Le novelle della nonna/L'anello della bella Caterina
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- L’anello della bella Caterina
Quando la vecchia Regina, dopo una domenica d’interruzione, riprese a narrare le novelle ai nipotini, alle nuore e ai figli adunati sull’aia. Vezzosa non era più un’estranea per la famiglia Marcucci. Benché da otto giorni soli ella fosse moglie di Cecco, pure aveva già preso il suo posto in casa, e varie faccende le faceva da sé sola per alleggerire del molto lavoro le altre donne. Tutti la trattavano bene, ma le due persone che dimostravano alla sposina maggior simpatia, erano la vecchia Regina e l’Annina, la quale, per non separarsi dalla nuova zia, l’aiutava in ogni lavoro e prendeva da lei quelle manierine cortesi che erano la maggior attrattiva di Vezzosa. Se Cecco le volesse bene è inutile dirlo. Ognuno si forma un ideale di perfezione umana nella vita, secondo le persone che in gioventù hanno colpito maggiormente la propria fantasia per i loro pregi morali e per le doti fisiche. La persona che più profondamente avea colpito l’immaginazione dell’ultimo dei Marcucci, era la Regina, la sua buona, la sua cara mamma; e appena egli conobbe Vezzosa, gli parve di trovare in lei la stessa gentilezza di volto, la stessa squisitezza di sentire che tanto ammirava nella sua vecchierella. Ora che Vezzosa era in casa sua, gli pareva di non essersi punto ingannato, ed era così lieto di vederla andare e venire dalla cucina al podere, sempre allegra, sempre composta, che non desiderava più nulla sulla terra, e si giudicava fortunato come pochi nella vita. Era una festa per lui di scorgerla da lungi, con la canestra del desinare in capo, camminare snella fra i solchi del grano tenero per portar da mangiare agli uomini nel campo; e non era meno felice quando, la sera, nel tornare a casa con la vanga sulla spalla, la vedeva in mezzo ai nipotini, intenta a insegnar loro a leggere e a scrivere, poiché Vezzosa, fino dal primo giorno che era entrata in casa, aveva detto che era inutile di mandarli tanto distante, per imparare quelle cose, che ella poteva loro insegnare. E tutti quei bimbi, che prima andavano svogliati a scuola, e spesso saltavan la lezione fermandosi a metà strada a baloccarsi, ora studiavano di buona voglia con la zia, ed era una gara fra loro per imparar meglio e più presto. Cecco, dacché aveva sposato Vezzosa, non era più neppur così inquieto e agitato per la salute della sua vecchierella. È vero che, con la stagione più mite, ella stava meglio; ma quel buon figlio aveva anche trovato nell’affetto della sua compagna un conforto tale, da non temer più il distacco dalla madre come lo temeva quand’era solo. Capiva che Vezzosa aveva un’anima affezionata e buona, e che si sarebbe studiata di compensarlo di ciò che un giorno doveva inesorabilmente mancargli con la perdita della madre. Ma a questa perdita ci pensava meno che poteva, godendo della felicità presente, che veniva soprattutto dal vedere la sua giovane sposa così amata da tutti di casa. - Mamma, - disse la Vezzosa, che leggeva l’impazienza negli sguardi dei nipotini, - quando volete incominciare la novella? - Subito, - rispose la compiacente vecchia. - Ho pensato alla novella da narrare, e spero sarete contenti di me.
- C’era dunque una volta, non so precisarvi in qual tempo, una contadina per nome Caterina. Era costei invidiata da tutti, perché si diceva che le riusciva ogni cosa. Infatti, nessuna massaia portava al mercato polli e piccioni più grassi de’ suoi, nessuna portava alle fiere lino più candido e meglio filato, nessuna coltivava pesche e albicocche più belle delle sue. L’agiatezza regnava nella casa di Caterina, il marito la portava in palmo di mano, e i figliuoli di lei crescevano sani, robusti e laboriosi. Naturalmente, tutti gli uomini del vicinato, vedendo che per dato e fatto di lei la casa prosperava, la portavano sempre per esempio alle loro mogli e dicevan loro, in tono di rimprovero, allorché qualche cosa andava a rovescio: «Imparate dalla Caterina! Guardate la Caterina!». E le donne, sentendola sempre vantare, l’avevan presa in uggia come il fumo agli occhi, e chiudevano la bocca ai loro mariti, rispondendo: «La Caterina ha l’anello e noi no». Infatti la Caterina aveva un anello che era le sette bellezze, e come l’avesse avuto, merita il conto di narrarlo. Ella era ancora una ragazzina e stava in casa del padre, contadino degli Ubertini di Bibbiena, quando una sera d’estate, trovandosi a far l’erba sulla proda di un fosso, vide sbucare dal fondo di quello un vecchio magro, tutto vestito di nero. Caterina era una ragazza coraggiosa, ma nonostante dette un grido nel vedersi sorger davanti agli occhi, come se uscisse di sotto terra, quell’uomo magro e nero, e fece atto di fuggire. Lo sconosciuto l’acchiappò per la sottana, e le disse in tono supplichevole: - Caterina, io non sono il Diavolo e tu non hai da temere nulla da me. Anzi, sono molto potente, perché possiedo la saggezza. In questo momento sono perseguitato, e se tu mi levi la fame e mi cerchi un nascondiglio, io farò di te la donna più invidiata di questi luoghi. Lo sconosciuto parlò in tono imperioso, benché le sue parole contenessero una supplica, e dagli abiti stessi dimostrava di esser persona più avvezza a trattare coi grandi che coi miseri. Caterina fu colpita da quelle parole e rispose: - Signore, io vi darò da mangiare e da dormire senza alcun interesse, poiché mi sembrate bisognevole di soccorso; e quando faccio la carità non sono solita chieder compenso. - Parli saggiamente, ma io non voglio essere obbligato a te né ad altri. Conducimi al nascondiglio che mi hai assegnato, - replicò l’uomo magro, vestito di nero. Mentre Caterina parlava con lo sconosciuto, il sole era tramontato dietro alle vette boschive dei nostri monti, e una luce incerta illuminava i campi. Senza dire una parola, Caterina si avviò, non per la strada maestra, ma per una viottola che traversava i poderi, e salito per un piccolo tratto il piede del monte della Verna, condusse lo sconosciuto in una capannuccia di paglia, dove i garzoni e le garzone dei contadini passavano talvolta la notte, quando il temporale impediva loro di ricondurre i maiali al podere. V’era in quella capannuccia un mucchio di paglia, che la ragazza sprimacciò affinché lo sconosciuto potesse comodamente coricarsi. Poi andò ad attinger acqua a un rio, che scorreva a poca distanza, e invitò il viaggiatore a bere, dopo avergli dato una targa di pane e alcune frutta, che s’era messe nel grembiale prima d’uscire di casa. - Domattina, - diss’ella, - vi porterò altro cibo; per ora debbo correre al podere. Si rimise in testa il fascio dell’erba, che aveva posato in terra, e se ne andò. La capannuccia era nascosta in mezzo alle fronde delle querci e soltanto i guardiani di maiali sapevano che vi fosse. Era dunque un asilo sicurissimo; ma, nonostante questo, lo sconosciuto, prima di mettersi a giacere sul letto di paglia, chiuse la porta con una spranga di legno, e quindi si addormentò saporitamente e dormì così bene e così a lungo che Caterina, la mattina seguente, dovette bussare più volte per destarlo e farsi aprire. Ella gli recava uova, frutta e pane in quantità, credendo che volesse partire; ma lo sconosciuto espresse il desiderio di rimaner in quel nascondiglio ancora fino al calar della notte, per evitare nel viaggio ogni incontro. Le disse peraltro che non occorreva che ella ritornasse a visitarlo, ma che tuttavia sperava che avrebbe accettato da lui un ricordo. E nel dir questo le porse un anello con una pietra rossa, una verde, e una color dell’alba. - Quest’anello, - aggiunse, - non te lo caverai mai di dito. Se sarai attiva, sincera e coraggiosa, esso conserverà sempre lo splendore che ha adesso; se sarai pigra, invece, la pietra rossa si convertirà in un pezzo di sasso; se sarai finta, quella verde diventerà un vetro; se sarai paurosa, la pietra color dell’alba diventerà un calcinaccio. L’anello ha un gran valore, ma bada bene di non venderlo, perché andresti incontro a molte disgrazie. Caterina ringraziò lo sconosciuto e andò a cogliere il granturco nel campo, dove già erano gli altri di casa; ma nel tagliare gli steli delle pannocchie, non faceva altro che guardar le tre pietre per vedere se conservavano il loro splendore, e fu molto contenta nell’accorgersi che esse non cambiavano punto. Ma quella non era davvero una prova, e un momento dopo lo riconobbe anche Caterina, pensando: «Non ho forse sempre lavorato nel campo come faccio adesso?». Però, sebbene il lavoro fosse il medesimo, pure gli steli del granturco si facevano così resistenti sotto la sua mano, come rami di leccio o di rovere, e la fatica che ci voleva a tagliarli era molto superiore alle forze di Caterina, la quale, benché sudasse molto, non smetteva di lavorare. La sera essa tornò a casa stanca morta e si coricò, ma non poté neppur riposare come avrebbe voluto, perché nella notte venne destata di soprassalto dalla madre. Il capoccia era stato preso dalla febbre, una di quelle febbri che mandano al Creatore in quattro e quattr’otto. Furono destati anche i fratelli di Caterina, uno dei quali andò a chiamare il medico a Bibbiena; e intanto in casa nessuno poteva più pensare a dormire, e tutti erano dintorno al malato a curarlo. Tuttavia la mattina, Caterina dovette andare, insieme con i fratelli, nel campo a cogliere il granturco, a caricarlo, e lavorò per tre. S’era appena coricata la sera, quando fu destata di nuovo. Non era più il padre solo ammalato, ma anche il fratello maggiore era stato preso dalla febbre. A farla breve, i tre fratelli si ammalarono, uno dopo l’altro, e Caterina rimase sola a far la raccolta del granturco, a governare le bestie, a far lo spoglio delle pannocchie e a vegliare nella capanna sull’aia. Eran faccende che bisognava farle, e non poteva prender nessuno a opra, perché quattrini, in casa, ce n’eran pochi, e quei pochi se ne andavano come il vento per comprare tutto quello che occorreva ai quattro ammalati. Caterina era costretta dunque ad arrabattarsi, e intanto che sfogliava il granturco e metteva le pannocchie a seccare al sole sull’aia, vedeva l’uva maturare sui tralci di vite. Come avrebbe fatto a vendemmiare da sola? I suoi malati erano entrati in convalescenza sul finir di settembre, e se l’uva non era colta subito, poteva andar tutta in perdizione per le piogge e le nebbie autunnali. Caterina era stanca di lavorare tanto e sentiva mancarsi le forze per intraprendere un lavoro come quello della vendemmia; ma, se non lo faceva, aveva paura che la pietra rossa si convertisse in un pezzo di sasso, come le aveva detto lo sconosciuto; e senza indugiar più, attaccò i bovi al carro, empì questo di ceste, e andò nei campi. Dalla mattina alla sera coglieva i grappoli dai tralci carichi, e a notte soltanto tornava al podere e, stanca com’era, pigiava l’uva nelle bigonce e poi la versava nel tino. Così ella salvò tutta la raccolta dell’uva; e quando il padre e i fratelli furono ristabiliti, le fecero mille elogi per l’attività sua, e con poca fatica poterono ottenere una grande quantità di eccellente vino. Però non era detto che Caterina potesse godere un poco di riposo, perché i fratelli di lei, ormai assuefatti a vederla lavorare per tutti, non intendevano più di faticare come prima. Caterina tacque per un certo tempo, finché non li vide perfettamente ristabiliti; ma poi disse loro schiettamente il fatto suo e li rimproverò ben bene per la loro pigrizia. Ma essi fecero orecchi da mercante e continuarono a sbirbarsela dalla mattina alla sera. Allora Caterina, che voleva essere sincera e temeva che la bella pietra verde del suo anello si convertisse in un pezzo di vetro, fece serie lagnanze al padre e non gli nascose che i fratelli vendevano di nascosto i prodotti del podere per giocare alla bettola. Questa rivelazione fece nascere in casa il finimondo e destò nel cuore dei tre fannulloni un odio mortale per la sorella. Essi la perseguitavano continuamente, e tanta era la loro malvagità, che stabilirono di farla sparire, gettandola nell’Archiano, che scorreva a poca distanza da casa loro. Infatti aspettarono che il torrente fosse in piena, e una sera d’inverno, mentre Caterina riconduceva i maiali a casa, carica di un fastello di legna, l’assalirono, le tapparono la bocca e, dopo averle tolto il suo bell’anello, la trascinarono fin sulla riva del torrente, e giù, come se fosse stato un sacco di cenci. Caterina si raccomandò l’anima a Dio, e rivolse un pensiero allo sconosciuto viaggiatore. I tre birbanti, dopo averla buttata nell’acqua, scapparono, e così non videro che Caterina, invece di essere travolta dalla corrente, era rimasta attaccata per le sottane a un macigno e non s’era bagnata neppur la punta dei piedi. Ella stava in quel modo sospesa sopra i gorghi del furioso torrente, quando si sentì afferrare per la cintura, e prima che vedesse chi cercava di salvarla, posò i piedi sulla ripa scoscesa. Caterina alzò gli occhi e vide dinanzi a sé lo sconosciuto vestito di nero, che pochi mesi prima, mentre faceva l’erba, era sorto come per incantesimo dal fondo del fosso. - Sei stata operosa, sei stata sincera, sei stata coraggiosa, e meriti ricompensa. Eccoti un anello simile in tutto e per tutto a quello che ti fu tolto. Non te lo levare mai dal dito, e qualora tu abbia bisogno d’aiuto, rivolgi una fervente preghiera a san Romano, ed egli ti soccorrerà. All’altro anello non ci pensare; esso cagionerà la morte dei tuoi perfidi fratelli, e la pietra rossa, che è un rubino, si convertirà in un pezzo di sasso; quella verde, che è uno smeraldo, in un pezzo di vetro; e quella chiara, che è una opale, in un pezzo di calcinaccio. E il tuo anello rimarrà unico nel mondo per pregio e per valore. Caterina ringraziò caldamente il vecchio per averla salvata, ma egli sparì a un tratto, com’era comparso, senza dir altro. La ragazza, ancora commossa, andò in cerca dei maiali, riprese il fastello della legna, e corse a casa sua per preparar da cena ai genitori e ai fratelli. Ma questi, aspetta aspetta, non si presentarono, e Caterina temeva che la profezia del vecchio sconosciuto si fosse avverata; ma non diceva nulla per riguardo ai genitori; anzi, cercava di consolarli col dimostrar loro che più volte quegli scapestrati avevan passato la notte alla bettola e non erano tornati a casa altro che a giorno. Però il sole non era ancora levato, quando capitò al podere il garzone di un contadino, bianco come un panno lavato e tutto tremante dallo spavento. - Sapete... - diceva al capoccia. - Sapete, v’è successa una disgrazia. - Quale? - domandò il vecchio insospettito. - Una grande disgrazia... - Dimmi di che si tratta; parla! - Il maggiore dei vostri figliuoli è disteso in una pozza di sangue sulla via. Il vecchio barcollò; ma, fattosi animo, disse al ragazzo: - Conducimi da lui; corriamo, vediamo se vive ancora. - Aspettate, un’altra disgrazia vi ha colpito: il mezzano dei vostri figli è morto scannato in un fosso. - E l’ultimo dov’è? Dov’è? - domandò il vecchio. - L’ho visto penzolare impiccato da un ramo di quercia. Nel sentir questo, il povero padre cadde in terra come un ciocco e mandò un grido disperato. Caterina, che era su in camera a far le faccende, corse per veder quello che era accaduto, e dal ragazzo conobbe la triste verità. - Si sono uccisi l’uno con l’altro per disputarsi il possesso di un anello, e l’ultimo, vedendo morti i due maggiori, s’è impiccato per il rimorso. Ora pensiamo a soccorrere il babbo, a preparare la mamma a questo colpo, e poi daremo sepoltura ai morti, - disse la coraggiosa ragazza. Infatti, con molte cure, fece riprendere conoscenza al vecchio, disse alla mamma una parte della verità, e poi andò ella stessa di corsa dal parroco per invitarlo a rimuovere i tre cadaveri. Ma i suoi fratelli erano morti in peccato mortale e non potevano essere benedetti né seppelliti in terra santa, e correvano rischio di esser divorati dai lupi e dai corvi. Quindi ella, coraggiosamente, senza domandare aiuto ad alcuno, scavò una fossa appiè della quercia alla quale si era impiccato il fratello minore, e ve lo depose insieme con gli altri due; e dopo aver piantata una croce per indicare il luogo ov’era accaduto il misfatto, riprese la vita attiva, coraggiosa che si era imposta, conducendo avanti i lavori dei campi da sola. Le tre pietre del secondo anello acquistarono un magico splendore; l’altro che aveva trovato accanto ai fratelli morti, lo aveva sepolto insieme con loro per non vederlo più. In tutto il Casentino si parlò per un pezzo della tragica morte dei tre fratelli di Caterina, ma soprattutto si parlò di lei con ammirazione, e moltissimi furono i giovani contadini e benestanti che la chiesero in moglie. Ma ella scelse Donato, un giovinotto povero come Giobbe, ma lavoratore infaticabile. E quando si furono sposati, continuarono a stare al podere del padre di Caterina, e lo fecero prosperar tanto, coltivandolo con cura, che in breve rese più quello che una fattoria. Peraltro un anno, mentre il grano era già segato e stava ammucchiato sull’aia, pronto alla battitura, si sviluppò un incendio nei pagliai che erano eretti sul limitare dell’aia, e il fuoco si estese al grano, alla casa, e distrusse tutto. La coraggiosa Caterina, destata nel cuor della notte dalle fiamme, prese in collo i suoi bimbi e fuggì; Donato salvò i due vecchi e il bestiame, e della casa e del raccolto non rimase più nulla. Caterina era in sulle prime mezza svenuta per quella disgrazia, che distruggeva il frutto di tanti anni di fatiche e di sudori; ma appena gettò gli occhi sul ricco anello che le brillava al dito e rammentandosi della raccomandazione del vecchio sconosciuto che l’aveva salvata dalla morte, andò in un punto appartato del podere, sotto un ciuffo di pioppi, e gettatasi in ginocchio, disse col cuore: - San Romano, aiutatemi! Non aveva appena fatta questa fervida invocazione, che vide comparire dinanzi a sé il vecchio vestito di nero. - So quale motivo ti spinge a ricorrere a me, - le disse, - e il mio soccorso non ti mancherà. Gl’invidiosi hanno tentato di distruggere il frutto delle tue fatiche; ma sii perseverante, poni mano subito a ricostruire la tua casa e te ne troverai contenta. Infatti, la coraggiosa Caterina, insieme col marito, cercò di sbarazzare il terreno dalle macerie, e se durante il giorno ella lavorava per uno e per uno lavorava il marito, trovava la mattina seguente tanto lavoro fatto come se vi avesse impiegato dieci muratori. E lo stesso avvenne quando si diede a ricostruire la casa, tanto che in un mese questa era terminata, e prima dell’autunno Caterina la vide così asciutta, che vi andò ad abitare insieme con la famiglia. E quell’anno, se la raccolta del grano andò in perdizione, fu invece così abbondante quella dell’uva che al podere non sapevan più dove mettere il vino. Figuriamoci un po’ se gl’invidiosi che avevan dato fuoco alla casa di Caterina si mangiavano le mani! A sentir loro era tutta virtù dell’anello, del bell’anello che vedevano splender sempre in dito alla coraggiosa donna; e intanto che ella lavorava, essi non facevano altro che almanaccare il mezzo per distruggere ciò che ella faceva, e così trascuravano le proprie faccende, impoverivano, e quando avevano il bisogno alla gola, ricorrevano a Caterina per imprestiti, oppure al marito di lei. Poi, quando veniva il giorno di pagare, erano più imbrogliati che mai, e allora offrivano, invece di denaro, chi un maiale, chi polli, chi vino, e taluni anche un pezzo di terra. In questo modo tutti impoverivano, meno Caterina, che continuava a lavorare per dieci, nonostante tutta l’agiatezza che s’era procurata. Ma le prove non era detto che fossero finite per lei; anzi, le più dure stavano per incominciare. Come ho detto, l’invidia dei compaesani li rendeva stolti al punto da trascurare ogni loro faccenda per non occuparsi altro che di Caterina. Essi contavano le bestie che costei aveva nella stalla, i maiali che mandava a pascere, i polli che beccavano sull’aia, i rotoli di lino che metteva a imbiancare alla guazza sui prati, ed anche il vino e l’olio che rimetteva; e dopo questi calcoli, accorgendosi di tanta prosperità, si mangiavano le mani e gridavano che nel mondo non c’era giustizia. Così, a forza di ripetere questo detto, tre fra i peggiori vagabondi del paese congiurarono a danno di Caterina. Pensa e ripensa al modo di rubarle il famoso anello , che ritenevano cagione di tutta la fortuna di lei, e non rammentando più quello che era accaduto ai tre fratelli di lei, stabilirono di aspettare la massaia un giorno di mercato, quand’ella andava a Bibbiena, assalirla, legarla, e farsi dire per forza o per amore le parole che si dovevano pronunziare affinché l’anello spiegasse le sue virtù. Infatti i tre vagabondi aspettarono Caterina nascosti dietro una siepe, e quando la videro comparire col paniere dell’uova infilato nel braccio e due paia di capponi in mano, fecero un salto, la misero nel mezzo e, sollevatala di peso, la portarono nel fitto bosco. Costì la legarono al tronco di un castagno. Caterina non era impallidita, non aveva incominciato a piangere od a supplicare com’avrebbe fatto un’altra donna. Essa diceva fra sé: - San Romano, aiutatemi! - e basta. - Caterina, vogliamo l’anello, - disse il più ardito dei tre assalitori. - Me lo potevate chiedere senza portarmi qui, e io ve lo avrei dato, - rispose ella. - Così mi farete giunger tardi al mercato e non potrò più vendere questa po’ di roba. Tre mani si stendevano per afferrarlo, ed ella non sapeva a chi darlo. - Vedo che lo vorreste tutti e tre, ma io v’insegnerò il mezzo di farvi contenti. Per ora lo consegno a uno; ma appena avete agio, rompetelo e prendetene ciascuno una pietra: ogni pietra, basta dire certe parole, ha da sé sola la virtù che aveva tutto l’anello. - E queste parole quali sono? - domandarono gli uomini. - Nessuno me l’ha insegnate, le ho scoperte da me. Bisogna imprecare quanto meglio si può contro san Romano, che era un grande nemico del Diavolo. Allora Satanasso, da cui viene l’anello, gli accorda tutta la virtù. - Grazie, Caterina, - dissero i tre uomini. - E siccome ti sei mostrata compiacente, non ti faremo alcun male. Ciò detto la sciolsero e la lasciarono andare. Ella aveva fatto appena pochi passi, che udì i suoi aggressori pronunziare imprecazioni tremende contro san Romano. Si volse e vide che l’anello a un tratto si era allargato tanto da formare un cerchio sufficiente per contenere i tre uomini, i quali, lieti che l’oro fosse aumentato in modo così prodigioso, continuavano a imprecare contro il Santo. Ma quando tutti e tre furono presi dentro il cerchio, questo si ristrinse in un momento e li chiuse uno contro l’altro. E più imprecavano e più bestemmiavano, e più il cerchio si ristringeva, soffocandoli. Erano divenuti rossi in viso come tacchini e avevan la lingua penzoloni e gli occhi fuori della testa. Caterina anche in quel momento invocò san Romano, ed allora le comparve il vecchio sconosciuto, che già aveva veduto tre volte. Egli passò una corda nell’anello e strascinò i tre furfanti, più morti che vivi, fin sulla piazza grande di Bibbiena, dove in quel giorno eran tutti i contadini dei dintorni. - Vedete, - disse il vecchio vestito di nero, quando si accòrse che l’attenzione della folla era richiamata da quello strano gruppo di uomini, - questi tre manigoldi hanno assalito Caterina per toglierle il suo bell’anello, e l’anello si è allargato tanto da cingerli, ed ora li stringe fino a farli morire. Imparate da quest’esempio a non desiderare la roba d’altri ed a rispettarla. Un mormorìo di riprovazione corse fra la folla. Intanto Caterina s’era accostata al vecchio e lo supplicava di salvar la vita ai tre infelici per dar loro il tempo di confessare i proprî peccati. Il vecchio toccò l’anello, ed esso si spezzò come se fosse stato un sottile cerchio di vetro. Allora i tre liberati si gettarono in ginocchio davanti a lui e promisero di cambiar vita. L’anello, appena spezzato, riprese le proporzioni che aveva prima e il vecchio lo rese a Caterina; quindi sparì. La contadina narrò allora che il vecchio non era altri che san Romano, e disse che era sua intenzione di costruire un oratorio in onore del Santo. I tre uomini, ormai pentiti, si offrirono di aiutarla in quell’opera, e infatti sorse in breve una cappella nel bosco, là dove Caterina era stata legata all’albero, e i tre uomini, pentiti e convertiti, andarono ad abitarvi, menando vita esemplare. L’anello è rimasto sempre nella famiglia di Caterina, e i discendenti di lei hanno continuato per molti anni a prosperare, finché l’ultimo di essi, un fannullone di prima forza, lo vendé, dopo aver dato fondo a tutto. Peraltro, l’orefice d’Arezzo, che glielo aveva pagato molto salato, gli fece causa, perché le pietre preziose s’erano convertite una in un sasso, l’altra in un vetro e la terza in un pezzetto di calcinaccio, e così quel disgraziato, condannato per truffa, morì in galera.
- Dite, nonna, - domandò l’Annina accorgendosi che la novella era finita, - credete proprio che fosse la virtù dell’anello che faceva essere la Caterina così attiva, così buona e coraggiosa? - Ci avrei i miei dubbî, - rispose la vecchia. - L’anello le serviva di sprone a bene operare, ma la virtù era tutta in lei, nel suo sentimento del dovere, nella sua coscienza. - Così mi spiego io pure la novella, - disse Vezzosa, - e credo non ci sia bisogno dell’anello per far prosperare una famiglia. La nostra mamma non ha mai incontrato nessun santo; non ha mai posseduto gemme che avessero una virtù nascosta, eppure anche lei è stata l’invidia del vicinato, e i suoi filati, le frutta, i polli, che portava al mercato, sono stati sempre vantati, e la famiglia sotto di lei ha prosperato. - E se voialtri la imiterete, prospererà ancora, - disse Maso. - Ora però è tempo di andare a letto, perché chi lavora non può permettersi il lusso di vegliar fino a tardi, - soggiunse. E preso il lume, si avviò su per le scale. Vezzosa e Cecco rimasero ancora sull’aia. - Tu, tu sola sarai la Caterina della nostra casa! - disse il giovane marito alla sua sposina. Ella sorrise e replicò: - Per me l’anello prezioso con le pietre splendenti, saranno i tuoi occhi. Se essi manterranno quella espressione lieta, io capirò di aver fatto bene; se li vedrò tristi, cercherò di far meglio. - Sei una buona donnina! - esclamò Cecco lusingato da quelle parole. E, senza indugiarsi più fuori, entrò in casa, tirò tutti i chiavistelli per assicurarsi dai ladri, e quindi andò anch’egli a riposarsi per riprendere la mattina seguente il lavoro.