Le nostre fanciulle/Parte Prima/Attività sana
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ATTIVITÀ SANA
Io penso che, come non è possibile durar tutta la vita a nutrirsi d’erbe, oppure unicamente di carne, così il lavoro se è solamente manuale o solamente intellettuale, non dà all’uomo i suoi preziosi doni. È necessario alternarli perchè l’uno e l’altro diventino un godimento.
Rallegriamoci, noi donne, della fortuna di aver una casa da governare, le nostre mattinate, tutte prese dalla pulizia delle stanze a finestre spalancate. È l’ora veramente igienica, tutta di lavoro allegro. Diventa una noia soltanto per chi ha la... sfortuna di dover mangiar polvere e guardar lavorare le persone di servizio; o si vede relegala in salotto fino a lavoro compiuto.
Ma chi di voi, anche fra le più ricche, non ebbe almeno un giorno la tentazione di afferrare la granata o di far correre lo spazzolone impiombato sul pavimento? Ah, quanto bene farebbe quella ginnastica ai muscoli di certe esili braccia giovanili; come si riscalderebbero certi corpi freddolosi nelle giornate d’inverno! Quale benessere correrebbe per le vene di certe donnine sfibrate!
Ditelo voi, fanciulle, a cui la mamma impone che la pulizia della vostra camera sia fatta tutta da voi; ditelo come, sedendo poi allo specchio per spolverarvi i capelli, non potete a meno di osservare il bel colore rosato del vostro viso e il gaio scintillìo dei vostri occhi.
Una mattina vissuta così, dà diritto poi a parecchie ore di libertà spirituale, a lavori in cui l’intelligenza abbia la parte migliore: tanto più clic non c’è come un cencio o una spazzola agitantesi nelle mani, mentre un bel sole entra nella stanza con buffate d’aria fresca e cip-cip di passerini, per svegliare ricordi lieti e presentimenti di gioia, e versi armoniosi di poeti, e pensieri buoni e belli, e sogni alati e puri.
È proprio una buona e sana preparazione a lavori geniali, a idee e propositi serii. Ed eccovi felici al vostro tavolino da studio, al vostro pianoforte o al vostro cavalletto. Dite, quando si credeva che studiare volesse dire andare a scuola, e che terminate le scuole si fosse finito di studiare!... (Osservate come le fanciulle svogliate e incapaci di felicità, siano quelle che credono d’aver finito di studiare quando sono uscite dal collegio). Oh, la malinconia di vite che ogni giorno ripetono lo stesso lavoro materiale, senza affrettarsi per un lavoro gioioso che le attenda più lardi! Dal cencio della polvere all’ago, dall’ago alle spazzole e al cencio... null’altro! Rabbrividisco ancora ricordando un certo salotto ove una mia amica d’infanzia, uscita da un collegio di suore, trovò ad aspettarla la madre vedova, triste e amareggiata, seduta con la nonna ad un bel tavolo di mogano, davanti alla finestra, sul cui orlo erano appuntati, l’uno in faccia all’altro, due cuscinetti rotondi di velluto verde. — Quello è il tuo posto, vedi? ti ho fatto fare un cuscinetto come il mio. —
Quello fu il gran dono materno alla giovinezza di quella figliola che fino allora non aveva conosciuto che il collegio, che non doveva conoscere che tristezze, rampogne... e la morte, a diciott’anni. Non un libro accanto a quel cuscinetto: non altri visi giovanili attorno a quella tavola: non la finestra spalancata sul giardino, ove quella fanciulla potesse liberamente godersi i fiori, il sole, la gioia di correre, di cantare, di ridere, di pensare, di elevar l’anima a modo suo verso le stelle.
Oh quelle madri clic dimenticano d’aver giocato e riso e sognato; che dimenticano di averlo desiderato se a loro non fu concesso; che dimenticano il diritto di ogni natura umana alla gioia; il dovere ch’esse hanno di sviluppare nelle loro creature tutti i germi d’intelligenza e di bontà che Dio ha posto in esse! Madri infelici perchè a sè stesse negano una delle soddisfazioni più grandi della maternità.
Voi tutte, lettrici mie, che avete la fortuna di avere madri intelligenti le quali, anche colpite da dolori, sanno comprendere le aspirazioni e i desideri della vostra età, ringraziate Dio ogni giorno, e quando avrete figli vostri imponetevi di assomigliarle. Primo dei vostri doveri è quello di comprenderli, e mantenervi giovani e serene di spirito per non gettare ombra sulla loro vita.
Ancora, sapete, in certe famiglie eccessivamente pie e nelle piccole città, vi sono giovinezze che sfioriscono senza aver conosciuta la primavera: tutte piegate sui rammendi e i ricami, con nessuna altra distrazione che le funzioni religiose e qualche serata famigliare fra gente ugualmente posata e malinconica, o letture ad alta voce intorno alla tavola di lavoro.
Io ricevo tratto tratto lettere che mi rivelano drammi intimi strazianti: ebbi anche due visite furtive di fanciulle (una tornava con la cameriera dalla chiesa, un’altra trovò modo di farsi accompagnare da un’amica). Mi si buttarono nelle braccia, mi baciarono il vestito tutte turbate e con gli occhi umidi; avevano visto da un’amica qualche numero della Rivista per le Signorine, quindi sapevano che io amo le fanciulle, che le capisco, e affrettatamente vollero dirmi quanto fossero sventurate.
Oh triste, triste a dirsi! Io chiesi: «Non ha più la mamma forse?» «Oh, no, c’è; sta bene». «Ha il babbo...» «C’è c’è, sta bene».
Ah, v’è dunque un’infelicità che eguaglia quella di non aver più nè babbo nè mamma?!.. Io sto raccogliendo osservazioni sulle tirannie domestiche, tutte studiate dal vero, che mostreranno a quante preziose giovinezze è impedita ogni aspirazione a una utile vita operosa; quante altre sono lanciate in una vita di vanità e di svaghi mentre in esse palpita un ardente desiderio di serio lavoro, di abnegazione e di vita ben altrimenti serena.
Cercatele intorno a voi queste malinconiche compagne vostre, e pensate quanto bene potete far loro se saprete ispirare con la dolce franchezza del vostro carattere, coll’esempio della vostra vita occupata seriamente eppur tanto gaia, la fiducia nelle loro madri, così che permettano alle loro figliole di essere vostre amiche. Lentamente esse s’avvedranno come l’intelligenza coltivata sia la migliore salvaguardia contro i sogni della fantasia e le malinconie morbose; come l’operosità in casa deve essere animata da un lavoro particolar mente geniale e simpatico che dia soddisfazione e come sia necessario uscire dal chiuse, della casa, interessarsi al di fuori, per quel bisogno di espansione e di abnegazione ch’è innato nella gioventù e la contenta e la rasserena, perchè le dà in certo modo la misura delle sue forze.
E a quelle fra voi che colpite da qualche grave dolore si sentono infiacchite e indifferenti a ogni lavoro, io dico: figliole care, le terre lungamente soleggiate, che non conoscono le pioggie, inaridiscono: il dolore è il grande, benefico fecondatore dell’anima; il grande ispiratore di ogni più alta poesia, il grande eccitatore d’ogni più santo eroismo. Ma perchè ciò sia, non dobbiamo lasciarlo colar lento sin nel profondo del nostro essere e impietrirvisi a chiudere ogni fonte di energia.
Ricordate il Pascoli? la sua giovinezza conobbe un’orribile tragedia domestica, eppure «l’uomo che da quel nero ha oscurata la vita, chiama e benedice la vita che è bella, tutta bella». Ma soggiunse: «se noi non la guastassimo a noi e agli altri».
Sì, figliole, la vita è seminata di molte gioie, e sta a voi di raccoglierle. Le testine dritte, il cuore in alto, andate incontro all’avvenire, belle di quella serenità che rivela la purezza dei vostri ideali. E chiedete all’attività varia, geniale e instancabile, la salute del corpo e dello spirito.
Mani e cervello lavorino; lavorino il cuore e lo spirito per casa vostra, per gli altri fuori, e come ogni umore malsano esce dal corpo col movimento, così ogni morbosità se ne andrà dall’anima vostra col lavoro.
E scrivete sul vostro taccuino queste parole che un giorno mi disse un giovane di molto ingegno e di mirabile attività e abnegazione, che a ventitrè anni rimase unico aiuto di una numerosa famiglia: «I fastidi e i crucci in un uomo attivo sono come il nevischio sul mantello di chi cammina lesto: non vi si fermano».
Era l’onorevole Raimondo.