Le novelle della nonna/Il ragazzo con due teste
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- Il ragazzo con due teste
Dopo quella spiegazione avvenuta fra i due sposi nel silenzio di una splendida sera di primavera, la gioia era tornata a brillare sull’esistenza di Cecco e di Vezzosa. Gli uomini del podere erano in faccende per preparare le viti, che si coprivano di pampini, e per vangare e arare i campi che volevan mettere a granturco e a saggina, e le donne erano occupate a riaccomodare i vestiti da estate per loro, per i mariti e per i figli. Vezzosa era la più libera e toccava a lei a portare il desinare nel campo ai cinque fratelli e a fare il pane e il bucato, aiutata dall’Annina. Benché il lavoro fosse duro e incominciasse alle cinque di mattina per continuare fino a tarda sera, pure ella trovava sempre il tempo d’insegnare a leggere e scrivere ai bimbi. Specialmente allora che si avvicinava la Pentecoste, ella s’era messa in testa di far imparare al Rossino una poesia per la nonna; e per indurlo a ripetere i versi e tenerli a mente, gli faceva ogni tanto un omìno di pasta con un po’ di zucchero, oppure due brigidini, che gli dava a lezione terminata. Non si può dire il fàscino che ella esercitava su tutti quei bambini, con le sue buone maniere. La Regina, invece di esserne gelosa, ne godeva e badava a dire: - Quando tu pure avrai de’ figliuoli saranno tanti modelli di creature. Se hai già saputo piegar questi a ubbidirti, ed eran grandicelli quando li hai conosciuti, che cosa non saprai fare de’ tuoi, che educherai fin dall’infanzia? E se un desiderio vivo agitava la vecchia, era quello di cullare anche i bambini di Cecco, come aveva cullato quelli di tutti gli altri suoi figli. - Se potessi campar tanto, - diceva, - sarei felice davvero. Una domenica, sul tramonto, la famiglia era seduta sull’aia, e il Rossino era saltato sulle ginocchia di Vezzosa e, sottovoce, guardando ogni tanto la nonna, ripeteva i versi che doveva dirle a Pentecoste. Vezzosa si avvide che alla lunga la vecchia si sarebbe accorta del segreto, e, per farlo chetare e distrarlo, disse: - Mamma, è l’ora della novella. - Hai ragione; - rispose la buona vecchia, - se indugio dell’altro, questi bambini s’addormentano, perché non pare, ma son già le sette sonate. Ora attenti, perché la novella è bella e, se non farà ridere, farà piangere chi l’ascolta.
- Dovete sapere, dunque, che tanti ma tanti anni fa, c’era ad Arezzo un certo messer Parri di Spinello Spinelli, pittore molto reputato per fregiare i muri delle chiese d’immagini di santi, di madonne e d’angeli. Costui era un uomo molto economo, per non dire avaro, e non perdeva un momento di tempo per lavorar di più onde guadagnare maggiormente. Ma siccome non aveva moglie, i compagni, vedendolo così assiduo al lavoro, gli domandavano: - Per chi lavori, messer Parri? - Lavorerò per il Diavolo, - rispondeva lui, senza posare il pennello. Egli aveva già compiuto diverse opere importanti, e con i risparmî aveva costruito una bella casa vicino a Badia, arredandola con stoffe e mobili, come aveva veduto usare a Firenze dai signori quando stava ad imparare l’arte dal Ghiberti; e in quella casa viveva con una vecchia serva per nome Marta, che lo aveva allattato. Ma messer Parri non possedeva quella casa soltanto, ché il padre suo Spinello gli aveva lasciato terre e quattrini, e sommati insieme i risparmî con l’eredità, egli poteva stimarsi ricco davvero. Egli era dunque pervenuto al quarantesimo anno d’età, senza pensare ad accasarsi, quando un giorno, essendo appunto a dipingere nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, a un miglio da Arezzo, vide venire sotto il portico, dov’egli stava a prendere il fresco, una donna nera come la cappa del camino, con due occhi verdi da aquila, con le mani adunche e un vestito scarlatto, giallo, verde e turchino che la faceva somigliare ad una maschera. La donna, che pareva giungesse da lontano, domandò al pittore se Arezzo era distante, perché desiderava giungervi prima di sera; e, ottenuta da lui risposta, attaccò discorso e gli disse che ella aveva la virtù d’indovinare l’avvenire solamente esaminando la mano e tre capelli di una persona. Parri, incuriosito da queste parole, si strappò tre capelli, che portava lunghi alla guisa dei pittori, e poi, presentata la mano alla donna, le disse: - Ora svelami il futuro! Quella specie di megera tenne un pezzo l’occhio fisso sul palmo della mano del pittore; poi, entrata in chiesa, bruciò i tre capelli alla fiamma della lampada che ardeva dinanzi alla Madonna, e disse: - Messer Parri, sbrigatevi a prendere moglie. - E perché mai? - Perché la donna vostra vi partorirà un figlio che avrà cervello per due e farà strabiliare il mondo. - Non sarebbe cosa nuova nella nostra famiglia. Spinello, mio padre, ebbe fama di valentissimo nell’arte sua; mio fratello Forziore è reputato, a Firenze, il più abile fra i maestri di niello, e io stesso sono stato scelto da fra’ Bernardino da Siena per dipingere la Vergine gloriosa, e non è per me poco onore. - Ne convengo; - rispose la donna, - ma il figliuol tuo sarà per cento volte più rinomato di tuo padre, di tuo fratello e di te, e il suo nome correrà sulla bocca di tutti. Parri, come ho già detto, non aveva mai pensato a prender moglie; ma dopo che quella specie di megera ebbe predetto che il figliuol suo avrebbe offuscato con la sua gloria tutti di sua famiglia, incominciò a dire fra sé e sé: - Che mal ci sarebbe se mi ammogliassi? Potrei sempre trovare una ragazza con una buona dote, e il mantenimento di lei non mi costerebbe un soldo. Marta poi è vecchia e mezza rimbecillita, e in casa ci sarebbe bisogno di una donna; vedremo! Intanto però continuava a lavorare, ma la mente non era più fissa all’opera incominciata e pensava al figlio predettogli dalla donna. - In quale arte sarà celebre questo figlio che mi si promette? E se invece di essere un artista, fosse un filosofo sommo, un grande capitano? Insomma, gira e rigira, dacché la donna gli aveva guardato la mano, Parri non pensava ad altro che a quel figlio meraviglioso. Ma per averlo, bisognava prima cercare moglie. Per questo motivo egli s’informò un po’ alla larga se in Arezzo v’eran ragazze che gli convenissero, e per saperlo si diresse a un frate di san Francesco, che confessava specialmente le donne. Questo frate, appena conobbe l’intenzione di Parri, disse: - La donna che volete, io ce l’ho, ed è ricca, bella e costumata. Il padre di lei si chiama Braccio, ed è un uomo pio e facoltoso oltre che grande ammiratore degli artisti. Lasciatemi fare, e io combinerò il pateracchio. Difatti il frate, di lì a pochi giorni, mandò a dire a Parri che lo aspettava, e appena lo vide comparire, gli annunziò che Braccio era contentone e che la sera stessa lo avrebbe condotto in casa della sposa. Le nozze si fecero dopo un mese, e Parri fu tutto lieto di portarsi a casa sua la moglie, non perché gli importasse gran ché di lei, ma perché da lei aspettava quel famoso figlio che doveva aver più cervello di tutti gli Spinelli sommati insieme. E fin dal primo giorno la tenne come si tiene una cosa delicata e rara. Non voleva che lavorasse, che si stancasse; la campava a capponi e animelle, e cercava di farla stare allegra e contenta. Però passaron nove mesi e il figlio non si vide. Allora Parri, preso dalla smania, la consigliò di fare una novena a sant’Anna. La moglie, compiacente, non ne fece una sola, ma nove, e tuttavia il figliuolo si faceva sempre aspettare. - Sono stato burlato, ingannato; non avrò mai questo figlio dotato di un cervello così straordinario! - gridava Parri. Gli eran venuti a noia i pennelli e i colori, non poteva più vedere la moglie, e, se avesse potuto, l’avrebbe rimandata a casa sua subito. Un giorno che, invece di dipingere in Duomo la figura di san Bernardino, egli se ne stava sulla piazza a imprecare contro la sorte, vide avvicinarglisi una zoppa, con un popone sulla spalla sinistra, grosso come una zucca, e certe zanne simili a quelle dei cinghiali. La zoppa, quando fu a pochi passi dal Parri, si mise a ridere sgangheratamente. - Ti paio forse buffo? - le chiese il pittore a denti stretti. - Messere, io rido perché so che vi struggete di aver un figlio con molto, molto cervello. - Non è cosa da ridere, mi pare. - A me pare di sì, perché non c’è bisogno di smaniare tanto: non v’è cosa più facile a ottenersi. - Tu mi burli! - esclamò Parri. - No, davvero, signor mio; se invece di far dire tante novene dalla vostra moglie, foste ricorso a me, il figlio lo avreste già, e con tanto cervello da empir due teste invece d’una. Parri, come tutti i disperati, cominciò a prestar orecchio ai discorsi della zoppa, ma volle fingere di far l’incredulo. - Non me la dài a bere! - disse. - Sentite, io non vi chiedo nulla per rivelarvi il mezzo d’aver un figlio; ma se fra nove mesi vostra moglie non vi partorisce un maschio con tanto cervello da empir due teste, dovete farmi prendere e impiccare. - Dimmi dunque questo tuo mezzo. - La vostra donna, - rispose la zoppa, - non deve far novene, né portar ceri in chiesa. Ogni sera, prima di chiudere gli occhi, deve dire:
Belzebù, Belzebù,
Nessun m’aiuta, aiutami tu!
- Ma questa è una preghiera al Diavolo! - esclamò Parri. - Il figliuolo lo volete, sì o no? - Lo voglio, ma ho paura che nasca dannato. - L’acqua del santo battesimo lo redimerà. Parri volle mettere una moneta nella mano della zoppa, ma questa rifiutò l’elemosina e, prima di allontanarsi zoppicando, ripeté: - Non ve ne dimenticate:
Belzebù, Belzebù,
Nessun m’aiuta, aiutami tu!
Il pittore scrisse subito questa giaculatoria su un pezzetto di avorio che aveva in tasca e andò a casa dalla moglie a raccontarle l’incontro. La donna si mise a piangere e a strepitare. - Dalla mia bocca non uscirà mai quella invocazione al Diavolo; non mi voglio dannare! - La dirai! - Non la dirò! - rispondeva lei imbestialita. - Devi ubbidirmi! - comandava Parri a denti stretti. - Anche la religione ordina alla moglie l’ubbidienza al marito. - Nelle cose oneste, sì; nelle disoneste, no. - Non sta a te a giudicare, - ribatteva Parri. - Io voglio il figlio e lo voglio con molto cervello. - Se deve nascere per virtù del Diavolo, io non lo voglio, - rispondeva lei. Insomma, per farla breve, le parole si fecero più aspre fra marito e moglie, e Parri, impazientito, passò dai detti ai fatti, e fece piovere gli scapaccioni sulla testa della moglie. La sera, prima che la poveretta si addormentasse, egli dovette ricorrere alle busse per farle dire:
Belzebù, Belzebù,
Nessun m’aiuta, aiutami tu!
Peraltro, dopo quella sera, Parri non ebbe più il coraggio di entrare in Duomo, né di mettere una pennellata di colore sulla figura di san Bernardino, di cui prima era devoto. Di giorno girava per la campagna come un’anima spersa, e la sera bastonava la moglie per farle ripetere la solita invocazione al Diavolo. Erano passati già sei o sette mesi dopo l’incontro con la zoppa, e di figliuoli non se ne parlava, quando una mattina la moglie disse al Parri: - Se non sbaglio, il figliuolo che tu desideri così vivamente, sta per nascere. A quell’annunzio parve al pittore che gli si schiudesse il cielo, e già incominciò ad almanaccare quale professione avrebbe scelta per quel figlio con tanto cervello, quanto potrebbe guadagnare, e quante ville avrebbe comprato. Così passò la giornata; la sera egli non costrinse la moglie a fare la solita invocazione a Belzebù. Ormai il figliuolo era per la via, quindi non occorreva più invocare una protezione che lo turbava. Anzi, non contrariò più in nulla la consorte e la campò a capponi perché l’erede nascesse bello e forte. Un sabato notte, mentre si era scatenato un uragano, e i lampi abbagliavano, e i tuoni schioccavano secchi e senza interruzione, la moglie di Parri fu presa dalle doglie. Allora il pittore accese tutte le lucerne di casa e le candele a tutte le immagini sacre per ottenere che la moglie soffrisse meno; ma la povera donna si sentiva morire dal male. Però, come Dio volle, a mezzanotte in punto, quando la burrasca era al colmo, il figliuolo nacque. - È un mostro! - esclamò la vecchia che lo aveva raccolto. - Un mostro! - ripeté sbalordito Parri. - Un mostro! - disse la moglie. - Sì, un mostro: ha due teste invece d’una, - rispose la vecchia. E infatti, il neonato aveva due teste, perfettamente uguali, che si staccavano dallo stesso busto: una, voltata davanti, e l’altra, di dietro; ma due teste grosse, aiutatemi a dire grosse. Il povero pittore si mise le mani nei capelli e si rammentò le parole della zoppa. Aveva voluto il figliuolo con tanto cervello da empir due zucche, e l’aveva avuto! La madre piangeva e non s’attentava a toccare quel bambino con i due testoni; la vecchia brontolava perché nel corredino non trovava cuffie abbastanza grandi per quel mostro, e Parri era scappato in uno stanzino buio, perché non lo poteva vedere. In un momento di disperazione, il pittore esclamò:
Belzebù, Belzebù,
Mel donasti, ripiglialo tu!
Non aveva appena pronunziate queste parole, che si udì un gran rumore, e una luce viva illuminò la stanza. In mezzo a quel chiarore comparve l’invocato da Parri, il Diavolo in persona, col viso arcigno, il piede di capro e la coda. - Che cosa vuoi, uomo incontentabile? - gli domandò il Diavolo. - Voglio che tu mi liberi da quel mostro, io non posso vederlo. - Ti pare un mostro perché non è fatto sullo stampo degli altri uomini, - rispose il Diavolo ghignando. - Sei artista, e tu pure ti permetti certe licenze col pennello. Anche tu hai dipinto draghi con più teste e aquile bicipiti, eppur non vi sono in natura. Se io, che son pure un grande e ingegnoso artista, mi son permesso questa licenza, non ho fatto un gran danno. Tanto cervello, quanto tu ne volevi per il figliuol tuo, in una testa sola non c’entrava, e gliene ho regalata una seconda; contentati. - No, re dell’Inferno, io non mi contento, tu devi ripigliartelo; io non voglio mostri. In casa nostra non c’è mai stato nessun deforme, e non voglio che il primo sia il figlio mio. - Uccidilo; ci vuol tanto poco; così, quando avrai commesso il delitto, verrai nel mio regno, dove ti farò dipingere tutte le pareti dell’Inferno, e staremo allegri. Parri si sentì gelare a quelle parole, e si fece presto presto il segno della croce. Il Diavolo allora scomparve, com’era venuto, con moltissimo fracasso. - Un prete! Un prete! Voglio che questo mostro sia battezzato subito! - gridava il pittore per la casa. Fu chiamato il parroco, ma appena alzò la coppa con l’acqua santa per aspergere il capo del bimbo, l’acqua si convertì in fuoco. E per quanto il parroco ritentasse di battezzarlo, di pronunziar preci, di far segni di croce, tutto fu inutile, e finalmente egli fuggì dicendo: - Qui sotto c’è una diavoleria! Tutti, tutti avevan paura del mostro; tutti, anche la madre sua, che si ricusava d’attaccarselo al seno. Arezzo è una piccola città, e il fatto della nascita del mostro di Parri di Spinello Spinelli si riseppe subito, e si riseppe anche che il prete non era riuscito a dargli l’acqua santa. Corsero allora alla casa del pittore i parenti della moglie, corsero i parenti di Parri e gli artisti, e tutti interrogavano il padre e la madre del mostro; ma essi eran più morti che vivi, e non potevano rispondere. I parenti allora chiamaron l’arcivescovo per vedere se a lui riusciva di battezzare il bambino; ma sì! l’acqua anche quella volta si convertì in fuoco, e il mostro non fu battezzato. - Portiamolo a Badia, - dissero i parenti. Ve lo portarono; ma quando stavano per salire i gradini dell’altar maggiore, tutta la chiesa incominciò a tremare come per il terremoto, e se non facevano presto a scappare, sarebbe rovinata di certo. In fretta e in furia i parenti riportarono il mostro a casa di Parri, e dopo di averlo dato alla vecchia serva, scapparono via per non rimettere più piede in quel palazzetto. Intanto fra marito e moglie c’era l’inferno. - Vedi che bell’erede che m’hai dato! - diceva Parri. - Vedi che cosa s’ottiene a pregare il Demonio! - rispondeva lei. - Io me ne torno a casa mia, e tu, tienti pure il tuo mostro. E mentre litigavano così, il bambino strillava dalla fame. La vecchia Marta, che aveva allattato il padrone, non poteva sentire quegli strilli, e andò in cerca di una capra. Il bambino si attaccò subito all’animale e con le due bocche le vuotò tutte e due le mammelle; poi dormì come un ghiro. Madonna Lena, la madre del mostro, mantenne la parola, e, un giorno, fatto il fagotto, se ne tornò a casa di Braccio suo padre, e non volle più vedere il marito. Parri non cercò neppure d’impedirle di andarsene. Anche lui aveva voglia di fuggir lontano, tanto, ormai, in chiesa a dipingere non poteva più entrarci, e la vista di quel mostro lo turbava a segno tale da scombussolargli il cervello. Ma prima di partire mandò Marta a Bibbiena da certi nipoti che ella aveva, dandole anche il figlio, e ingiungendole di non dire che era suo, ma di un forestiere dal quale era stata a servizio negli ultimi tempi. La vecchia, che era affezionata al suo padrone, si sottomise agli ordini di lui, e partì col mostro e con la capra. Figuriamoci le meraviglie che fece tutto il popolo di Bibbiena, quando, dai parenti di Marta, fu divulgata l’esistenza del mostro! Correvano da tutte le parti a vederlo, ma nessuno osava accostarglisi, perché il piccino appena vedeva gente sgranava tutti e quattro gli occhi in una certa maniera da mettere i brividi a chi lo guardava, e invece di crescere a occhiate, come fanno gli altri bimbi, cresceva addirittura a salti. Di modo che, quando ebbe un anno non volle più sapere né di latte, né di pappine, né di dande, e correva via per la campagna come una lepre. I ragazzini, a veder quelle due teste dondolare, scappavano, e il mostro mandava fuori certe vociacce per canzonarli, che li facevano tremar tutti. Marta s’era guardata bene dal raccontare che nessun prete, neppur l’arcivescovo, aveva potuto battezzare il bambino, e lo lasciava correre come voleva, sperando che un giorno non sarebbe tornato più, ed ella non si sarebbe più veduta davanti quel ragazzo con le due teste. Quello che egli facesse a giornate intere in campagna, non lo sapeva nessuno; ma quando tornava a casa la sera, meravigliava Marta e i parenti di lei con la sua sapienza. Senza maestro alcuno che gl’insegnasse, aveva imparato a leggere non solo in volgare, ma anche in latino, e spiegava ogni fenomeno della natura meglio dei dotti. E quel che più meravigliava tutti, si è che non potevano avere un pensiero senza che egli lo leggesse meglio che se lo avessero portato scritto in fronte. Sapeva dunque chi gli voleva bene e chi gli voleva male, e quando Marta, nel vederlo andar via la mattina, formulava in cuor suo il desiderio che non tornasse più, egli, con la testa che aveva volta di dietro, le faceva un cenno e diceva: - Non sperare inutilmente; stasera torno! E tornava difatti e portava sempre uccelli e lepri vivi, che nessuno sapeva come facesse ad acchiappare. C’era in Bibbiena un ricco signore della famiglia dei Dovizii, il quale aveva un cavallo bellissimo e bravo come non ce n’eran altri. Messer Donato voleva un gran bene a quel cavallo e ne era molto orgoglioso, perché lo aveva fatto uscire più volte vincitore dalle giostre. Bisogna sapere che i parenti di Marta, e per conseguenza il mostro, abitavano a poca distanza dalla casa di messer Donato, e il ragazzo con due teste s’era fermato più volte a vedere strigliare il cavallo, fissandolo con certi occhi cupidi da non dirsi. Una mattina che il cavallo era legato sulla porta della stalla, il mostro venne a passare, come al solito, e, vedendo che non v’era il mozzo, si accostò all’animale e disse:
Belzebù, Belzebù,
Vo’ quel cavallo, dammelo tu!
Sul momento il cavallo incominciò a calciare, a dare strattoni alla corda, e spiegava tanta forza che portò via la campanella di ferro che era murata nella casa. Il mostro allora si mise a correre, e il cavallo dietro, giù per la scesa del paese. Il mozzo di stalla, sentendo tutto quel fracasso, andò in istrada e si mise a inseguire l’animale; ma sì! questo pareva che avesse il lupo alle costole; non correva, ma volava; e tanto il cavallo quanto il mostro sparirono dopo poco nel fitto di un bosco. Una volta in possesso del cavallo, il ragazzo a due teste si divertì un pezzo a guardarlo da tutti i lati e a fargli eseguire dei lanci. Poi lo legò a un albero e si mise sotto a quello a dire:
Belzebù, Belzebù,
Son figlio tuo, nutriscimi tu!
Aveva appena parlato, che gli uccelli che eran sull’albero e sugli altri vicini volavano giù come sbalorditi, e andavano a posarglisi in grembo. Il ragazzo schiacciava loro la testa, li pelava alla meglio, e poi, infilatili in un sottil ramo verde, li metteva a cuocere davanti a una fiammata. Quando ebbe mangiato bene bene con tutte e due le bocche, disse: - Lucifero, prepariamoci a partire; voglio andare ad Arezzo per consolare l’affettuosa madre mia, che ha avuto tanta cura di me. Il cavallo, nel sentirsi chiamare, rizzò le orecchie e nitrì. Il mostro salì agilmente in sella, nonostante le due teste che gli pesavano non poco sul busto, e, per conseguenza, sulle gambe, e via verso Arezzo. Ora dovete sapere che madonna Lena, dopo aver fuggito la casa del marito, era rimasta un pezzo presso Braccio, padre di lei; ma poi, venuto egli a morte, si era ritirata in casa di una zia vedova, e menava vita allegra frequentando festini e conversazioni. Al marito non pensava mai, e quando si rammentava di quel figlio mostruoso, si faceva il segno della croce e sperava di non rivederlo mai più. Il mostro galoppava, come il vento, sulla via d’Arezzo, e quando fu vicino alla porta, disse:
Belzebù, Belzebù,
Dove vo’ andare, guidami tu!
Il cavallo, senza bisogno di tiratine di briglia, condusse il cavaliere in una straduccia tortuosa, e lì si fermò di bòtto. - Ho capito! - disse il mostro, - l’affettuosa madre mia deve stare giù di qui. Egli non scese di sella e attese come un soldato in vedetta, sbirciando tutta la strada con quei quattro occhiacci che vedevano certo meglio di due. Ma intanto che stava lì ad aspettare, gli si radunò intorno una folla di curiosi, e tutti dicevano: - Guarda il figlio di Parri Spinelli e di madonna Lena di Braccio! Il vocìo era tanto forte, le risate dei monelli così squillanti, che attirarono alla finestra anche madonna Lena, la quale, appena ebbe udito pronunziare il suo nome e scòrse il mostro, diventò bianca come la neve e tremò tutta. - Non ce lo voglio dintorno a casa, non voglio vederlo! Il Diavolo me lo ha mandato, e il Diavolo se lo ripigli! Madonna Lena sbatacchiò la finestra, chiuse anche le altre e continuò a inveire contro la sua sorte, stracciandosi da dosso le ricche sue vesti. Intanto il mostro non si muoveva di dov’era, ma la folla intorno a lui si faceva sempre più compatta e più clamorosa, ed egli rimaneva imperterrito a guardarla. A un tratto si aprì la porta della casa di madonna Lena e comparve sulla soglia la zia di lei. La donna alzò le braccia e disse in modo da essere udita da tutti: - Mostro, ritorna all’inferno di dove sei venuto; madonna Lena preferisce la morte alla tua vista. - Torna in casa, vecchia, - gridò il mostro. - La mia tenera madre è già nelle braccia della morte e la sua anima vola dritta in grembo a Belzebù. La vecchia si mise le mani agli orecchi, sbatacchiò la porta e corse in casa. Intanto il tumulto nella via cresceva e la folla non rideva più del mostro, ma lo minacciava da vicino. In quel mentre una delle finestre della casa di madonna Lena si spalancò, e la zia, affacciandosi, si mise a urlare: - È morta davvero; costui è il Diavolo!... Dàlli! dàlli! Il popolo allora si gettò sul mostro; ma egli, spingendo il cavallo sulla folla, rovesciava e calpestava quanti gl’impedivano il passo, e col volto che aveva dalla parte di dietro, faceva, fuggendo, certe boccacce e certi occhiacci di scherno a chi voleva inseguirlo, che mettevano orrore. Il cavallo correva così veloce, che nessuno poteva raggiungerlo, e in breve fu sulla via Fiorentina. Quando il mostro non si vide più inseguìto, fermò il cavallo e, sceso di sella, disse:
Belzebù, Belzebù,
Ov’è il padre mio? Dimmelo tu!
Il cavallo fiutò l’aria e nitrì. Il mostro allora lo inforcò di nuovo e gli lasciò la briglia sul collo, sicuro che l’animale lo avrebbe condotto da Parri. Infatti camminò tutta la notte, e a giorno si fermò a poca distanza da Firenze, alla Badia di San Salvi. Il mostro rimase a cavallo, in vedetta. Di lì a poco egli vide uscire, da una casetta attigua alla Badia, un uomo giovane ancora, ma curvo, che s’incamminava per una viottola deserta, parlando a voce alta come suol fare chi è oppresso da grave cruccio. Il cavallo si pose dietro a quell’uomo e il mostro capì subito che l’infelice che parlava da solo era Parri. Al rumore che faceva il cavallo camminandogli alle calcagna, Parri si voltò fissando il mostro. Poi, invece di fuggire o di sbraitare come avea fatto la moglie, si fermò e, fissando il mostro, gli stese le braccia piangendo e disse: - Non avevo coraggio di venire a te; ma dal momento che sei qui, rimani, e che tu sia il benvenuto. La solitudine e il rimorso dell’abbandono in cui ti ho lasciato, sono troppo dolorosi. Chiunque ti abbia mandato a me, Iddio o il Diavolo, io lo ringrazio di questa consolazione. L’ambizione di avere un figlio che avesse più ingegno, più fama di ogni uomo, mi fece ascoltare i suggerimenti insidiosi del Demonio; ma tu sei carne della mia carne, e io ti voglio bene e ti benedico. Il mostro, mentre Parri sfogava così il suo dolore, era balzato di sella e s’era gettato nelle braccia dell’uomo buono, che era suo padre. In quel momento un pensiero subitaneo, una speranza, balenarono nel cuore e nella mente dell’artista. Egli si mise a camminare trascinandosi dietro il figlio, e, giunto sotto il portico della Badia, si fermò dinanzi a una soave Madonna, dipinta da lui sul muro, allorché era a Firenze giovinetto a studiar l’arte. Per quella immagine egli aveva una straordinaria venerazione. Fece inginocchiare il figlio, gli pose le mani sulle due teste e disse: - Madonna santa, voi sapete con quanta devozione io vi ho dipinta; abbiate pietà di me; io non ho più altra ambizione che quella di vedere il figlio mio con un aspetto come tutti gli altri. Maria Santa, redimetelo! Dagli occhi della soave immagine sgorgarono a un tratto due lacrime, e il mostro, intenerito, chinò la testa. Quelle due lacrime gli caddero su una delle due teste, e dal cielo scesero allora due schiere di angeli cantando «Osanna!» e circondarono il mostro. Allorché essi, cantando, risalirono al cielo, le lacrime della soave immagine s’erano terse, e sul volto di lei si vedeva un sorriso di beatitudine. - Figlio mio, figlio mio! - esclamò Parri mirando il giovane, il quale, rimasto in ginocchio, nell’atteggiamento di prima, mostrava una sola testa, come tutte le creature umane. Prima cura del pittore fu quella di far battezzare e cresimare il suo figliuolo, e, sentendosi ormai liberato da quell’infernale persecuzione, ritornò ad Arezzo ove riprese a dipingere le figure lasciate incomplete nel Duomo, e molte altre di cui ornò tante chiese della città. Il figlio, che ora cristianamente si chiamava Giovanni, fu pittore assai valente, e in una parete di San Domenico ad Arezzo dipinse il miracolo avuto in suo favore a San Salvi. - E ora la novella è terminata, e io do la buona notte, - disse la Regina.