Le novelle della nonna/Il nascondiglio del Diavolo

Il nascondiglio del Diavolo

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Il nascondiglio del Diavolo

- Che bella Pasqua! - esclamavano i bimbi di casa Marcucci. - Non abbiamo mai avuto tante ghiottonerie, né tanta allegria. Sei tu che ce la porti, Vezzosa. Infatti, per lei avevano tirato il collo ai capponi, per lei avevano messo arrosto un capretto intiero, per lei avevano fatto schiacciate grandi e piccine, affinché durassero per tutta la settimana. E il pranzo, a cui venne invitata anche la famiglia di Vezzosa e i testimonî del matrimonio, durò dal tocco alle cinque, perché quando i Marcucci si mettevano a far qualche cosa, non si facevano certo canzonare. Il pranzo si componeva di zuppa col brodo, uova sode benedette, prosciutto del Casentino, cappone in umido con contorno di taglierini, fritto, capretto arrosto, panna montata e vin vecchio. Era stato, insomma, un pranzo solenne, uno di quelli che non si dimenticano mai più. E alle pietanze s’era aggiunta l’allegria e la cordialità. Si capiva che tutti erano contenti: i Marcucci di aver Vezzosa; questa del bene che le volevano; Momo di collocare bene la figlia, e la Maria soprattutto nel veder dissipata quella freddezza che la gente le dimostrava, accusandola di non trattar bene la figliastra. Cecco poi era al settimo cielo, dove si dice che sieno i beati, e la felicità gli si leggeva in faccia. Egli si sfogava ad abbracciare la Regina, che si figurava fosse la sua sposa, e diceva a lei tutte le dolci parole che non osava dire a Vezzosa, facendo ridere tutti. E quando, dopo pranzo, gli uomini andarono a giuocare alle bocce, lasciando alle donne la cura di sparecchiare e di ripulire la cucina, la vecchia Regina, alla quale non permettevano di far più nulla, uscì sull’aia insieme con Cecco, e, prendendolo da parte, gli fece una di quelle prediche ispirate dall’affetto, per esortarlo a preparare la felicità di Vezzosa. - Non devi esaltarla tanto davanti alle cognate, - diceva la buona vecchia. - Esse non hanno avuto mai complimenti dai loro mariti, che son più rozzi di te, e allora se ne ingelosirebbero e le farebbero scontare con tanti dispettucci le tue lodi. Tu devi in pubblico trattarla come i tuoi fratelli trattano le cognate, e serbare tutto lo sfogo della tua ammirazione per lei quando sarete soli. M’intendi, Cecco? - V’intendo, mamma mia, e questa cura che voi avete del nostro avvenire m’interessa. Sapete perché ho scelto Vezzosa fra tante ragazze che potevo sposare? Perché mi è parso che vi somigliasse di carattere, che avesse la vostra mente e il vostro buon cuore. - Credo che tu abbia scelto bene; ma appunto perché Vezzosa è superiore alle cognate, abbi riguardo di non offenderle, e cerca di non cambiare in avversione l’affetto che esse hanno per lei. La conversazione fu interrotta dai nipotini, che correvano a chiedere alla nonna la novella. - Ve la narrerò, - diss’ella, - tanto più che domenica starete senza; domenica è il gran giorno di festa. - Ma domenica balleremo! - esclamò l’Annina. E portata sull’aia una sedia per la Regina, andò a chiamare la mamma, le zie, Vezzosa e tutti gli uomini, i quali, terminato che ebbero la partita, si aggrupparono intorno alla vecchia massaia. - Stasera ho soggezione, - disse la Regina. - Finché raccontavo a quelli di casa e a qualche ragazza, ero sicura di trovare indulgenza; ma ora è un altro affare. - Ma noi sappiamo, - disse la Maria, - che avete molta abilità nel raccontare, e due persone più, due meno, non devon mettervi soggezione. Nell’inverno me ne struggevo di venire a veglia, ma non mi sono mai attentata di accompagnare Vezzosa. - Avete fatto male, - rispose la vecchia. E avrebbe voluto aggiungere che se fosse andata a veglia da loro, forse avrebbe evitato tanti attriti con la figliastra, alla quale sapeva che ella faceva rimproveri continui per quell’onesto svago domenicale; ma la Regina, che era donna prudente, tacque su quello scabroso argomento, e prese a dire:

- Diverse centinaia di anni fa, c’era a Stia, che allora si chiamava Staggia, un bellissimo castello di un ricco e ospitale signore della famiglia Guidi, il quale avea nome Romano. Questo signore, benché toccasse già la trentina, non aveva preso moglie e viveva lontano dalle guerre, dilettandosi soltanto di poesia. Per questo aveva riunito nel castello una quantità di poeti, i quali gareggiavano fra loro per dilettarlo e ottenere la sua benevolenza e i suoi favori. Ma essi eran tutti mediocri verseggiatori, e il conte Romano, che era uomo molto dotto, non si appagava di quello che essi scrivevano e si guardava bene dal dare a uno di quei tanti la preferenza. Ora avvenne che da Firenze, sua patria, fosse fuggito un nobile cittadino, per nome ser Bindo de’ Bindi, il quale era il più grande e gentile poeta di quel tempo. Appena il conte Romano seppe della fuga del poeta, e conobbe il luogo ove si era rifugiato, pensò di offrirgli ospitalità, e, senza informare nessuno dei proprî divisamenti, partì per il castello di Nipozzano sulla Sieve, ove ser Bindo si tratteneva da alcuni giorni. Soltanto lasciò l’ordine che fosse fatto sloggiare da una vasta e spaziosa camera del castello uno dei tanti verseggiatori che erano a Staggia, e che quella camera venisse arredata con ricchi tappeti e mobili di molto pregio. Il conte Romano partì dunque con numerosa scorta di valletti e di famigli, recando seco un cavallo in più e due muli onde caricare le valigie dell’ospite desiderato. Ser Bindo, vedendo giungere quel signore, lo accolse con ogni sorta di cortesie, e siccome il soggiorno di Nipozzano, per la sua troppa vicinanza con Firenze, non gli pareva molto sicuro, accettò di buon grado l’offerta e, ringraziato l’amico che l’aveva ospitato, caricò le sue robe sulle mule e partì per il castello di Staggia. Bisogna sapere che ser Bindo, prima che gli capitasse fra capo e collo tutto quel malanno che lo costringeva alla fuga, aveva incominciato un poema diviso in canti, di cui ne aveva scritti sette. Questi canti egli li aveva letti agli amici raccolti a veglia in casa sua, e la lettura di essi era bastata perché tutta Firenze sapesse che ser Bindo aveva scritto una cosa tanto pregevole da vincere tutti i poemi dell’antichità. Ora, quei sette canti erano stati riposti con molta cura in una busta di cuoio, e questa busta era rinchiusa a sua volta in una certa valigia più piccola delle altre. Ser Bindo, volendosi assicurare che quella valigia era ben legata, la tastò da tutte le parti prima di partire, e, non fidandosi di alcuno, prese da sé la mula per la briglia. La stagione era la meno favorevole dell’anno a un viaggetto attraverso l’Appennino. Nel marzo, di solito, imperversano fortissimi venti e spesso piove o nevica. Quel giorno appunto, mentre il conte Romano e il suo ospite passavano la Consuma, si scatenò una tremenda bufera. Il vento soffiava impetuoso, l’aria s’era fatta a un tratto oscura come se fosse notte, l’acqua scrosciava e i fulmini non cessavano un momento solo di squarciare le nuvole e facevano somigliare il cielo a un mare di fuoco. Il conte Romano, assuefatto alle intemperie del nostro Casentino, non se ne meravigliava, e messosi a riparo sotto una quercia, aspettava che il temporale cessasse. I valletti e i famigli avevano imitato l’esempio del loro signore, quindi non v’era che ser Bindo che si ostinasse a rimaner nel mezzo della via reggendo a stento il cavallo che montava e la mula che conduceva a mano. Un fulmine scoppiò con grandissimo fracasso a pochi passi da ser Bindo, il cavallo s’impennò, e il cavaliere, per non cader di sella, lasciò la briglia dell’altro animale, il quale, imbizzarritosi pure, si diede a correre per la scesa, e ser Bindo, per quanto lo inseguisse, non riuscì a riacchiapparlo. - I miei canti! I miei canti! - gridava il poeta tutto desolato dalla fuga della mula. Ma aveva voglia di urlare e di smaniare! I tuoni coprivano la sua voce e i compagni non potevano udirlo. Ser Bindo, spaventato nel vedersi avvolto in un turbine di neve, lasciò di inseguire la mula e si rifugiò anch’egli sotto un albero. Passò il temporale, i lampi cessarono di illuminare il cielo coperto di nuvole, e il conte Romano, avventuratosi di nuovo con i suoi sulla via, si diede a chiamare e a cercare ser Bindo. Egli lo trovò a riparo di un macigno, ritto accanto al cavallo e tutto piangente. - Quale sventura vi ha colpito? - domandò il Conte al poeta, mentre i valletti si guardavano fra di loro ammiccando ser Bindo e ridendo, poiché supponevano che piangesse dalla paura del temporale. - I miei canti! I miei canti! - ripeteva il poeta smarrito. - Tutta la mia fama, la gloria mia, se l’è portata via quella mula maledetta! Io sono rovinato. Il conte Romano ebbe pietà di tanto e sincero dolore e fece cercare la mula dai servi; ma tutto fu inutile, e, per evitare di esser di nuovo sorpresi dalla bufera, dovettero tutti proseguire il cammino, abbandonando la mula alla propria sorte. Quell’abbandono costò molto dispiacere al poeta, il quale non sapeva rinunziare ai sette canti del poema su cui aveva sudato tempo. Egli si pentiva di avere lasciato Nipozzano e soprattutto di non essersi messo addosso quel manoscritto, senza il quale non avrebbe saputo continuare l’opera intrapresa. Ser Bindo giunse, dunque, molto a malincuore a Staggia; il paesaggio invernale gli pareva triste, e il castello una vera prigione. Appena poi ne ebbe oltrepassata la pesante porta ferrata e ebbe veduto una doppia fila di gente, stranamente vestita, che il conte Romano salutò, dicendo al nuovo ospite: «Eccovi i miei poeti!» il fiorentino si sentì ribollire il sangue nelle vene. È bene dire che ser Bindo aveva una speciale avversione per la ciurmaglia di fannulloni; e, in genere, i poeti da strapazzo appartenevano a quella categoria. In antico era uso che alla stessa tavola, all’ora di pasto, sedessero tanto il signore, quanto l’ultimo famiglio. Soltanto la differenza di grado si vedeva dalla diversità del posto. In capo tavola, vicino al signore, stavano le persone di riguardo, come ser Bindo; in fondo, la gente di nessun conto, come i poetastri. Ma anche questi udivano i discorsi che il signore faceva; e infatti la ciurmaglia dei poetastri udì il racconto del temporale, dello smarrimento della mula, e udì le lamentazioni di ser Bindo sulla perdita de’ suoi canti. - Io non potrò più scrivere un verso, - diceva l’infelice, - finché quei canti non saranno di nuovo in mano mia. La loro perdita mi affligge tanto, che io non saprei più esser poeta. Avete sentito dire, signor di Staggia, che quando l’uomo perde il filo di una idea non è più capace di nulla, finché non l’ha ripreso? Ebbene, in questi sette canti sta il filo del mio grandioso poema, ed io non potrò riafferrarlo finché non li avrò sott’occhi. Tutti quei poetastri, che fino a quel giorno erano stati fra di loro come cani e gatti, udendo queste parole si scambiarono uno sguardo d’intesa, e appena tolte le mense si riunirono a combriccola in una stanza appartata del castello e stabilirono di muovere sul far del giorno alla ricerca della mula, affinché i sette canti del poema non capitassero mai più nelle mani di quel presuntuoso, che il signore trattava da pari a pari. Infatti, appena fu calato il ponte levatoio del castello di Staggia, i poetastri si misero in cammino, e giunti a un certo punto presero ognuno una direzione differente per meglio cercare la mula. Uno di essi, quello appunto che avea più livore contro ser Bindo per essere stato sloggiato per dato e fatto di lui dalla bella camera che occupava prima, esplorando il terreno a fianco della via maestra, rinvenne la mula mezza sotterrata dalla neve e morta stecchita in un fosso. Ciapo, che così era nominato il poetastro, vi scese con molta precauzione, rinvenne la valigia che ser Bindo aveva descritta, e, aprendola, trovò in essa la busta che conteneva i canti del famoso poema. In sulle prime ebbe voglia di gridare per attrarre l’attenzione dei compagni, ma subito un pensiero maligno gli traversò la mente. Perché non teneva per sé quei canti? Per ora poteva nasconderli in qualche luogo, e quando fosse passato un poco di tempo, per non destar sospetti, andarsene da Staggia alla Corte di un altro signore e gabellarli per suoi. Così avrebbe acquistata fama, onori e denari, senza torturarsi il cervello. - Così, così farò; - disse fra sé, - sarei un bello stupido se non mangiassi la pappa che trovo già scodellata. E senza impensierirsi per la cattiva azione che commetteva, ripose la busta nel farsetto, gettò manate e manate di neve sulla mula, affinché nessuno la potesse scorgere, e finse di cercare ancora, sempre avvicinandosi al luogo ov’erano gli altri compagni. - Quella mula doveva essere indemoniata, - diss’egli allorché li ebbe raggiunti. - Non si trova per quanto si cerchi, e di lei non c’è traccia. Intanto s’era fatto tardi e la comitiva, intirizzita dal freddo, fece ritorno al castello, dove disse di essere andata a caccia, invece che alla ricerca della mula. Ser Bindo e il suo ospite risentivano troppo gli strapazzi del viaggio per potersi mettere in campagna; ma il Conte aveva disposto che fosse dato un premio a quello dei suoi terrazzani che avesse riportato la mula, viva o morta, al castello; e questa notizia l’aveva fatta bandire a suon di tromba per tutta la terra di Staggia. Ciapo rideva fra sé e sé, sentendo i banditori che si sgolavano, e appena giunto nel palazzo si rinchiuse nella nuova camera che gli era stata assegnata, e togliendo con molta fatica due mattoni di sotto il letto, vi nascose la busta. Poi andò a cena, e gongolava vedendo l’abbattimento di ser Bindo e la desolazione che gli cagionava la perdita dei suoi canti. Gli altri poetastri, udendo bandire il premio per tutta la terra, avevano avuto una rabbia da non dirsi. Ormai non potevano più mettersi in campagna, poiché si sarebbero imbattuti nei terrazzani del conte Romano, i quali, più cogniti di loro del paese, avrebbero certo rinvenuta la mula. Ciapo, per non essere scoperto, diceva che avevano ragione, che quella risoluzione del Conte era una vera disdetta, che sarebbe stato tanto meglio se la mula fosse caduta in loro potere, per fare un dispetto a quell’intruso di fiorentino, tanto superbioso dell’opera sua. Quella sera i poetastri si separarono tardi, e appena Ciapo fu in camera, dette un’occhiata ai mattoni per assicurarsi che non erano stati rimossi, e poi, stanco morto, si addormentò come un ghiro. Ma il riposo fu di breve durata perché fece un sogno spaventoso e gli parve di vedere quei sette canti trasformarsi in altrettanti serpenti, avviticchiarglisi addosso e stringergli la gola in modo da soffocarlo. Gettò un grido, balzò dal letto, e al lume della luna, che penetrava in camera sua attraverso ai vetri, non vide né canti né serpenti. - È un fatto, - disse, - che quando uno è molto stanco dorme male. E col cuore che gli batteva ancora forte dallo spavento, ritornò a letto, e questa volta dormì fino alla mattina. Prima del mezzogiorno udì un gran scalpiccìo nel cortile. Si affacciò e vide là molti terrazzani che recavano la mula sopra una barella. Il Conte, avvertito, scese, e scese pure ser Bindo: il primo bramava di leggere i sette famosi canti, mentre l’autore desiderava di averli fra mano per incominciare l’ottavo e condurre a termine tutto il poema, col quale intendeva di sferzare i vizî de’ suoi ingrati concittadini. Essi si curvarono sulla mula per afferrare la valigia, ma questa non v’era più, e sulla soma del morto animale non rinvennero che roba di vestiario e altri amminnicoli. - Sono rovinato! Sono morto! - urlò ser Bindo, sgranando sui terrazzani, che avevano recato la mula, certi occhi da spiritato. Ciapo, sull’alto della scala, osservava quella scena sorridendo. - Chi di voi ha osato impadronirsi della valigia? - domandò il conte Romano. - Noi non abbiamo preso nulla, - dissero umilmente i terrazzani. - Vedremo, - replicò il Conte. E, furente d’ira, ordinò che tutti quelli che avevano riportata la mula fossero rinchiusi in una prigione buia, umidissima e sotterranea, finché non avessero confessato il misfatto. Ser Bindo avrebbe voluto intercedere per loro, ma era più morto che vivo per quella speranza delusa, e fu assalito dal freddo e dalla febbre. Intanto il corpo della mula venne gettato in uno dei fossati del castello, e i terrazzani tenuti in prigione. Quella notte il conte Romano, che per il solito dormiva come un ghiro, non poté prendere sonno. Rivolta di qua, rivolta di là, gli pareva che nel letto ci fossero le spine, e ogni tanto sentiva una voce interna che gli diceva: - Ma sei proprio sicuro, conte Romano, di non aver colpito il giusto pel peccatore? E questa voce lo tormentava. Intanto che il Conte vegliava, le mogli e le figlie dei terrazzani, imprigionati da lui, passarono la lunga notte invernale piangendo e smaniando. A giorno esse si recarono a un piccolo oratorio, dove era conservata con molta venerazione una immagine miracolosa della Madonna, e togliendosi i pendenti dagli orecchi e i vezzi dal collo, li deposero sull’altare dicendo: - Vergine santa, restituiteci i nostri mariti. Non abbiamo di prezioso che queste gemme e noi ve le offriamo. La Vergine ebbe compassione delle lacrime delle donne e fu commossa dell’offerta che esse facevano. Ma prima di rivolgersi al Conte, volle impietosire Ciapo. Egli dormiva ancora, quando la Vergine gli apparve e gli disse: - Se tu hai cara la salvezza eterna, devi restituire i setti canti del poema di ser Bindo, affinché quell’infelice poeta, quel disgraziato esule, compia l’opera incominciata e tanti poveri innocenti rivedano la luce del sole. La visione era bellissima, poiché la Madonna, che un insigne artista aveva dipinta sul muro dell’oratorio, si presentava a Ciapo non irata in volto, ma con espressione benigna di supplica, e sulla testa le riluceva una corona d’oro, e dal collo le pendevano vezzi di perle e di ambra trasparente. Ciapo si destò, ma non aprì gli occhi, temendo che la bella visione sparisse come un sogno, e sentendo la dolce voce della Madre di Dio che gli parlava con tanta gentilezza, disse: - Madonna, io farò quanto tu mi comandi per compiacerti, e i sette canti del poema ritorneranno dentro oggi a chi li compose e li vergò. Sparì la Vergine dopo aver udita questa solenne promessa di Ciapo; ma questi, aprendo gli occhi alla luce, rise della promessa e del sogno, e invece di restituire ciò che aveva involato, passò la giornata a comporre un’ode in ottava rima, nella quale magnificava la generosità del conte Romano a fine di cattivarsi l’animo del Conte stesso. Quel giorno ser Bindo non comparve a pranzo. Egli era così debole da non reggersi ritto e aveva invano cercato di alzarsi dal letto per assidersi alla mensa del suo ospite. Questi si mostrava accigliato, e allorché Ciapo, tolte le mense, volle recitargli l’ode composta in suo onore, il Conte glielo impedì con mal modo, dicendogli: - Cessa, poetastro, dal gracidare. I tuoi versi mi annoiano. Va’ a dirli a chi ti pare, ma non tediarmi più con la tua noiosa presenza. Era lo stesso che se gli avesse detto, chiaro e tondo, di far presto le sue valigie e di sloggiare dal castello. Ciapo capì benissimo, e stabilì di non restare un giorno di più là dov’era. In breve egli riunì le sue robe, tolse di sotto i mattoni la busta e, chiesto un cavallo al signore, gli fece i suoi saluti e se ne andò. Egli aveva appena discesa l’erta del castello, che vide attraverso la via un bove furibondo, il quale gli andò addosso a testa bassa, quasi volesse sollevarlo sulle corna. Smarrito dal terrore, Ciapo spinse il cavallo sulla proda di un fosso, ma il bove lo incalzava sempre più furibondo, e pareva che mirasse con le corna al farsetto, nel quale il poetastro teneva riposti i canti di ser Bindo. - Cavallo mio, salvami! - esclamò Ciapo. - Se riuscissi a portare in salvo questo tesoro e ad assicurarmi la fortuna e la gloria, darei anche l’anima al Diavolo! Non aveva finito di pronunziare queste parole, che il cavallo fece un lancio, varcò il fosso e si diede a corsa sfrenata. Il bove, per seguirlo, fece un lancio, ma invece di toccar la sponda opposta, precipitò nel fosso e vi rimase. Corri corri, Ciapo giunse verso sera al castello di Poppi, e chiese l’ospitalità. Il Conte, che era persona molto generosa, gliela concesse, e s’intrattenne dopo cena a parlare col nuovo venuto, cui dette una camera per riposare fino alla mattina, sentendo che voleva riprendere il viaggio per recarsi a Spoleto. In quella notte Ciapo fu assalito da un timore che non sapeva spiegarsi. Gli pareva che cento braccia lo afferrassero, che cento bocche gli gridassero: - Restituisci i manoscritti all’esule poeta, e non far morire tanti innocenti! Eppure nella camera non c’era nessuno, e se anche prestava l’orecchio, non udiva nessuna voce. Gli è che le braccia che lo afferravano erano invisibili, e le voci gli parlavano al cuore e non all’orecchio. Ciapo, che non aveva spento la lucerna e si era coricato col farsetto per meglio custodire la busta, guardò da tutti i lati per vedere se scopriva un nascondiglio nella parete, e non vide nulla. Intanto le braccia lo stringevano sempre più, e cento voci minacciose gli ripetevano: - Restituisci i manoscritti all’esule poeta, e non far morire tanti innocenti! - Mai! - esclamò Ciapo. - Satana, aiutami tu! A un tratto si videro molte fiamme invadere la camera e circondare il poetastro. Le braccia cessarono di stringerlo, le voci di parlargli al cuore, e nella parete a fianco del letto si aprì una specie d’imposta che lasciò vedere una cassa di ferro. Ciapo ripose dentro a quella la busta che conteneva i canti, e la cassa si richiuse con fracasso, l’imposta sbatacchiò, e nessun occhio umano avrebbe potuto trovarne traccia. Intanto ser Bindo, desolato per la perdita fatta, si struggeva come una candela, e i poveri terrazzani rinchiusi nelle prigioni del castello di Staggia vedevano sospesa di continuo sulla loro testa la tremenda pena di cui li aveva minacciati il conte Romano. Questi non osava ordinare che i terrazzani fossero messi a morte, e una notte che era seduto accanto al letto del poeta agonizzante, vide la immagine miracolosa della Vergine apparirgli e guardarlo con occhi supplichevoli, stendendo verso di lui le mani in atto di preghiera. Quella visione lo colpì, e nel momento istesso ser Bindo, con voce fievolissima, gli disse: - Messere il Conte, io mi accorgo che la mia fine è prossima. Ormai la gloria non mi alletta più e sento di essere staccato completamente dai beni terreni. Restituite la libertà ai terrazzani che tenete prigionieri; essi sono innocenti, poiché non avevano alcun interesse di defraudarmi de’ miei canti. Io sono certo che il colpevole è già lungi, ma anche a lui, in questo estremo momento, io perdono. - Il colpevole è Ciapo! - disse il Conte, che ebbe in quell’istante come una rivelazione. E senza indugiare, ordinò ad alcuni uomini di salir subito a cavallo e ricondurglielo vivo o morto, volendo sollevare, con la vista dei canti, i momenti estremi del morente. E appena il sole indorò le vette dei monti, ordinò che la prigione fosse aperta ai suoi terrazzani e che essi venissero rimessi in libertà. Intanto Ciapo ingrassava per il dispetto fatto a ser Bindo, e, strada facendo per recarsi a Spoleto, ripeteva: - Que’ canti non li avrò io, ma neppur lui, poiché li custodisce il Diavolo. Ora, mentre ser Bindo languiva nel castello di Staggia, capitò colà un vecchio e santo frate francescano, il quale, udita la ragione del malore dell’esule, disse che avrebbe ricorso all’aiuto del santo di Assisi per consolarlo. E per ottenere quell’aiuto, digiunò e pregò con fervore. Il frate, dopo questo, proseguì la via per recarsi alla Verna e chiese l’ospitalità al signore di Poppi. Questi, naturalmente, gliela diede e gli assegnò la camera abitata pochi giorni prima da Ciapo. Era costume del francescano di farsi dare l’aspersorio e di benedire ogni stanza che doveva abitare anche per una notte sola. Egli benedì pure la camera di Poppi, e quando la parete che conteneva il nascondiglio del Diavolo fu spruzzata dell’acqua santa, avvenne un fatto strano. L’imposta del muro si spalancò con fracasso, la cassa di ferro s’aprì, la busta cadde per terra e da quella incominciarono ad uscire tanti fogli. Naturalmente il frate raccolse busta e carte, e, appena vi ebbe gettato gli occhi, si accòrse che su quelle carte erano scritti i sette canti rimati da ser Bindo. La notte parve lunghissima al frate, perché non vedeva l’ora e il momento di portare una consolazione all’esule infelice, e appena giorno si rimise in cammino, e un passo dopo l’altro giunse a Staggia. Era sera quando fu ammesso nella camera del morente, il quale, vedendo la busta in mano al frate, non ebbe la forza di parlare né di stendere le mani per riceverla. Pianse, invece, lungamente, amaramente, l’infelice, e quelle lacrime lo sollevarono molto. Il giorno dopo stava assai meglio; la settimana seguente poté alzarsi, e un mese dopo che ser Bindo era di nuovo in possesso dei sette canti del poema, già dava mano all’ottavo, e senza interruzione portava a termine l’opera grandiosa. E ser Ciapo? Si dice che la sua anima irrequieta abbia abitato per anni e anni il nascondiglio del Diavolo nella camera del castello di Poppi. Infatti, in quella camera nessuno ci voleva dormire, perché dicevano che si sentiva una voce lamentevole talvolta, e talvolta stizzosa, che diceva per ore e ore: «Che cosa ho fatto mai! Che cosa ho fatto mai!» Ora quella stanza è murata da più di cent’anni, e qui la novella è finita.

- Nonna, noi vogliamo una promessa, - disse l’Annina accostandosi alla vecchia e guardando dietro di sé per vedere se i fratelli e i cugini la seguivano per mostrare che ella aveva il diritto di parlare a nome di tutti. - Sentiamola; che cosa chiedi? - disse la Regina. - Vedete, questi piccinucci, benché si divertano tanto a sentirvi raccontare, pure fanno fatica a star desti fino a quest’ora. Da qui avanti non ci potreste dire la novella di giorno, sull’aia, prima che suoni l’avemmaria? Ora le giornate sono lunghe, ed essi si levan coi polli e coi polli vorrebbero andare a letto. - La tua domanda sarà esaudita, - rispose la nonna. - Ma staranno buoni, di giorno, quei monellucci, o non si alzeranno venti volte per correre dietro anche a una mosca che voli? - Non per nulla sono la maggiore di tutti. Io saprò tenerli fermi, e vi prometto che nessuno vi disturberà, rispose l’Annina con molto sussiego. Dopo questo breve colloquio, la matrigna di Vezzosa si alzò, ringraziò la Regina e le fece mille complimenti per la novella; quindi cominciarono gli addii alla sposina. Tutte le donne di casa Marcucci la vollero baciare, tutti gli uomini vollero dirle una buona e affettuosa parola, ed ella, commossa da tante dimostrazioni di simpatia, piangeva e rideva nel tempo stesso. - Via, è ora di andare a letto! - disse Momo per tagliar corto a quell’intenerimento che vinceva anche lui. I bambini accompagnarono Vezzosa per un pezzetto di strada, dicendole: - Domenica non te ne andrai! Anche Gigino le zampettava accanto, reggendola per la sottana e ripetendo ciò che sentiva dire agli altri. In mezzo a tutta quella gente che manifestava liberamente la gioia che sentiva, Cecco solo stava zitto e seguiva Vezzosa a testa bassa. - Sei forse pentito? - gli domandò la ragazza, quando i bimbi l’ebbero lasciata. - Pentito! - esclamò egli. - Sono così felice, che non posso parlare. Non sai che mancano otto giorni soli a domenica? - Sette, non otto, - disse Vezzosa guardandolo affettuosamente, - e fra sette giorni porteremo lo stesso nome e saremo uniti nella gioia e nel dolore. - Nella vita e nella morte, - rispose Cecco in tono solenne, stringendole la mano.