Badate di esser prudenti e non lasciarvi sfuggire una parola con chicchessia e seguite i consigli che vi darà quest'uomo che è uno dei più abili e dei più astuti fregatari del Mediterraneo.
— Lo obbedirò — rispose il giovane gentiluomo.
— E farete bene — disse il mirab.
Poi volgendosi verso il Normanno, gli chiese:
— Sei venuto qui solamente per questo, Michele?
— No — rispose il marinaio. — Ero stato mandato dall'ambasciatore di Spagna presso Sua Santità, per tentare la liberazione di un suo nipote, il marchese De Veragrua, che voi dovete ben conoscere.
— Sei arrivato troppo tardi — disse il mirab, con un sospiro. — Quel povero giovane è morto, da due settimane, di stenti e di fatiche. Gli schiavi di Culchelubi non possono resistere a lungo.
— Allora la mia missione è finita.
— Sì e potrai dedicare tutta la tua astuzia e la tua audacia al barone di Sant'Elmo e alla liberazione della contessa di Santafiora.
— Forse è meglio così — disse il Normanno. — Sarò più libero di agire.
— Andate, figliuoli miei — disse il vecchio mirab. — È tardi ed ho bisogno di riposo.
Prese la lampade e li condusse fino sulla soglia, augurando loro la buona notte e stringendo la mano a tutti tre.
— Deve essere un brav'uomo — disse Testa di Ferro, quando si trovarono all'aperto. — Giuoca la sua vita per la salvezza degli altri.
— È vero — rispose il Normanno. — Bisognerebbe che campasse cent'anni ancora pel bene dei cristiani che si trovano prigionieri degli algerini.
— Dove andremo ora? — chiese il barone. — Alla feluca?
— Non è prudente attraversare di notte la città. Potrebbero crederci dei cristiani evasi, perciò preferisco tornarmene dal rinnegato dove troveremo un buon divano e dove saremo al sicuro.
— Ed i vostri uomini che cosa diranno, non vedendovi?
— Oh! Non si preoccuperanno, siatene certo. Sono abituati alle mie assenze, più o meno lunghe.
Si avvolsero nei loro mantelloni di lana, essendo le notti piuttosto fresche ad Algeri, quando non soffia il vento del sud, e si avviarono verso il boschetto di palmizi, girando al largo dai bastioni della Kasbah.
Camminavano però con prudenza, guardandosi attorno, anzi sembrava che il Normanno, quantunque non si scorgesse alcuno, non fosse del tutto tranquillo. Di frequente s'arrestava come se cercasse di raccogliere qualche rumore che gli sfuggiva.
— Si direbbe che voi sospettate di essere seguito — disse il barone.
— Sapete a chi pensavo in questo momento? — rispose il Normanno.
— No.
— A quel beduino.
— Ancora?
— Che cosa volete? Il mio istinto mi dice di stare in guardia e di diffidare di quell'uomo. Avete il vostro yatagan?
— E anche le pistole e una cotta di acciaio sotto la casacca — rispose il barone.
— Avete fatto bene ad indossarla. Se succedesse qualche cosa, non adoperate armi da fuoco. Fanno troppo fracasso e attirano l'attenzione degli altri.
Proseguirono la via scendendo la collina e si trovarono ben presto nel boschetto che attraversarono senza aver incontrato alcun essere vivente. Stavano per inoltrarsi fra le rovine, quando sotto un'arcata che sorreggeva una muraglia videro comparire improvvisamente alcuni uomini avvolti in mantelloni di lana oscura e che avevano i cappucci calati sul viso.
— Dei beduini! — aveva esclamato il Normanno, sguainando rapidamente l'yatagan. — Signor barone, ci aspettavano e sono certo che li guida quello che ho incontrato stamane.
— Non sono che sei — rispose tranquillamente il giovane gentiluomo, il quale stringeva già la solida lama della terribile sciabola ottomana. — Se vorranno impadronirsi di noi, avranno ben da fare.
— Sarei però stato più contento di non trovarli sui miei passi.
— Signor barone, — disse Testa di Ferro,— se provassimo a far giuocare le nostre gambe? Anche vincendo, non avremo niente da guadagnare.
— Poltrone! — esclamò il giovane.
— Non ho qui la mia mazza, signore.
— Tira l'yatagan e mostra una buona volta il tuo valore.
— Vi farò vedere come si uccidono quegli infedeli, signore. Il cuore dei Barbosa non ha mai tremato.
Un uomo si era staccato dal gruppo e si era avanzato verso di loro, sbarrando il passo.
— Dove andate a quest'ora? — chiese, gettando indietro i lembi del mantello e facendo scintillare la lama d'una scimitarra.
— Per la morte di Maometto! — mormorò il Normanno, impallidendo. — Questo è quel tale beduino! Signor barone, in guardia e uccidiamo bene e con meno rumore che vi sarà possibile.
S'avanzò a sua volta verso lo spione, dicendo:
— È a te che domando chi aspetti qui, cane d'un cristiano. Scommetterei che tu cerchi di aiutare la fuga di qualcuno. È così, beduino?
— Io un cristiano! Sono un figlio delle sabbie ed un credente convinto e posso provartelo.
— Allora chi aspetti qui?
— Tu.
— Che cosa vuoi da me?
— Condurti dal caid per accertarmi se sei veramente un mussulmano od un cristiano nella pelle d'un moro. È da stamane che ti seguo, dopo il supplizio dello spagnolo.
— Allora m'avrai veduto fare la mia preghiera come un devoto del Corano ed entrare nella moschea dei dervis giranti.
— E ciò che cosa prova?
— Ed entrare poi nella cuba del mirab.
— Ti ho veduto. Che cosa sei andato a fare dal mirab?
— A iscrivere nell'ordine il giovane che mi segue.
— E anche l'altro panciuto? — chiese il beduino, ironicamente. — Allora me lo proverai dinanzi al caid.
— Sono pronto a seguirti — rispose il Normanno.
S'appressò al beduino fingendo di rimettere l'arma nel fodero, ma quando gli fu vicino, con un gesto fulmineo gli piombò addosso scaricandogli sul cranio un pugno così formidabile dato col pomo dell'yatagan, da farlo stramazzare al suolo fulminato.
I compagni del caduto, gente senza dubbio valorosa e scelta, si scagliarono innanzi come un solo uomo, gridando:
— Addosso agli infedeli!... Sono cristiani!...
Il barone con un gesto rapido si era sbarazzato del mantellone, arrotolandoselo attorno al braccio sinistro, quindi si era gettato dinanzi agli assalitori, seguito, senza però molto entusiasmo, da Testa di Ferro il quale avrebbe preferito darsela a gambe, non ostante tutte le sue smargiassate.
Il giovane gentiluomo, come già abbiamo veduto, aveva il pugno di ferro e coraggio da vendere. Con un colpo di yatagan taglia la mano al primo che gli si parò dinanzi, strappandogli un atroce urlo di dolore, poi piombò sul secondo impegnando un furioso combattimento, corpo a corpo. Intanto il Normanno, sbarazzatosi dello spione, fronteggiava due altri, battagliando come meglio poteva e tenendoli a distanza, mentre Testa di Ferro si era attaccato all'ultimo, giurando sulla barba di Maometto di farlo in centomila pezzetti, sperando con quelle spacconate di spaventarlo e di metterlo in fuga. I beduini invece tenevano vigorosamente testa ai tre cristiani, dimostrando somma perizia nel maneggio dell'yatagan. Saltavano come pantere, evitando destramente i colpi degli avversari e rispondevano superbamente, mettendo specialmente in grave pericolo il catalano il quale aveva tutt'altro che il pugno solido colla paura che aveva addosso.
Si erano scambiati già una dozzina di colpi squarciandosi i mantelli, quando tutto d'un tratto due negri di statura gigantesca, riccamente vestiti ed armati entrambi di mazze ferrate, sbucarono dal boschetto di palmizi e piombarono alle spalle dei beduini. Bastarono pochi colpi per gettarli a terra tutti, morti o moribondi, compreso quello a cui il barone aveva tagliata la mano.
Il Normanno ed i suoi due compagni, sorpresi da quell'inaspettato soccorso, si erano prontamente riuniti, temendo che dopo aver distrutti i beduini quei due èrcoli se la prendessero anche con loro.
I due negri invece, visibilmente sorpresi di quel fulmineo massacro, dopo essersi scambiato uno sguardo, avevano appese alla cintura le loro tremende mazze ancora grondanti di sangue, poi uno si era avanzato verso il barone, dicendogli:
— Prendete: devo consegnarlo a voi.
Gli porse un bigliettino che esalava un acuto odore d'ambra, poi entrambi, senza aggiungere altro, s'allontanarono rapidamente scomparendo nel boschetto.
— Che cosa significa ciò? — chiese il barone, che stentava a rimettersi dallo stupore. — Ci capite qualche cosa voi, Normanno?
— Per ora comprendo una sola cosa — rispose il fregatario. — Che queste canaglie non ci daranno più fastidio e ciò è molto, signor barone.
— Ma perché quei due negri sono venuti in nostro soccorso?
— Probabilmente per provare le loro mazze — disse Testa di Ferro. — Che colpi, signor barone! Quelle mazze valgono bene la mia.
— Taci, sciocco.
— Vediamo quel biglietto, signore — disse il Normanno. — Forse avremo la spiegazione di questo mistero.
— È un biglietto profumato.
— Che affare è questo? Signor barone, lasciamo questi morti e andiamo dal rinnegato. Qui non si può leggere con questa oscurità.
— Mi pare che vi sia scritto qualche cosa — disse il gentiluomo, che aveva aperto il biglietto.
— Andiamo, signore, prima che giunga qualche ronda notturna.
— Dov'è Testa di Ferro?
Il bravo catalano non era lontano. Stava frugando le fasce dei beduini, vuotando le tasche interne che contenevano non pochi zecchini.
— Non perde il suo tempo il vostro servo — disse, il Normanno, ridendo. — È più abile a vuotare le tasche dei morti che a prendersela coi vivi. Olà! Signor della mazza, seguiteci se non volete farvi prendere.
L'illustre discendente dei Barbosa aveva già terminata la sua opera d'avvoltoio.
Tutti tre scesero fra le rovine con passo rapido e s'arrestarono dinanzi alla casa del rinnegato, la cui porta si era schiusa al primo fischio del Normanno.
Un momento dopo, il barone, il fregatario, Testa di Ferro ed il rinnegato, il quale aveva portata una lampada, si trovavano uniti sotto il porticato, intenti a decifrare ciò che stava scritto su quel biglietto profumato.
Era un quadrettino di carta rosa, piegato in quattro, che portava nel mezzo una sola parola, scritta in arabo, con una calligrafia sottile e snella che tradiva la mano d'una donna.
Il Normanno che sapeva l'arabo quanto un moro, aveva subito fatto un gesto di vivo stupore.
— Non contiene che un nome — disse.
— Quale? — chiese il barone.
— Quello d'una donna.
— È impossibile!
— Sì, è nome d'una donna: Amina.
— Amina!... — esclamarono ad una voce il barone e Testa di Ferro.
— È vero — disse il rinnegato.
— Avete conosciuto a Malta od in qualche altro luogo un'araba o turca, o mora che si chiamasse Amina? — chiese il Normanno.
— Mai — rispose il barone.
— Frugate bene nella vostra memoria.
— Non ho mai udito questo nome; è la prima volta che lo leggo.
I quattro uomini si guardarono l'un l'altro con imbarazzo.
— Che quei due negri si siano ingannati? — disse Testa di Ferro.
— Non lo ammetto — rispose il Normanno. — Prima di consegnare il biglietto hanno guardato attentamente il barone e sono quasi certo che quei due uomini ci seguivano coll'incarico di vegliare su di noi. Ah! Per la barba di Maometto! — esclamò ad un tratto, percuotendosi la fronte. — Ci sono!... Stupido!... Dovevo averli riconosciuti.
— Chi? — chiese il barone.
— Quei due negri.
— Allora sono vostre conoscenze.
— E anche vostre.
Il barone lo guardò, chiedendosi se il Normanno era diventato pazzo.
— Non vi comprendo — disse.
— Li abbiamo incontrati stamane, dopo l'uscita dalla moschea e per poco non battagliavamo con loro.
— I servi di quella dama?
— Sì, barone, erano due di essi che sono accorsi in nostro aiuto.
— Allora ci hanno seguiti.
— Certo.
— E, per quale motivo?
— Per vegliare su di noi, o meglio su di voi e consegnarvi il biglietto — disse il Normanno.
— E voi credete?...
— Io dico che voi, signor barone, avete ferito profondamente il cuore di quella donna.
— Non ci mancherebbe altro che m'imbarazzassi in questa avventura. Abbiamo ben altro da fare!...
— Non potrete negare però, che quella signora Amina fosse una bellissima donna.
— Che rinuncio volentieri agli altri — disse il barone. — Vi è qualche altra che occupa il mio cuore — aggiunse poi con un sospiro. — Infine, che cosa vorrà significare con questo biglietto?
— Non lo so davvero, signore — rispose il marinaio. — Per ora si è accontentata di farvi sapere che si chiama Amina... vedremo poi in seguito.
— Troveremo il modo di far perdere le nostre tracce a quei due negri.
— Ci proveremo, signor barone — disse il Normanno. — Quella donna potrebbe diventare pericolosa.
— Andiamo a dormire. Qui nessun pericolo ci minaccia.
— E poi veglierò io — disse il rinnegato.
Condusse il barone ed i suoi due compagni in una stanza a pian terreno dove si vedevano alcuni divani assai bassi e che sembravano abbastanza soffici, e li lasciò, dopo aver augurato loro la buona notte.
Non era trascorsa ancora una mezz'ora, quando il rinnegato, che si era sdraiato in mezzo al cortile, su d'un mucchio di vecchi tappeti, con a fianco un fiasco di vino di Spagna, l'unica cosa che gli ricordasse la patria ormai perduta per sempre, credette di scorgere due ombre gigantesche agitarsi sulla cima del terrazzo, al disopra del parapetto. Credendo di essersi ingannato o che fosse effetto del soverchio liquido trangugiato, si era alzato sulle ginocchia per meglio accertarsi se erano veramente ombre umane o una allucinazione del suo cervello riscaldato. Ad un tratto, con suo profondo terrore, vide quei due giganti lasciarsi scivolare lungo le colonne del porticato con rapidità fulminea e slanciarsi nel cortile. Non ebbe nemmeno il tempo di gettare un grido o di impugnare il coltello turco che portava alla cintura.
Quattro mani lo afferrarono, gli gettarono sul capo un cappuccio di grossa stoffa calandoglielo sul viso in modo da impedirgli di chiamare aiuto, quindi lo sollevarono, scomparendo fra le tenebre.
Note
- ↑ Questo spaventevole supplizio è ancora in uso nel Marocco.