Le pantere di Algeri/Capitolo 10 - Le jene di Algeri

Capitolo 10 — Le jene di Algeri

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Capitolo 10 — Le jene di Algeri
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10.

LE JENE DI ALGERI


Algeri, nel XVI secolo era la rocca più formidabile, il centro della potenza dei barbareschi e quella che inspirava maggior terrore a tutti gli abitanti degli stati cristiani del Mediterraneo.

L'Algeri moderna, diventata ormai quasi una città europea, ben poco ricorda, all'infuori delle moschee e della Kasbah, l'Algeri antica. Fortezze poderose, almeno per le artiglierie usate in quell'epoca, la difendevano, rendendone quasi impossibile l'espugnazione e flotte numerose ingombravano la sua rada, montate dai più intrepidi corsari del Mediterraneo, avidi di saccheggio e soprattutto di sangue cristiano.

Aveva ancora splendide costruzioni scomparse più tardi nei bombardamenti; palazzi grandiosi rivaleggianti con quelli famosi di Granata e di Cordova; moschee superbe che lanciavano alti i loro svelti minareti; bazar opulenti dove si riversavano tutti i prodotti dell'Europa e del Sahara, dell'Oriente e dell'India; migliaia e migliaia di case coperte di terrazze e ombreggiate da palmizi e bagni immensi destinati agli schiavi cristiani, veri luoghi di martirio dove a migliaia e migliaia i prigionieri di guerra ed i rapiti alle coste italiane, spagnole, greche e francesi, languivano per anni e anni.

Ben sei, vastissimi, capaci di contenere venticinquemila prigionieri, ne contava Algeri: quello del Pascià, che era il più spazioso; quello di Ali Mami, capitano generale delle galere; quello di Koluglis; quello di Zidi-Hassam e finalmente quello di Santa Caterina, così chiamato perché i templari mediante un grosso tributo, vi avevano eretta una cappella.

Tunisi invece ne aveva nove, più piccoli però, capaci di contenerne a malapena duemila: i due primi portavano i nomi di Fusaff bey, poi quello di Morat-bey; della Galera Maestra; di Soliman; di Sidi Mohammed, del Pascià, di Tami e di Cicala, proprietà questo del rinnegato siciliano di cui abbiamo già parlato.

Tripoli non ne aveva che uno, capace di contenere cinquecento prigionieri e Sale aveva invece i così detti matamur, ben più orribili dei bagni, perché consistevano in celle scavate a quattro o cinque metri sotto la superficie del suolo e che non ricevevano aria che da una stretta feritoia dinanzi alla quale, di giorno e di notte, vegliava una sentinella per impedire le evasioni. Algeri rimaneva però sempre l'emporio principale degli schiavi cristiani e non aveva mai meno, nei suoi bagni, di venticinquemila prigionieri e duemila donne rapite per la maggior parte sulle coste della Sardegna, della Sicilia, del Napoletano e persino della Toscana. Si può anzi dire che gli altri stati barbareschi, la Tripolitania, il Marocco e la Tunisia, dipendevano esclusivamente da Algeri e ciò era naturale perché nessuno di quegli stati, fondati sulla violenza e sul disprezzo del diritto delle genti, possedeva flotte così numerose e così potenti come quelle del bey, che poteva, se lo avesse voluto, disputare il primato perfino agli stessi sultani di Costantinopoli.

Appunto nell'epoca in cui accaddero gli avvenimenti da noi narrati, Algeri aveva raggiunto il culmine della sua potenza, facendo tremare tutti gli stati del Mediterraneo, anzi infliggendo all'Europa intera l'affronto umiliante d'arrogarsi, con insolenza, una vera supremazia marittima ed un diritto di saccheggio e di estorsione che non si poteva evitare se non pagando grossi tributi. Le sue flotte poderose, spadroneggiavano liberamente il Mediterraneo, impedendone i commerci, invadendo improvvisamente le coste mal guardate, piombando perfino sulle città per condurre in schiavitù le popolazioni, che non si rendevano senza gravosi riscatti che non tutti i prigionieri potevano pagare. I più che ne soffrivano erano i re di Sardegna e di Napoli, la Toscana, Genova, Venezia, e lo stato romano i quali non avevano trattati permanenti coi bey barbareschi. Le loro navi venivano assalite dovunque, perfino dentro l'Adriatico, con un'audacia incredibile e anche la Francia, la Spagna e gli altri stati d'Europa non ne andavano esenti, quando i loro re tardavano o si mostravano restii a versare i tributi pattuiti.

Sembra veramente incredibile che le potenze europee, non avessero mai pensato a radunare le loro forze per distruggere, con un buon colpo, quei banditi del mare o almeno a mettere il continente al riparo dalle loro scorrerie. Eppure quella vergogna non doveva cessare che dopo quasi tre secoli e per opera degli italiani. Venezia, già sul tramonto della sua gloria, che pur aveva sostenute tante lotte col turco a Candia, a Cipro, a Negroponte e che aveva un giorno conquistata perfino Costantinopoli, doveva dare il primo colpo, facendo bombardare da Angelo Emo, Tripoli.

Pochi lustri più tardi, il Piemonte dava il secondo, bombardando pure Tripoli, sbarcando nella baia e costringendo quel bey, l'ultimo delle stirpe, ad una pace duratura e alla soppressione definitiva dei corsari.

Colla conquista francese dell'Algeria, gli ultimi scorridori del Mediterraneo, dopo d'aver recati tanti danni alle potenze europee, scomparivano per sempre.

La voce del muezzin della vicina moschea echeggiava per l'aria, invitando i fedeli alla preghiera mattutina, quando il Normanno si recò nella cabina del barone, e gli disse con tono allegro:

— Signore, possiamo sbarcare con piena sicurezza. Nessuno ha fatto attenzione a noi, nemmeno i nostri vicini, i quali credono che io abbia cambiato semplicemente ancoraggio per essere più vicino al molo.

«Gettatevi indosso un mantello, cacciatevi nella cintura un paio di pistole ed un pugnale e seguitemi. Andremo a trovare un certo tale che abita in Algeri da quattro anni e che passa per un fervente mussulmano, mentre è più cattolico di voi e di me, presi insieme.

«Diamine, mi sembrate ben abbattuto, signore. Scommetterei che voi non avete chiuso gli occhi questa notte.»

— È vero — rispose il barone, quasi vergognoso di doverlo confessare.

— Vi comprendo, signore — disse il Normanno. — Ella è qui.

Il barone scosse tristamente il capo, sospirando.

— E chissà quando la troveremo — disse poi.

— Non scoraggiatevi così presto, signore. Qui, noi fregatari, abbiamo più amici di quello che voi potete supporre e taluni occupano anche delle cariche presso i pascià. Ne abbiamo perfino fra i dervisci urlanti, anzi sarà uno di questi che noi andremo a trovare prima di tutti, per evitare qualunque sospetto sulla nostra fede, poi perché quell'uomo potrà darci delle preziose informazioni. È un mirab, un pezzo molto grosso.

— E Testa di Ferro?

— Lo condurremo con noi. Non mi fido a lasciare qui il vostro servo; ama troppo a chiacchierare e una parola che gli sfuggisse potrebbe bastare per perderci. Vi aspetto in coperta.

Cinque minuti dopo il barone ed il catalano, avvolti in ampi mantelli di lana bianca con cappucci infioccati e turbanti larghissimi in testa, lo raggiungevano. L'eroico Testa di Ferro pareva che avesse perduto tutto il suo coraggio. Stralunava i suoi occhiacci, grossi come quelli d'un bue ed il suo faccione da luna piena, ordinariamente rosso, presentava una certa tinta verdognola del più strano effetto.

— Mi sembrate un po' commosso, signor Testa di Ferro — gli disse il Normanno, un po' ironicamente, offrendogli una tazza di caffè.

— È vero — confessò candidamente il catalano. — Deve essere l'aria d'Algeri che produce su di me una certa irritazione nervosa.

— Suppongo che non sarà la paura.

— Paura di chi?

— Degli algerini.

— Mi vedrete nel momento del pericolo.

— Vi raccomando però di essere prudente almeno per ora.

— Oh, non temete — disse il barone. — Testa di Ferro starà più tranquillo d'un coniglio addomesticato.

Il Normanno fece un segno al suo equipaggio. Era il momento della preghiera mattutina e sui minareti e sulle tolde di tutte le navi ancorate nel porto echeggiavano le grida dei muezin e degli equipaggi invocanti la protezione di Maometto.

Il Normanno, che si teneva a mostrarsi un credente convinto, si inginocchiò su un tappeto, imitato da tutti gli altri, tenendo fra le dita una corona i cui granelli erano formati da nocciuoli di frutta provenienti dalla Mecca. Dopo reiterati inchini, volse la fronte verso oriente ed intonò la preghiera con voce poderosa, in modo da poter essere udito non solamente dai marinai delle vicine orche, bensì anche dalle persone che già ingombravano la riva.

— Non vi ha altro Dio che Dio e Maometto è il suo Profeta. Allah!... Un solo Dio e nessun Dio fuori di Lui.

«Lode a Lui solo. Egli separa il grano dalla spica; il nocciuolo dal dattero. Fa uscir la vita dalla morte e la morte dalla vita; divide l'aurora dalle tenebre e assegna la notte al riposo. Allah!...»

Poi in un mastello si lavò le mani e le braccia fino al gomito, il volto fino agli orecchi, i piedi fino alla caviglia con una precisione che un imano non avrebbe potuto far di meglio, imitato bene o male da tutti gli altri, quindi dopo d'aver rivolto a tutti il tradizionale saluto, il solerti, s'alzò.

— Ora che abbiamo recitata la nostra preghiera e fatte le nostre abluzioni come veri mussulmani, possiamo sbarcare — disse al barone. — Nessuno metterà in dubbio la nostra fede.

Si appese il rosario alla fascia, fra le pistole e l'yatagan, si gettò sulle spalle un mantellone, fece gettare un pontile e scese sulla gettata seguito dal barone e da Testa di Ferro il quale pareva che facesse degli sforzi prodigiosi per mantenersi ritto e si serrava addosso il taub come se fosse stato colto da un freddo improvviso.

Algeri, l'opulenta regina dei barbareschi, si stendeva dinanzi a loro colle sue cupole, coi suoi numerosi minareti che si staccavano pittorescamente sull'azzurro del cielo, colle sue bianchissime case, colle sue terrazze, coi suoi palmizi ondeggianti graziosamente ai soffi della brezza mattutina. Tutte le gettate e le viuzze che salivano verso la Kasbah, la solida ed imponente fortezza, sede del bey, assisa minacciosamente sulla parte più elevata della città, erano già ingombre di gente, di asini, di cavalli, di cammelli e di dromedari che scendevano verso il porto.

Era una vera fiumana che sboccava da tutte le vie e le viuzze, fiumana allegra e chiacchierona che si dirigeva verso le gettate, dove già gli equipaggi sbarcavano montagne di merci pronte a partire per l'interno, pel deserto, per le regioni equatoriali e forse più oltre ancora, poiché Algeri era allora l'emporio principale dell'Africa settentrionale.

Tutto il mondo mussulmano vi era rappresentato. Passavano gli snelli cabili coi loro ampi mantelli di pelo di capra e le cinture riboccanti d'armi, i più fieri e bellicosi figli dell'Algeria che dovevano, duecent'anni più tardi, dare tanto filo da torcere ai francesi e acquistarsi tanta rinomanza come guerrieri indomiti; mori dall'aspetto maestoso, i nobili della Barberia, avvolti nei loro ricchi burnus bianchi e le splendide fasce di seta variegata piene d'armi di gran valore; arabi dalla lunga barba, dai lineamenti accentuati, gli occhi nerissimi e scintillanti, la pelle bruna e indossanti ampie camicie e con in capo colossali turbanti; Tuareg del Sahara, riconoscibili anche da lontano pel loro incedere cadenzato ed i loro costumi neri; fellah somiglianti a colossi di porfido, colla fronte bassa e gli occhi molto grandi e le sopracciglie folte; turchi risplendenti d'oro e d'argento, poi negri di tutte le razze dell'interno, che schiamazzavano e ridevano allegramente, facendo brillare i loro due ranghi di denti bianchi e che sgranavano i loro occhi di porcellana.

Di quando in quando quella fiumana si squarciava per far largo ad immense file di cammelli che si piegavano sotto gli enormi pesi che opprimevano le gobbe spelate, o ad interminabili file di asini non meno carichi, che venivano cacciati innanzi a furia di legnate distribuite senza misericordia da schiavi negri. Si chiudeva un istante, ma poi si riapriva nuovamente fra un grido assordante accompagnato da una salva d'imprecazioni e da urla di dolore. Erano file di schiavi cristiani, provenienti dai bagni, che venivano condotti al porto, fra un fragor di catene, un grandinare di scudisciate, un vociar minaccioso che faceva tremare l'anima al povero Testa di Ferro che si credeva piombato in qualche bolgia infernale.

Il Normanno fece attraversare ai suoi compagni, più rapidamente che potè, quella massa di gente, salendo verso i quartieri alti dove meno doveva essere il movimento.

— Non è prudenza aggirarsi fra la folla del porto — sussurrò al barone. — Si può incontrare qualche turco o qualche algerino già conosciuto in qualche paese del continente, come è toccato a quel mio povero amico di Majorca e venire denunciati. Non si sa mai quello che può succedere in questa pericolosa città.

— Dove mi conducete?

— Alla moschea, vi ho detto. Oggi è mercoledì ed i dervisci giranti eseguiscono le loro stupide danze in onore di Maometto. Il mio amico fa parte di quella confraternita, anzi passa per una specie di santone e nessuno sospetterebbe in lui un cristiano che ha già salvato parecchie centinaia di schiavi.

— Possiamo sperare molto da lui?

— È un pezzo grosso che ha accesso anche nella Kasbah e che gode molta venerazione.

— Non lesinate gli scudi.

— Con lui non ve n'è bisogno, signor barone. È un ex-templario che si sacrifica pei cristiani, senza chiedere nulla in contraccambio. A lui basta strappare ai barbareschi il maggior numero possibile di schiavi e di farli tornare in patria. Un vero eroe, signore, un uomo assolutamente ammirabile.

— E lo troveremo nella moschea?

— Ne sono certo.

— E potremo parlargli.

— Gli farò segno che ho bisogno di lui.

— E dove potremo rivederlo?

— Nel suo marabuto, questa sera.

— Sarà solo?

— Se abitasse in un tefeè1 non potrebbe ricevere troppo facilmente delle persone come noi, senza destare dei sospetti. Nel suo marabuto invece, può fare quello che meglio gli talenta, senza aver testimoni. Saliamo questa via che ci condurrà più presto alla moschea.

Anche quella viuzza, quantunque strettissima e anche luridissima, come lo erano allora quelle delle città barbaresche, era ingombra di mori, di marocchini, di tunisini e di negri che si affollavano dinanzi alle oscure botteghe, riboccanti di pelli di capra rosse e gialle, di fez, di confetture secche, di tappeti di seta di Rabat e dell'Anatolia, di scialli d'Angora, destinati a fare concorrenza ai casimiri della Persia; di stoffe meravigliosamente ricamate, di oggetti di cuoio dell'Eseman o di armi d'ogni specie provenienti da tutti i paesi dell'oriente e dell'occidente.

Il Normanno, spingendo vigorosamente e urtando poderosamente, era già pervenuto a metà della via, quando un'onda di popolo si rovesciò da una strada laterale, urlando a squarciagola.

— Dal ah!... Dal ah!... Ecco il cristiano!

— Che cosa fanno? — chiese il barone sottovoce, impressionato dal pallore che si era diffuso sul viso del fregatario.

— Non lo so, — rispose questi, tirando i compagni presso il muro d'una casa, — ma niente di buono, di certo. Pare che abbiano acciuffato qualche cristiano che forse aveva tentato di fuggire. Non vorrei trovarmi nella pelle di quel disgraziato.

Vedendo a breve distanza un arco semidiroccato, sorretto ancora da due colonne, lo raggiunse e aiutò i compagni a salire lassù, impresa un po' difficile per Testa di Ferro il quale aveva le gambe molto malferme in quel momento. La folla continuava ad ammassarsi nella viuzza, continuando a gridare:

— Largo! Largo! Ecco il cristiano.

Pareva furiosa ed esaltata. Mori, turchi, negri, cabili e marocchini ululavano come bestie feroci o sghignazzavano come jene, agitando le braccia armate per la maggior parte di scimitarre e di yatagan.

— Signore — balbettò Testa di Ferro, che era più pallido d'un cencio lavato. — L'hanno con noi questi bricconi? Perché non mi avete permesso di portare con me la mia mazza? Chi vi difenderà ora?

— Taci — gli disse il barone.

— Pare che si tratti di qualche supplizio — disse il Normanno, la cui fronte si era abbuiata. — Certo è qualche cristiano che ne fa le spese.

— Che cosa gli faranno? — chiese il barone, con voce commossa.

— Non scherzano qui con quelli che cercano di sottrarsi alla schiavitù, signor mio, ed infliggono agli sfortunati che si lasciano riprendere, dei castighi tremendi, dei quali non avete idea.

«L'anno scorso, un mio compatriota, Guglielmo de Pornie, fuggito dal matamur di Sale e ritrovato poi in campagna e che io mi ero impegnato di salvare, ne ha saputo qualche cosa della severità dei padroni verso gli schiavi fuggiaschi. Rabbrividisco ancora oggi a pensare a ciò che ha dovuto provare quel povero bretone.»

— L'hanno bastonato fino a morire od impalato?

— Il suo padrone lo ha prima fatto battere ferocemente, poi gli ha fatto tagliare le orecchie, e orribile a dirsi, lo ha costretto a mangiarsele.2

— Quali infamie!

— Più piano, signor barone, potrebbero udirvi. Ah! Per la forca di Giuda! Andiamocene, se lo possiamo. Non potreste resistere ad un così atroce spettacolo.

— Che cosa avete ora?

— Non udite queste grida? Sciamgat! Sciamgat! Come dovrà soffrire quel povero martire!

— Si tratta d'un supplizio spaventevole?

— Il più atroce di tutti, peggio ancora del tahrys, perché almeno con quello fanno presto a schiacciare il corpo del condannato.

— È impossibile lasciare questo posto — disse il barone. — Bisognerebbe saltare sulla testa della folla.

— Raccomandate al vostro servo che non si lasci sfuggire nessun grido di riprovazione. Non potremo fare nulla per quell'infelice, quindi soffocate l'orrore che vi ispirerà quell'atroce supplizio. Se non volete vedere, chiudete gli occhi.

— Hai capito, Testa di Ferro? — disse il barone. — Se mandi un grido perdi tutti.

— Sarò muto come un pesce — balbettò il catalano. — Ma se avessi qui la mia mazza, non resterei tranquillo spettatore di simili infamie.

— Lo farai un'altra volta.

La fiumana di gente si era arrestata, schiacciandosi contro i muri delle case e invadendo perfino le botteghe, non ostante le proteste dei proprietari. Alcuni giannizzeri, armati di verghe, facevano largo ad un cammello su cui si vedeva un uomo dalla pelle bianca, semiavvolto fra un denso fumo e che cacciava urla così strazianti da far gelare il sangue agli stessi barbareschi. Era il cristiano condannato a subire lo sciamgat, uno dei più tremendi supplizi inventati dalla fantasia diabolica dei giudici mussulmani e che destava il più profondo terrore fra tutte le popolazioni.

Esso consisteva in un ampio vaso d'argilla, poco profondo, che veniva collocato sul basto d'un cammello e quindi riempito di stracci imbevuti di materie infiammabili e di catrame.

Su quel vaso si faceva sedere il condannato, tenuto fermo da un grosso collare di ferro e da quattro catene fisse al basto. I carnefici dovevano prima aspergergli per bene il corpo di resina, compresa la faccia, mettendogli per soprappiù sul dinanzi un lungo bastone per tenergli le braccia tese, bastone che veniva coperto di stoppini imbevuti di petrolio.

Appena pronunciata la sentenza, si accendevano gli stracci contenuti nel vaso e gli stoppini, ed il cammello, col suo carico, veniva condotto per le vie e per le piazze fra le urla della canaglia.

Le sofferenze del condannato erano così atroci, da strappargli ululati da belva e duravano talora parecchie ore perché la morte era lenta a giungere. Questo spaventevole supplizio si applicava però di rado, nondimeno rimase in uso fino alla fine del XVII secolo e l'ultima che la subì fu una donna, certa Gindyah, che aveva commesso innumerevoli assassinii. Il cristiano, a cui i barberini aveva inflitto quel tremendo castigo, era un uomo vigoroso che si dibatteva con tale furore, da far piegare talvolta perfino il cammello. Urla acutissime gli uscivano dalle labbra ed il suo viso, spaventosamente contratto e già bruciacchiato dagli stoppini del bastone, mostrava chiaramente quanto soffrisse.

Il barone, pallidissimo, aveva chiuso gli occhi per non vedere, mentre le sue mani si raggrinzavano sui cani delle pistole. Se non vi fosse stato di mezzo il Normanno, probabilmente la sua anima generosa gli avrebbe fatto commettere qualche pazzia.

— Mostri — mormorò. — E non aver qui, sottomano, duecento dei miei maltesi per fare un massacro di questi miserabili.

Il Normanno ritto su una delle colonne, colla fronte aggrottata, le labbra contratte, stringeva le pugna sotto il mantellone e pareva che facesse degli sforzi supremi per non scagliarsi in aiuto del disgraziato le cui carni, scoppiettanti sotto il fuoco che lentamente le arrostiva, spandevano per l'aria un nauseante odore. Vedendo un beduino, che portava in testa un enorme turbante di cotone giallo, salire per cercar di veder meglio, il fregatario alzò un piede per schiacciargli la testa e vendicare almeno su di lui la morte del povero cristiano, ma la paura di destare qualche sospetto lo trattenne. Anzi si rivolse all'infedele, chiedendogli:

— Chi è quell'uomo che subisce lo sciamgat?

— Uno schiavo cristiano — rispose il beduino che era riuscito a sedersi sul capitello dell'altra colonna.

— Che cosa ha fatto per condannarlo ad un così barbaro supplizio.

— Ha ucciso il suo padrone poi è fuggito, ma è stato ripreso prima che riuscisse ad imbarcarsi. Si dice che sia un cane d'uno spagnolo.

— Chi era il suo padrone?

— Ali El-Tusy, un moro che non era troppo dolce verso i suoi schiavi, che lasciava morire volentieri di fame, pretendendo che si nutrissero esclusivamente di legnate.

— Un cane peggio del cristiano — disse il Normanno, imprudentemente.

Il beduino lo guardò, increspando le labbra.

— Quel cane era un fervente mussulmano — disse poi, con voce un po' piccata. — Forse che tu non lo sei?

— Il Profeta non ha forse un credente più fanatico di me, — disse prontamente il fregatario, che voleva riparare l'imprudenza commessa, — e tutti lo sanno, compreso Ald-el-Hagisi il marabuto e capo dei dervis danzanti. Dico solamente che anche i cristiani sono stati creati da Dio al par di noi e che si dovrebbe tormentarli un po' meno.

— Sono infedeli e come tali non meritano riguardi — rispose il beduino, alzando le spalle.

Ciò detto gli volse il dorso concentrando tutta la sua attenzione sul cammello che s'avanzava faticosamente fra la folla, mentre il povero spagnolo lanciava urla sempre più spaventevoli. Il Normanno, che era diventato un po' inquieto e che si rimproverava di non aver potuto frenare la propria indignazione, si era accorto che il beduino di quando in quando lo sbirciava colla coda dell'occhio.

Urtò il barone, dicendogli sottovoce:

— Andiamocene, signore. Ho commesso una bestialità che può aver destato qualche sospetto nell'animo di quell'uomo.

Essendosi la folla precipitata dietro al cammello per godersi l'agonia del martirizzato, il Normanno scese dall'altra parte dell'arco, aiutando soprattutto Testa di Ferro che pareva non avesse più una goccia di sangue nelle vene, tanto era diventato pallido.

Risalì più rapidamente che potè la viuzza e giunto all'estremità si volse, guardando le due colonne. Il beduino non vi era più, quantunque di lassù avesse potuto godersi meglio il supplizio del cristiano.

— Che mi abbia seguito? — si chiese con qualche ansietà e guardando attentamente fra la folla. — Bah! Vedendoci entrare in una moschea, forse si convincerà che noi siamo dei veri credenti.

Fece attraversare ai compagni parecchie altre viuzze e sboccò su una piazza in mezzo a cui sorgeva una vasta moschea sormontata da quattro svelti minareti colle cupolette dorate.

— Levatevi le scarpe ed entriamo — disse al barone ed a Testa di Ferro.


Note

  1. Convento dei dervis.
  2. Storico.