Le pantere di Algeri/Capitolo 11 - I dervis giranti
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11.
I DERVIS GIRANTI
Le moschee mussulmane, chiamate mesetti (luogo di preghiera) si rassomigliano tutte, salvo nella vastità e nell'altezza dei loro minareti, di cui alcuni, come per esempio quello della moschea di Brussa che si slancia per ben duecentoventi piedi, raggiungono delle misure che devono mettere le vertigini ai muezin incaricati di chiamare i fedeli alla preghiera tre volte al giorno. Sono di forma quadrata, con dinanzi un porticato ed un cortile provvisto di quanto è necessario per le abluzioni, parte così importanti nel culto dell'Islam, e con in cima una cupola più o meno vasta, i cui pennacchi sono scompartiti mediante una combinazione di rombi che mettono in accordo la parte circolare del quadrato che serve di base.
Nell'interno non hanno che una sola sala, che è sempre preceduta da un vestibolo destinato a ricevere le scarpe dei fedeli, non potendosi entrare in un luogo santo che a piedi nudi. Le pareti non portano alcuna immagine, nemmeno quella di Maometto proscrivendo assolutamente i mussulmani la rappresentazione di oggetti animati od inanimati onde i pittori o gli scultori non corrano il pericolo, il giorno del giudizio, di dover dare un'anima alle loro figure o statue sotto pena di andarsene direttamente all'inferno anziché fra le settantadue uri di Maometto.
Non vi si vedono che arabeschi e versetti del Corano, tracciati questi a gran caratteri.
Sedie niente, altro che stuoie o tappeti stesi sul pavimento; altari nemmeno. Solamente una nicchia situata in un angolo, il Mihrab, verso cui i fedeli rivolgono la loro adorazione indicando essa la direzione della Mecca e dove un imano legge ad alta voce i versetti del Corano.
Quando il Normanno ed i suoi due compagni, dopo d'aver deposte nel vestibolo le loro scarpe, entrarono nella sala, questa era già ingombra da una folla di devoti in attesa dei dervis giranti o danzanti. Anche le gallerie superiori, circondate da grate dorate e riservate alle donne, parevano piene. Nella nicchia, un vecchio dervis dal viso incartapecorito, colle tempie rasate, la barba lunghissima e affatto bianca, con due occhietti che erano ancora vivissimi, avviluppato in un'ampia zimarra azzurra e con in capo un cappello di feltro in forma di pane di zucchero, salmodiava con voce lenta e monotona i versetti del Corano, sgranando contemporaneamente una corona. Presso di lui, appesi alla parete, si vedevano coltelli di tutte le forme e dimensioni, scimitarre, yatagan, lunghi aghi, graffi, uncini, lame contorte, un vero arsenale di tortura, mentre in un canto, su un braciere, arrossavano altre armi da taglio. Il barone aveva urtato il Normanno.
— A che cosa servono tutte quelle armi? — gli chiese sottovoce. — A tormentare dei cristiani!
— No, rassicuratevi; saranno i dervis che si martirizzeranno.
— E quel vecchio?
— È il loro capo, l'amico di chi vi ho parlato, un gran mirab.
— Quello che ci aiuterà nella nostra impresa? — chiese il barone, con stupore.
— Vi sembra un vero imano, è vero?
— Non lo si direbbe un cristiano.
— Ed è invece un maltese puro sangue, uno dei nostri. Silenzio e osservate: ecco i dervis che fanno la loro entrata.
— Non vi fate vedere dal vecchio?
— Al momento opportuno mi troverà sul suo passaggio. Basta un cenno per fargli capire che ho bisogno di lui.
Dodici uomini, per lo più attempati, con capelli e le barbe lunghe ed incolte, coperti di ampie zimarre azzurre che giungevano fino sotto il ginocchio, strette alla cintura da larghe fasce, ed i piedi nudi, erano entrati nella sala, occupando lo spazio lasciato libero dai fedeli.
Erano i dervis giranti o danzanti che dir si voglia, strani individui che si guadagnano il paradiso di Maometto a furia di danzare e di tormentarsi i corpi in mille guise, con un fanatismo ributtante e che pretendono anche di arrivare ad una specie d'estasi che li rapisce dalla terra. Comunque sia, sono uomini rispettati da tutti i mussulmani, reputati come santi dal popolo ignorante perché hanno anche la furberia di presentarsi come taumaturghi. Formano delle corporazioni religiose che sono antichissime, essendo state fondate da Dielalud-din-Mevlavna e da Ahmed Benfai nel 1270, che sono anche oggidì potenti, possedendo un numero infinito di tekè ossia di monasteri, il più importante dei quali è quello di Costantinopoli che sorge fra Pera e Calata.
I dodici dervis, che parevano già in preda ad una viva eccitazione prodotta forse da qualche forte dose di haschisch, si disposero in circolo salmodiando dei versetti del Corano e facendo alcuni passi innanzi ed indietro, cogli occhi fissi sul loro mirab che continuava a borbottare preghiere. Salmodiavano con voci strane, che non parevano nemmeno umane, variando su toni bizzarri che di momento in momento aumentavano fino a diventare dei veri clamori selvaggi. Si vedeva che quegli uomini prima di eccitarsi colla danza, volevano eccitarsi colla voce.
— Sono dei pazzi? — chiese Testa di Ferro, che non capiva nulla.
— Silenzio — mormorò il Normanno, facendogli un gesto minaccioso. — Volete perderci?
Per alcuni minuti i dervis continuarono a cantare, alzando sempre più la voce, invocando Allah e Dielalud-din, il fondatore del loro ordine, poi tutto d'un tratto rimasero immoti e silenziosi, colla bocca aperta e gli occhi dilatati, fissi verso la cima della cupola.
Alcune note leggere, timide, che parevano lanciate da un flauto, si fecero improvvisamente udire in un angolo oscuro della moschea, accompagnate poco dopo da note più poderose emesse da un trombone.
Sembrava che quella musica, che a poco a poco si accelerava, mettesse l'argento vivo nelle gambe dei dervis. Tutti, con un accordo ammirabile, si erano slanciati girando su se stessi colle braccia aperte, gli occhi stralunati, piroettando sui talloni dapprima lentamente poi sempre più rapidamente. Avevano ricominciato a cantare con furore, urlando a squarciagola allah, allah, allah!... Mah... Sembravano in preda ad una vera frenesia e aumentavano vertiginosamente le loro rotazioni che combinavano con un altro movimento circolare intorno alla sala e senza mai perdere l'equilibrio, né urtarsi vicendevolmente. Le loro voci si fondono formando un baccano assordante. Gemono, urlano, ruggiscono come belve feroci. Non si ode più che un continuo allah hou panan, affannoso, rauco, spaventoso. I loro occhi si chiudono, i loro petti diventano ansanti, i loro volti impallidiscono, il sudore scorre a rigagnoli, la loro pelle fuma, ma non cessano di roteare con una velocità fantastica che fa girare la testa anche agli spettatori i quali guardano con ammirazione quegli infaticabili ballerini.
Di quando in quando s'interrompono un istante per toccare la terra e per lanciare un grido più acuto, poi scagliano via i loro berretti conici e riprendono la danza frenetica, o meglio il giramento, mentre i loro lunghi capelli disciolti, grondanti di sudore, ondeggiano attorno ai loro visi contraffatti, sbattendo sulle gote o aggrovigliandosi alle barbe arruffate.
D'un tratto uno, preso da un folle furore, si slancia verso il mirab che eccita quei fanatici battendo le mani in cadenza, gli s'inchina dinanzi, poi afferra una lama che arrossa su un bacino di rame pieno di carbone, allunga la lingua e se la trafigge mandando un ruggito da belva!
Un altro, incoraggiato da quell'esempio, si precipita su un recipiente pieno di chiodi aguzzi, ne raccoglie una manata e se li pianta sulle gote, sul cranio, sulle braccia, sulle spalle che ha rapidamente denudate, poi al pari dell'altro riprende la danza gettando in aria, con voce rauca, il nome di Allah. Ma anche gli altri non vogliono mostrarsi da meno dei compagni e corrono ad armarsi di pugnali arroventati, di scimitarre, di graffi, di lunghi aghi. Si tagliuzzano la fronte, si forano le gote, si solcano le braccia e le gambe di bruciature... il sangue scorre, imbratta le loro barbe e le loro vesti e un nauseante odore di carne bruciata si espande per la moschea, ma quei forsennati girano, girano finché un dopo l'altro, esausti, colle labbra coperte di schiuma, in preda a violenti convulsioni cadono.
I fedeli, entusiasmati gridano da tutte le parti alzando le braccia al cielo: — Melbons! Melbons! (Miracolo! Miracolo!)
Il barone, nauseato, aveva preso il Normanno per un braccio, dicendogli:
— Andiamocene: ne ho abbastanza di questo ributtante spettacolo.
— Sì, sì, lasciamo che crepino a loro comodo — aggiunse Testa di Ferro. — Non ho alcun desiderio di assistere alla loro agonia.
— A quale agonia? — chiese il fregatario. — Domani riprenderanno le loro danze in qualche altra moschea. Hanno la pelle dura quegli uomini.
— Tutto quello che vorrete, ma andiamocene — insistette il barone. — Non sono già un mussulmano io.
— Un momento ancora, signore. Il vecchio mirab non ha ancora risposto al mio segnale. Aspettiamo che ci passi dinanzi e che mi veda.
Mentre i fedeli portavano via i dervis gridando sempre melbons, melbons, il vecchio aveva lasciata la sua nicchia, aprendosi il passo fra la folla che ingombrava la moschea.
Il Normanno si era messo in prima fila per poterlo ben vedere. Quando il mirab, che guardava a destra ed a sinistra, giunse a pochi passi dal fregatario, fisso su questi, per un momento i suoi occhietti grigi ed un rapido trasalimento contrasse il suo viso rugoso ed incartapecorito. Il Normanno, con una mossa che pareva naturalissima, si era portata una mano sulla fronte, tenendo tese tre dita e piegando le altre due. Il mirab aveva subito risposto a quel segno convenzionale accarezzandosi due volte la lunga e candida barba, poi aveva continuato ad inoltrarsi fra la folla, scomparendo per una porticina che s'apriva all'estremità della moschea. Il Normanno fece segno al barone ed al catalano di seguirlo fuori del tempio. La piazza in quel momento era quasi deserta; solamente alcuni cabili stavano seduti all'ombra dei palmizi chiacchierando sommessamente e vuotando delle tazze di moka che riscaldavano ad un piccolo fornello di terra cotta.
— È fatto — disse il fregatario, con voce giuliva. — Il mirab ha risposto al mio segno e questa sera andremo a trovarlo nella sua cuba.
— Che nessuno se ne sia accorto? — chiese il barone.
— Il vecchio è astuto e poi chi oserebbe sospettare di un così sant'uomo?
— E come quel maltese è riuscito a diventare un capo di dervis?
— Facendosi passare prima per un dervis mendicante, proveniente dalla Mecca — rispose il Normanno. — Era stato dapprima schiavo a Tripoli, dai cui bagni era fuggito dopo quattro lunghi anni di prigionia. Commosso dai tormenti inflitti ai poveri cristiani, invece di tornarsene in patria si fece condurre qui, fingendosi un marabuto, ossia una specie di santone.
«Pratico della lingua e di tutte le cerimonie religiose degli islamiti, non gli fu difficile farsi credere un fervente mussulmano.
«Diventato dervis, poi ulema, è riuscito a guadagnarsi, chissà con quanta pazienza e con quante fatiche il titolo di mirab ed oggi non vi è nessuno che non lo creda un sant'uomo.»
— E tanto sacrificio a che cosa gli ha servito?
— Vi ho detto che molte centinaia di cristiani devono a lui la loro libertà. Egli è in relazione con tutti i fregatari e li aiuta a condurre a buon fine i loro audaci disegni.
— Ecco un uomo ammirabile — disse il barone. — E nessuno ha mai sospettato del suo vero essere?
— No signore. È vero però che è di una prudenza estrema, d'una furberia inarrivabile.
— Potesse lui metterci sulla buona via.
— Egli saprà scovare quel Zuleik e anche la contessa. Le porte della Kasbah non sono chiuse per lui e può avvicinare anche il bey.
— A quale ora lo vedremo?
— A mezzanotte saremo da lui.
Stavano per voltare un angolo della piazza, quando s'imbatterono in quattro negri di statura atletica, vestiti sfarzosamente e armati di scudisci col pomo d'oro che agitavano senza posa, gridando con voce poderosa e quasi minacciosa: — Bal-ak!... (Largo!)
Dietro ne venivano altri quattro i quali portavano sulle loro robuste spalle una ricca portantina, riparata da un grande ombrello di seta azzurra. Mollemente adagiata sui cuscini di seta, in una specie d'abbandono assai grazioso, stava una donna che aveva tutte le apparenze di essere giovane, quantunque il folto velo bianco che le copriva il volto non permettesse di scorgere i suoi lineamenti.
Doveva essere una gran dama o la figlia di qualche ricco moro o di qualche alto funzionario a giudicare dalla ricchezza del suo caffettano a maniche larghe, di seta trasparente con ricami di perle ed oro, stretto alla vita da una fascia di velluto azzurro scintillante di brillantini, di smeraldi e per i grossi braccialetti d'oro tempestati di rubini che portava ai polsi e alle caviglie un po' sopra le scarpettine gialle a ricami d'argento.
I negri vedendo che il Normanno ed i suoi due compagni non erano stati lesti a tirarsi da una parte, si erano precipitati su di loro, come una muta di cani rabbiati, cogli scudisci alzati, pronti a battere.
— Badate! — aveva gridato il Normanno che non era uomo da lasciarsi imporre da chicchesia e tanto meno da lasciarsi percuotere da dei negri. — La dritta è nostra.
— Largo! — gridò lo schiavo che precedeva gli altri tre, investendolo e cercando di stringerlo violentemente contro il muro, smanioso forse di mostrarsi zelante agli occhi della dama.
Il fregatario, furioso, aveva risposto con un pugno così formidabile che il petto del negro rimbombò come un gong.
Un secondo stava per piombargli addosso, quando il barone gli sbarrò il passo. Afferrare il colosso a mezza vita e mandarlo a terra con uno sgambetto era stato l'affare d'un sol momento.
La dama, vedendo il negro a ruzzolare, sradicato così bene da quel giovane che aveva tutte le apparenze di un fanciullo, aveva mandato un allegro scoppio di risa.
Ma gli altri negri, vergognosi di vedersi tenere testa da quei tre uomini, avevano deposta rapidamente la portantina per accorrere in aiuto dei compagni. Stavano già per scagliarsi, quando la dama con un gesto imperioso li arrestò.
Lasciò cadere lentamente il velo bianco che gli copriva il viso, fissando con due occhi nerissimi, che avevano lo splendore dei carbonchi, il giovane barone il quale si preparava animosamente a sostenere l'urto a fianco del Normanno e di Testa di Ferro.
Il viso di quella dama era d'una bellezza affascinante. Occhi superbi tagliati a mandorla che spiccavano maggiormente sulla piccola riga d'antimonio così largamente usato dalle moresche e dalle orientali nella loro toletta, velati da lunghe sopracciglia, carnagione pallida, quasi trasparente, una boccuccia rotonda con bellissime labbra più rosse del corallo.
Stette alcuni istanti immobile, guardando sempre il barone, poi schiuse le labbra ad un grazioso sorriso, mostrando dei denti d'uno splendore superbo e d'una bianchezza da rivaleggiare con quelli dei negri, quindi si tirò su lentamente il velo, quasi con rincrescimento e fece cenno ai suoi uomini di rimettersi in cammino.
Passando accanto al barone, che era rimasto vivamente colpito da quegli sguardi ardenti che non si erano staccati un solo momento da lui, gli fece colla piccola mano come un gesto d'addio, poi portantina e servi scomparvero dietro l'angolo della via, in direzione della moschea.
— Signor barone — disse il Normanno, con un sorriso un po' malizioso. — State in guardia colle more. Sono pericolose, quando il loro cuore s'accende.
— Che cosa volete dire? — chiese il giovane.
— Che la vostra bellezza ha colpito quella dama. Una donna mora o araba o turca non commette mai l'imprudenza di abbassare il velo, specialmente in mezzo alla via e soprattutto dinanzi ad uno straniero.
— Chi è quella donna?
— Qualche gran dama di certo a giudicarlo dalla ricchezza delle sue vesti e dei suoi gioielli ed una dama deliziosissima. Non ho mai veduto degli occhi più belli, né un viso così perfetto. Badate perché i barberi, siano mori o arabi, cabili o Tuareg sono estremamente gelosi delle loro donne.
— Non ci mancherebbe altro che quella donna s'innamorasse del padrone — brontolò Testa di Ferro. — Ce ne sono perfino troppi dei pericoli qui perché se ne immischino anche le femmine.
— Andiamo — disse il barone. — Algeri è vasta e non ci si incontra facilmente due volte.
— Chi lo sa? — rispose il Normanno.
Ripresero la via, salendo verso la formidabile Kasbah i cui bastioni dominavano la città, minacciandola con un numero infinito di colubrine e di bombarde disposte fra le massicce merlature.
— È l'ora della colazione — disse il Normanno. — Vi è in questi pressi un alberguccio tenuto da un rinnegato spagnolo, dove potremo bere di nascosto ed in barba al Profeta del buon Alicante e anche dello Xeres e dove potremo parlare liberamente e senza timore. Quel taverniere, quantunque si mostri un fervente islamita, è rimasto più cristiano di me.
Attraversarono tre o quattro viottoli che giravano alla base della Kasbah, ombreggiati da bellissimi palmizi ed ingombri di rottami fra i quali erano spuntate delle superbe aloè che rassomigliavano a lance gigantesche confitte in mezzo a fasci di enormi daghe e, s'arrestarono dinanzi ad una vasta casa bianca, puntellata da tutte le parti, con alcune arcate moresche che pareva si reggessero ancora per un miracolo d'equilibrio.
Stavano per entrare nel porticato interno, quando il Normanno si arrestò, facendo un gesto di sorpresa che tradiva una viva inquietudine.
— Che cosa avete? — chiese il barone vedendolo corrugare la fronte.
Il Normanno, fermo sulla soglia della porta moresca, guardava fra i rottami e le piante che ingombravano il viottolo. Il suo viso mostrava una viva ansietà.
— O m'inganno o è veramente lui — disse dopo qualche istante.
— Chi lui?
— Avete notato quel beduino con cui ho scambiato delle parole sull'arcata, nel momento che passava quel disgraziato condannato a subire lo sciamgat?
— Sì — rispose il barone.
— Parlando con lui non ho potuto frenare la mia indignazione per quell'atroce supplizio e per la crudeltà dei barbareschi.
— È stata un'imprudenza.
— Lo so signor barone, tuttavia sono certo che voi al mio posto avreste fatto ben di peggio avreste probabilmente strangolato quell'insolente che sghignazzava e si compiaceva degli spaventevoli dolori che soffriva quel povero cristiano.
— Può darsi.
— Ebbene io temo che quell'uomo ci abbia seguiti per accertarsi se noi siamo veramente dei mussulmani.
— Allora ci avrà veduti a entrare nella moschea.
— Ciò non può essere stato sufficiente per averlo convinto.
— E dove l'avete veduto?
— È scomparso in mezzo ai rottami di quella vecchia casa, quella che mostra laggiù le sue pareti sfondate. Non ho potuto osservarlo bene, nondimeno mi parve lui. La medesima statura, lo stesso turbante, il mantello d'egual colore col fiocco rosso appeso al cappuccio.
— Se andassimo a cercarlo.
— Peggio che peggio; ciò lo confermerebbe nei suoi sospetti e si fa presto a tradire qui come si fa pure presto a perdere la vita.
— Che cosa fare allora?
In quell'istante, in lontananza, si udirono a echeggiare su tutti i minareti della città ed espandersi per l'aria tranquilla le grida dei muezin.
— È mezzodì — disse il Normanno. — Mostriamo a quel beduino, che deve spiarci, che noi facciamo le nostre preghiere come buoni islamiti, anche quando siamo lontani dagli sguardi degli altri. Ciò forse lo persuaderà d'aver preso un granchio. Ripetete quello che dico io.
Si gettarono a terra e come avevano fatto al mattino, sulla coperta del Solimano, lanciarono i loro Allah poderosi, col viso volto verso oriente.
— Ora possiamo andare a rifocillarci coll'animo più tranquillo — disse il Normanno, quand'ebbero finito. — Quel cane d'uno spione si sarà persuaso che noi adoriamo... colle labbra almeno, quell'imbecille di Maometto.
Ed entrarono nella stamberga del rinnegato.