Le novelle della nonna/Il barbagianni del Diavolo
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- Il barbagianni del Diavolo
Gli otto giorni dopo l’ultima domenica erano parsi eterni alla Regina e a Vezzosa. Cecco non aveva parlato quasi mai, e, ora con un pretesto, ora con un altro, si era allontanato da casa. La moglie non osava interrogarlo, ma la madre dolcemente lo attirava a sé, e cercava di rimaner sola con lui per domandargli: - Ma che cos’hai, Cecco mio? Che cosa ti turba? - Nulla, - rispondeva egli. - Vi siete messe in testa che io abbia qualche afflizione, e ora, per contentarvi, dovrei ridere tutto il giorno. - Ma non pensi a Vezzosa? Lei, poverina, ti vuol tanto bene e si strugge nel vederti così. Cecco si stringeva nelle spalle come per dire che non ci aveva colpa lui se Vezzosa s’era messa dell’idee sciocche per la testa; ma Regina di queste risposte non era contenta, e una volta, il giovine, posto alle strette dalle insistenti domande della buona vecchia, rispose: - Sapete un po’ perché son così uggito? Perché m’è venuto a noia di fare il pupillo, di non esser padrone di nulla, di dover chiedere tutto a Maso. Finché avevo quei pochi portati dal reggimento, le cose andavano bene; ma ora, se voglio pagare un sigaro a un amico, devo inchinarmi al capoccia. Io mi cerco un podere per andar a star da me, e voi non mi lascerete. - Nessuno lo ha mai fatto di andarsene di casa, - osservò la vecchia. - Tanto meglio! sarò il primo io. - Cecco, tu che mi volevi tanto bene, puoi cambiare in così pochi giorni! Tu che devi riconoscenza alla famiglia per l’accoglienza fatta alla sposa di tua scelta, vuoi dare quest’esempio di dissoluzione! - Ma che dissoluzione! qui siamo troppi! - Anche se ti cerchi un podere, non lo potrai avere altro che per San Martino; e vuoi che tutti questi mesi si viva a questo modo! Signore, - esclamò la vecchia, - fin qui vi avevo pregato per farmi vivere per vedere i figli di Cecco, ora vi prego di farmi morire per non assistere allo sfacelo della famiglia! C’era tanto dolore in quella esclamazione che Cecco ne fu commosso, e, come nei bei giorni di pace, gettò le braccia al collo a sua madre e le confessò la ragione vera della sua angustia. La prima domenica che gli amici erano andati a prenderlo, aveva giocato, contro il suo solito, e aveva perduto; la domenica successiva s’era lasciato trascinare con la speranza di vincere, e aveva perduto dell’altro; e ora si trovava con un debito che non poteva pagare, e per questo si sentiva struggere dalla pena. - Perché, perché non confidarmelo subito? - disse la buona madre. - Ho del bel filato e domani lo porterò alla fattoressa del marchese Corsi, che me lo compra sempre; così tu pagherai il tuo debito; ma promettimi, Cecco, di non farti più trascinare dai cattivi compagni. Quel Bista, sai, caccia sempre di contrabbando, ha subìto diverse condanne e i carabinieri non lo perdono d’occhio. Se tu divenissi come lui, io piangerei l’ora e il momento che t’ho dato la vita! L’agitazione di Cecco sparì come per incanto. La buona madre gli risparmiò la vergogna di confessare il suo fallo alla moglie, e la domenica, quando la solita comitiva, guidata da Bista, comparve a Farneta, la Regina stessa la sbrigò dicendo che Cecco non c’era, perché aveva accompagnato col trapelo certi forestieri a Camaldoli. E quando, seduta sull’aia, si mise a raccontar la novella, la sua voce non tremava più per l’ansietà, e il suo occhio inquieto non era più fisso di continuo su Vezzosa. Quella domenica ella prese a dire:
- C’era una volta uno spaccalegna, che stava sotto la Falterona, in una casuccia fatta di sassi e coperta di paglia, e dalla mattina alla sera egli non faceva altro che lavorare nei boschi. Questo uomo, che si diceva avesse non pochi peccati sulla coscienza, non parlava mai con nessuno, ed era inselvatichito stando sempre solo. La poca gente del vicinato lo sfuggiva e gli aveva applicato il soprannome di Rospo. Rospo, tanto d’estate, che d’inverno, andava vestito di rozza lana, e aveva i capelli così ispidi, da farlo somigliare più a una bestia che ad un cristiano. Chi diceva che fosse fiorentino, chi aretino, ma nessuno sapeva di certo da che luogo fosse venuto, perché un bel giorno lo avevan veduto capitare lassù e offrirsi per tagliar legna, senz’altro bagaglio che un barbagianni grosso, ma aiutatemi a dir grosso, con due occhiacci che mettevano paura a guardarli. Si diceva che il barbagianni, di notte, stesse sempre appollaiato sul tetto della casupola, e che gli occhi dell’uccello splendessero nel buio come due tizzi accesi. I carbonai e i boscaiuoli, che non hanno troppa simpatia per quegli animali, evitavano di passar vicino all’abitazione di Rospo, e anche se la scorgevano da lontano, si facevano il segno della croce. Per questo timore che ispirava a tutti il barbagianni, la gente del contado non s’era accorta che ogni notte, dalla casuccia di Rospo, usciva una capra, la quale, di corsa, andava su quel versante della Falterona che guarda il Mugello e in quella parte che sovrasta il villaggio di Castagno, e costì si dava, con forza superiore alle sue zampe, a smuover macigni, a sbarbicar alberi e a rovinare quanto poteva il terreno. Poi, quando l’alba incominciava a imbiancare i monti, la capra, con pochi lanci, tornava alla casupola, spingeva l’uscio, e di lì a poco Rospo usciva per andarsene al lavoro, con l’accétta sulla spalla e il roncolo alla cintola. Questo avveniva nell’inverno dell’anno 1335, quando, la notte del 15 maggio rovinò una falda della montagna della Falterona e scoscese più di quattro miglia fino a Castagno, travolgendo case, alberi, bestiame e persone. Insomma, successe un vero finimondo, e la gente del contado fu presa da tale paura, vedendo quella rovina, che non osava più stare nelle case e passava la notte a ciel sereno, pregando sempre. Ma la paura si convertì in terrore, quando si vide che sul terreno scosceso correva acqua scura come cenere, dalla quale guizzavan fuori i serpenti a centinaia, che si gettavano nei boschi. E il terrore si estese a tutti i luoghi percorsi dal torrente Dicomano, dove si erano scaricate quelle acque torbide: a Pontassieve, poiché il Dicomano mette nella Sieve, e a Firenze, poiché la Sieve mette nell’Arno, e giù giù fino a Pisa. E non dovete credere che questo intorbidamento delle acque durasse poco. I lanaiuoli fiorentini per lungo tempo non poterono lavare né purgare i loro panni nell’Arno, e, vedendosi rovinati, mandarono uomini pratici su a Castagno per vedere se le acque si rischiaravano; ma le acque eran sempre nere come piombo. Né i danni si limitavano alla sola città di Firenze. In Mugello, a Falterona, i serpenti molestavano tutti, e nessuno osava più avventurarsi nei boschi. Le carbonaie erano spente, i taglialegna non lavoravano e le famiglie morivano di fame. Era un vero flagello, e mentre in montagna la gente andava scalza a Camaldoli per impetrare che quel flagello cessasse, a Firenze scoprivano le immagini dei Santi, le portavano in processione e non si stancavano di pregare; ma nulla valeva. Allora uno dei caporioni dell’arte della lana, che era rovinato più degli altri, propose ai compagni di consultare suor Maria Visdomini, monaca del convento d’Arcetri, che si diceva avesse delle visioni. La proposta parve buona ai lanaiuoli, ed essi andarono in corpore al convento, portando cera per l’altare della Madonna e un voto d’argento con l’agnello e la banderuola, che era la loro insegna. Suor Maria li accolse umilmente, come faceva sempre quando qualcuno ricorreva a lei, e disse che avrebbe pregato, e che se il Signore le avesse inviato una visione lo avrebbe fatto loro sapere. I mercanti se ne andarono mogi mogi per quella risposta; ma dopo tre giorni della loro visita ebbero una chiamata da suor Maria, la quale, attraverso la grata, narrò ai lanaiuoli che la notte, essendosi addormentata mentre pregava, le era apparso un luogo alpestre e scosceso, popolato di terribili serpenti, i quali correvano come lepri pei boschi. In mezzo ad essi gracidava tranquillamente un rospo sulle acque torbide che scendevano al piano, e un barbagianni, appollaiato sul tetto di una casupola, empiva l’aria del suo sinistro grido. Ad un tratto s’accendeva un rogo, e su quello erano messi a ardere il rospo e il barbagianni. Appena le fiamme incenerivano i due animali, i serpenti cadevano morti, e le acque ritornavano limpide e cristalline. Dopo questa risposta i mercanti si guardarono in viso sbalorditi. - È un indovinello, - disse il caporione, che aveva nome Bencio, - nonostante, vo’ andare io stesso lassù alla Falterona per vedere se lo spiego. E infatti venne in Casentino e andò sul posto della frana dalla quale scendeva a Firenze quella melma, che era la sua rovina. A suon di domande, egli riuscì a sapere che da pochi mesi s’era andato a stabilire lassù un uomo per nome Rospo, che aveva seco un barbagianni. - Ora la visione di suor Maria Visdomini è chiara; Rospo e il suo barbagianni debbono morir sul rogo. Ma dal dire al fare c’è di mezzo il mare, ed egli non sapeva davvero come riuscire a far arrestare quell’uomo. Sparse bensì fra la gente la voce che il flagello veniva da quel taglialegna e dal suo uccellaccio del malaugurio; ma non trovò nessuno che si volesse accostare alla capanna per legarli tutti e due. Bencio, disperato di non poterli subito veder morti arrostiti, pensò meglio di tornare a Firenze e chieder l’aiuto del Bargello. In sulle prime i signori di Badia si rifiutarono di firmar la condanna di un uomo che non aveva commesso nessun delitto ed era soltanto accusato da una monaca; ma poi, noiati dai lanaioli, che erano molto potenti, sottoscrissero l’ordine di cattura e di morte, e Bencio, con quel foglio, se n’andò a San Godenzo, dove i fiorentini tenevano guarnigione, e chiese manforte. Naturalmente l’ottenne; ma quando giunse alla capanna per impossessarsi di Rospo, questi non c’era più, e il barbagianni, appollaiato sulla gronda del tetto, mandò un grido acuto, che a Bencio parve un grido di scherno. - La pagherai tu, anche per quel manigoldo del tuo padrone! - esclamò il lanaiolo imbestialito. E fatto un mucchio di rami secchi di faggio, sciolse il barbagianni, che era legato per una zampa, e lo mise sulle legna alle quali dette fuoco. Naturalmente, prima di metterlo ad arrostire con le penne e tutto, aveva avuto l’accortezza di legarlo per i piedi con una catena, fermandone l’estremità in terra con due pietroni di modo che l’uccello non potesse muoversi. Le fiamme si alzarono, avvolsero il barbagianni, ma non gli fecero nulla, neppure gli strinarono le penne, e più il fuoco s’ingagliardiva, più il sinistro uccello cantava. A un tratto uno dei servi della giustizia del Comune fiorentino, esclamò: - Questo è il barbagianni del Diavolo! Non l’avesse mai detto! gli altri, impauriti, scapparono come un branco di passerotti sorpresi a beccare il grano in un campo, e Bencio rimase solo dinanzi a quell’animale, che si divertiva a fargli gli occhiacci. Il lanaiolo metteva sempre nuove frasche intorno al rogo, e quel fuoco sarebbe bastato ad arrostire un vitello; invece, il barbagianni era più arzillo e canterino di prima. Ma benché egli non arrostisse, e il perché lo saprete in seguito, il piombo della saldatura della catena, si liquefaceva, e quando fu tutto strutto, l’uccello di malaugurio fece tre inchini con la testa a Bencio, e poi se ne fuggì via. - Qui sotto c’è una stregoneria! - esclamò il povero mercante. E se ne tornò a Firenze mezzo balordo. Ivi giunto, corse ad Arcetri a narrar le sue pene a suor Maria Visdomini. - Suora benedetta, Rospo e barbagianni sono fuggiti, e nell’Arno corre sempre acqua nera come fuliggine, - le disse. - Fratello, - rispose la monaca, - io pregherò il Signore, e se mi manda una visione, ve ne avvertirò. Ma intanto andate a casa e pensate che se un’altra volta Rospo e il barbagianni, o tutti e due, vi capitano fra le mani, dovete aspergerli di acqua benedetta, prima di metterli sul rogo. Ora andate in pace e che il Signore vi conceda di trovare chi cercate! Bencio non fu molto pago di quella risposta e passò il tempo a contar le ore e i minuti in attesa della nuova chiamata di suor Maria Visdomini. Dopo cinque giorni, mentre era nella sua bottega dietro Or San Michele, eccoti la servigiala a dirgli che andasse subito al convento d’Arcetri. Il lanaiolo non se lo fece dir due volte, e, passato il ponte Rubaconte, ora Ponte Vecchio, prese per la costa San Giorgio, e in poco tempo giunse, sudato e trafelato, nel parlatorio del monastero. Suor Maria Visdomini comparì subito dietro la grata, e gli disse: - Fratello, ho pregato, ho digiunato, e il Signore mi ha mandato un’altra visione. - Comunicatela subito, suor Maria, e se mi salvate dalla rovina, alla mia morte farò un ricco lascito al convento, - disse l’artiere. - Ebbene, ascoltatemi. Mi pareva di essere vicina a un torrente, che scorreva limpido fra due ripe erbose, ombreggiate da faggi. Fra questi faggi v’era un gruppo formato da tre abeti scuri. Sopra a quello di mezzo stava appollaiato un barbagianni, e sotto dormiva un rospo. Il torrente era l’Arno; l’ora era quella del tramonto. Bencio ringraziò la monaca, ma le indicazioni gli parevano così poco chiare che volle consultare i compagni prima di mettersi in viaggio. I lanaioli, che si vedevano ogni giorno più rovinati da quella persistente torbidezza delle acque dell’Arno, si appigliarono a quella speranza, e due di essi vollero partire, con Bencio, immediatamente per il monte. Giunti a San Godenzo, si fecero accompagnare dai servi di Giustizia della Repubblica fiorentina fino alla Falterona; quindi attesero l’ora indicata da suor Maria Visdomini e, passo passo, lungo il bel
... fiumicel, che nasce in Falterona,
E cento miglia di corso non sazia.
scese la comitiva guidata da Bencio e giunse a un punto detto Termine di Montelleri. Qui tutti si fermarono di botto perché fra i faggi videro spiccare tre abeti scurissimi. Bencio non fiatava e i suoi compagni neppure; camminavano in punta di piedi fra le ginestre fiorite, per non far rumore. Era appunto l’ora del tramonto, e già una nebbia leggiera saliva dal torrente e avvolgeva la campagna silenziosa. In mezzo a quella quiete vespertina a un tratto echeggiò un grido sinistro di barbagianni, e un uccello volò via con rumore. A quel grido, di sotto ai rami bassi degli abeti, si alzò un uomo, che pareva un selvaggio, con i capelli lunghi e la barba ispida, e, veduta tutta quella gente che stava per saltargli addosso, disse tre parole, che nessuno capì, e si trasformò in un attimo in una capra selvatica, che si mise a correre svelta su pei greppi della montagna. I soldati, inseguendola, le scoccavan quadrella; Bencio e gli altri lanaioli le tiravan sassi, ma la capra correva sempre guadagnando terreno, finché non sparì del tutto agli occhi dei suoi inseguitori. - Siam fritti! - disse Bencio. - E come faremo ora ad acchiapparla quella capra maledetta e quel barbagianni indiavolato? A quella domanda rispose uno dei servi di giustizia: - Messere, io conosco una vecchia di San Godenzo, che, senza andare mai fuori di casa, fa venire a sé tutte le bestie che chiama. - Me lo potevi dir prima; - osservò Bencio, - ci saremmo risparmiata questa gita, tutt’altra che comoda, su per queste montagne. - Gli è, - disse il servo, - che la vecchia non sempre si mostra compiacente con chi le chiede aiuto. - In ogni modo andiamo da lei, - ordinò il lanaiolo. E tutta la comitiva si rimise in cammino durante la notte, attraverso balze scoscese, accompagnata sempre dal grido sinistro del barbagianni, che pareva la canzonasse. - Se ti potessi arrostire, uccello del Diavolo! - borbottava fra i denti il lanaiolo, stanco morto dal lungo camminare. Come Dio volle tutta la brigata giunse nel cuor della notte al paese e andò a coricarsi. La mattina dopo, Bencio, guidato dal servo di giustizia, andò alla casa della vecchia, che era la donna più brutta, più sudicia ma anche più ricca del paese. Strada facendo il servo lo avvertì di trattarla con ogni sorta di riguardi se voleva ottenere qualche cosa da lei, e di mostrare che era sbalordito dalla sua bellezza. La vecchia abitava sola un gran fabbricato sulla via mulattiera di Romagna, e quella casa era così nera, che pareva un magazzino di carbone. - Fa forse la carbonaia, la tua vecchia? - domandò Bencio. - Messer no, ma del carbone ne ripone quanto vuole. - E come mai? - Ve lo dirò io. Ella pronunzia certe parole che nessuno capisce, e ogni sera mette fuori dalla finestra del pianterreno uno o più fascetti di fieno. Nella notte, i muli, che son partiti in lunghe file per Dicomano, voltano addietro e vengono a mangiare il fieno della vecchia, la quale non va a letto, e, sentendoli giungere, apre e prende una manciata di carbone per sacco; poi li rimanda via. Così ha fatto un deposito di carbone tanto grande da riempire tutte le cantine della casa. E lo stesso fa con le vacche e con le pecore che munge, e con gli uccelli che volano a stormi sulle sue finestre a beccare il miglio. Se sono uccelli delicati, li mette arrosto o li vende; se son coriacei, li scaccia via. Questo è il segreto della sua ricchezza. Il servo bussò all’uscio e Bencio si vide davanti una donna gigantesca, con due braccia come due colonne e un visone rosso tutto coperto da un barba ispida e grigia. A incontrarla di notte, un cristiano si sarebbe fatto il segno della croce. - Che volete? - domandò con un vocione da orco. - Son venuto, madonna carissima, - disse Bencio, - a chiedervi soccorso. Dovete sapere che io avevo una capra e un barbagianni, i quali erano stati da me ammaestrati con gran cura e con quelli giravo il mondo buscandomi qualche soldo. Quei due ingratissimi animali mi sono fuggiti stanotte, e io vi offro questi due gigliati d’oro se mi aiutate a ricuperarli. Ma con questa offerta non mi tengo per sdebitato verso di voi, e proclamerò ovunque la vostra possanza. - Due gigliati non bastano, - disse la vecchia, - perché come tu sai le capre sono ghiotte del sale, e per attirar la tua, debbo farle venire a branchi; i barbagianni poi sono uccelli che vivono di carne, e se chiamo il tuo, verranno a stormi e dovranno trovar da mangiare. - Vi darò un altro gigliato, quando i due animali saranno in mio potere, - disse Bencio. - Va bene; torna domattina e sarai contento. Bencio se ne andò tutto afflitto. Come avrebbe egli fatto a riconoscere fra tanti barbagianni, il barbagianni del Diavolo; tra tante capre quella appunto che aveva fatto intorbidare le acque dell’Arno? Questo pensiero non gli dette tregua in tutto il giorno. La sera lo tormentava sempre, e il lanaiolo non riusciva ad addormentarsi; così passò alcune ore a pensare, e rivolse una fervida preghiera a san Giovanni, protettore della sua città. Finalmente poté prendere sonno e gli parve di essere in uno stanzone chiuso, pieno di capre e di barbagianni. Un uomo stava in piedi e faceva ripetutamente con la mano destra il segno della croce. Tutte le capre s’inginocchiavano; tutti i barbagianni appollaiati chinavan la testa. Una sola capra correva spaventata per la stanza; un solo barbagianni volava spaventato dando di cozzo col capo contro le pareti. Quando si destò, Bencio si rammentava benissimo il sogno. - Ho capito, - disse, - e se questa volta non chiappo quei due animalacci, vuol dire che l’arte della lana è rovinata per sempre. Bencio si vestì e andò al casone della vecchia. - Che nottata! - diss’ella appena lo vide. - Tutte le capre di questi monti son venute, e dei barbagianni ce ne sono a migliaia. Se non avesse fatto giorno presto, in casa non ci sarebbe stato più posto neppur per me. - Lo credo; tutti questi animali son corsi alla vostra chiamata per rendervi omaggio, bellissima madonna; correrei io pure dalle parti più remote del mondo se voi vi degnaste di pensare a me. La vecchia sorrise al complimento mostrando una bocca grande come un forno, e con molta precauzione introdusse Bencio in una stalla così ampia che avrebbe potuto contenere una e anche due mandre di buoi. Le capre c’erano così fitte che non ci si sarebbe potuto buttare un granellino di miglio, e i barbagianni coprivano le pareti e le travi del soffitto. - Ora riconosci i tuoi animali, - disse la vecchia. Bencio finse di guardare di qua e di là fra tutta quella caterva di bestie, e intanto con la mano destra faceva ripetutamente il segno della croce. A quel segno tutte le capre piegaron le ginocchia, tutti i barbagianni inchinaron la testa. Uno solo di questi si mise a volare furiosamente per la stalla, mentre una capra saltava sulla schiena delle altre cercando un’uscita. Bencio prese una pertica e con quella menò botte da orbi al barbagianni, finché non l’ebbe fatto stramazzare; poi, legatolo fortemente per una zampa, si mise a dar la caccia alla capra. Questa, invece di fuggire, gli andava addosso a testa bassa, e il pover’uomo sudava senza mai poterla acchiappare. La vecchiona, da un cantuccio, rideva e badava a dirgli in tono di canzonatura: - Pare che queste bestie ti vogliano un gran bene; devi averle trattate con tutti i riguardi, se ti temono a questo modo! Bencio sbuffava e avrebbe volentieri strozzata la vecchia, che si divertiva a canzonarlo fine fine. Finalmente con la pertica riuscì ad assestare una bastonata nelle gambe alla capra ribelle, la quale cadde. Bencio le saltò addosso, e fattosi dare una corda dalla vecchia, legò la capra per le quattro gambe come fanno i macellai con i vitelli. - Ora, madonna bella, addio. Eccoti due altri gigliati invece d’uno, perché mi hai reso un gran servigio, - disse Bencio alla donna, - tanto grande che te ne serberò gratitudine per tutta la vita, e, se non avessi moglie, ti offrirei di sposarti. La vecchia si ringalluzzì tutta a quelle parole e rimase a lungo sulla porta a guardare il fiorentino, il quale si allontanava in direzione di San Godenzo portando in collo la capra e il barbagianni, che continuavano a dibattersi per fuggire. - Preparate un rogo, - ordinò Bencio ai servi di giustizia, intanto che si dirigeva verso la chiesa. Giunto colà si fece dare tutta l’acqua santa che c’era, e v’immerse prima il barbagianni, e poi ci lavò tutta la capra. Dopo quella lavanda le due bestie non si dibatteron più e rimasero abbattute. Intanto il rogo era stato preparato e su quello, ben legati con catene che non avevan saldature, furono messi insieme i due animali del Diavolo. Questa volta le fiamme li arrostirono col pelo e le penne. Bencio raccolse con cura le ceneri e si mise in viaggio per Firenze. Ma per via si sarebbe strappato i capelli, e i lacrimoni gli scendevan giù per le gote vedendo che il Dicomano correva sempre torbo, che la Sieve era sempre bigia, e l’Arno sempre nero. - Monache e santi si son burlati di me! - esclamava. - Sarò rovinato lo stesso e si perderà la gloriosa arte della lana, la ricchezza della mia bella Firenze! Giunto in patria egli, così afflitto e sconsolato com’era, si recò a Or San Michele e adunò tutta la congrega dei lanaioli, mostrando le ceneri dei due animali malefici e narrando tutte le peripezie del suo viaggio. - Bisogna chieder consiglio a suor Maria Visdomini, - dissero i lanaioli, - ella ci ha aiutati tanto e non ci abbandonerà. Bencio se ne andò dunque ad Arcetri e fece chiamare a parlatorio la monaca. - Vi aspettavo, - diss’ella. - Il mio pensiero vi seguiva nel viaggio e non ho cessato di pregare per voi. Una di queste notti ho avuto una visione. Mi pareva di essere in mezzo al ponte a Rubaconte e l’Arno sotto a me correva torbo. Da tutte le parti v’era una folla di lanaiuoli, i quali piangevano e si strappavano i capelli. A un tratto è comparso l’arcivescovo in pompa magna, col capitolo e il popolo dietro. Voi gli avete presentato una cassetta piena di cenere. Egli l’ha rovesciata nelle acque dell’Arno, e quelle, da torbe si son fatte chiare. - Ho capito! - esclamò Bencio piangendo di gioia, - il convento d’Arcetri avrà il ricco donativo, poiché voi, suor Maria, siete stata la mia salvezza e quella dell’arte cui appartengo. Lo stesso giorno una deputazione dell’arte della lana andava dall’arcivescovo a narrargli la visione di suor Maria Visdomini ed a supplicarlo di gettar le ceneri dei due animali del Diavolo nelle acque dell’Arno. L’arcivescovo promise che la domenica successiva avrebbe fatto la funzione, e tutta Firenze si preparò ad accompagnarlo solennemente. Infatti Bencio presentò la cassetta con le ceneri all’arcivescovo, e appena questi le ebbe gettate sulle acque, l’Arno riprese il suo colore. Il popolo, esultante, si gettò in ginocchio; tutte le campane sonarono a festa, e Bencio, il povero Bencio, quasi quasi ammattì dalla gioia. Il giorno dopo tutti i lanaiuoli ripresero a purgare e a lavare i loro panni nelle acque limpide dell’Arno, le chiese si arricchirono di voti, e il popolo acquistò sempre maggiore devozione per san Giovanni Battista. Alla sua morte, Bencio lasciò la metà del patrimonio ai figliuoli e l’altra metà al convento d’Arcetri, dove da un celebre artista gli fu eretto un sepolcro in marmo.
Quella sera Vezzosa, appena finita la novella, era andata accanto a Cecco e gli aveva detto: - Vuoi che facciamo una passeggiata? Ho da dirti tante cose! E soli, i due sposi, s’eran spinti sulla via maestra, e la giovane aveva, in quella solitudine e in quel buio, narrato al marito le sofferenze di quei giorni passati. - Mi perdoni? - le domandò lui umilmente. Una stretta di mano fu la risposta eloquente di Vezzosa, e la serenità le tornò nel cuore. Regina non s’era mossa aspettando il ritorno del figlio e della nuora prediletta. Quando li vide giungere, ella lesse subito sui loro volti quel che era avvenuto, e s’accòrse che se da un lato il pentimento era stato sinceramente espresso, dall’altro il perdono era stato concesso con gioia. Ella sorrise ai due giovani, e, attrattili a sé, parlò loro lungamente con quella voce dolce e persuasiva, con quella semplicità e rettitudine in cui stava riposto il segreto della influenza di Regina sull’animo de’ suoi. I giovani l’ascoltarono senza parlare, guardandosi scambievolmente; e quando ella ebbe terminato, le presero le mani e gliele baciarono con effusione. La Regina, intenerita, li abbracciò e disse: - La vita è già seminata di dolori, e tutte le mie preghiere non bastano a proteggervi da quelli. Fate almeno che questi dolori non sieno accresciuti dalle afflizioni procurate, che tolgono all’uomo la forza di sopportare le altre che vengono di lassù. Aveva parlato con quel tono solenne che sogliono usare certi vecchi che hanno la consuetudine di sapersi ascoltati, e Cecco e Vezzosa non ebbero parole per risponderle, ma la guardarono commossi.