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Le murate di Firenze Cap. XXVI: Un sogno
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al molto reverendo d. marco scaletti

PRIORE A RAPALE



Carissimo amico,


Quando mi faccio a considerare il carattere dell’uomo, col quale ho dovuto misurarmi, mi persuado che quel poco che ho potuto ottenere è una decisa vittoria. Tu non puoi credere quanto abbia dovuto arzigogolare, quanto importunare, tempestare, perchè l’amico mi consenta la stampa del sogno, che qui presso leggerai.

Dietro quanto tu mi avevi a voce conferito, appena seppi che il nostro amico era stato rilasciato libero, andai in traccie di lui, e trovatolo, coll’ansia di chi ricovera un oggetto carissimo, me lo serrai al petto, e gli feci scoppiare sul viso un così sonoro bacione, che glie ne rimase ben spiccata la rosa.

La sincera e franca amicizia presto si spaccia dei convenevoli; noi li avemmo quindi tosto esauriti. Entrai senz'altro in materia, e:

— Amico, gli dissi, io so che durante la tua prigionia tu hai scritto molto. [p. 4 modifica]— Il bisogno fa trottar la vecchia, mi rispose; non so scrivere, ma rinchiuso in una angusta cella, solo e per quarantun mesi, bisognava farne un po’ di tutto per non morir di noia; quindi ho anche scritto. Ebbene! a che mira questo tuo discorso?

— È facile indovinarlo, voglio leggere quello che hai scritto.

— Hai tu commesso qualche peccataccio massiccio?

— Perchè?

— Perchè ti sento disposto a rigidamente penitenziartene.

— Meno discorsi! mi fai vedere i tuoi scritti?

— Come ti piace! dimattina te li porterò fino a casa.

Fu preciso; la mattina poi venne a casa mia con un fascio di fogli, li depose sul buffetto del mio studiolo, e colla solita sua giovialità:

— Eccoti servito! mi disse; io ti proclamerò martire quando mi giurerai di averli scorsi tutti. Frattanto io ti lascio; ho promesso a diversi miei amici di far loro una visita appena fatto libero, e per esser puntuale partirò oggi alla volta di Faenza; di là passerò a Ferrara, e fra quindici o venti giorni, per la parte di Bologna ritornerò in Firenze. Ci rivedremo allora; addio.

Ebbi un abbraccio e partì. Tu mi avevi detto di aver veduto almeno cinquanta fogli ben grandi scritti da capa a fondo di un carattere piuttosto minuto; ma sappi che invece di cinquanta io mi viddi innanzi sopra 250 fogli, della grandezza da te indicata, schiccherati tutti, quanto son lunghi e larghi nelle loro quattro faccie, di un carattere, che non è certamente notariesco. Come puoi figurarti, rimasi sorpreso, e sebben sappia che l’amico scrive con molta facilità, non m’attendeva tanto lavoro da un uomo che di tutto si [p. 5 modifica] stanca, e ad ogni ora vuol mutare occupazione. Non ci voleva meno che un carcere così prolungato per aver tanto da lui.

Cominciai subito a leggere, e bastò cominciare perchè mi sentissi tirato a dedicare alla lettura di questi scritti tutto il maggior tempo di cui potessi disporre. La varietà delle descrizioni, l’amenità dei racconti, la piacevolezza dei dialoghi, sono pascolo così ghiotto alla dilettazione e alla curiosità del lettore, che quanto più legge, tanto più agogna di leggere.

L’opera ha le forme precise del romanzo, colla sola differenza che i fatti esposti, i racconti narrati non sono ghiribizzi e invenzioni di fantasia, ma cose tutte veramente e realmente accadute.

Due scopi si è proposto l’amico nei suoi scritti: l’uno di mostrare quanto siano vani e insufficienti gli sforzi della filosofia filantropia, che si argomenta di ottenere la riforma dei carcerati sottoponendoli piuttosto a un dato sistema di reclusione, che a un altro, niente curandosi poi, o almeno pochissimo occupandosi della loro morale e religiosa istruzione; l’altro di far conoscere quanto sia stata iniqua, ingiusta e vergognosa la persecuzione e la condanna che dovè esso soffrire.

La parte precipua del suo lavoro è diretta al primo scopo, e negli argomenti che egli discute, la ragion filosofica è sempre e così validamente ravvalorata e confermata dai molti fatti che esso durante la sua prigionia ha personalmente esaminati e conosciuti, che ogni suo asserto è provato con una evidenza che non ammette replica.

L’altra parte, che discorre la sua difesa, è a parer mio il meglio dell’opera, il fiore della pianta, la gemma del monile; sia che l’amico abbia atteso a questa [p. 6 modifica]parte con maggiore studio e diligenza, sia che la natura delle cose in questa esposte più vivamente feriscano e ricerchino il cuore del lettore, certo è che se la prima lo diletta, questa lo sodisfa meglio, e nulla lascia a desiderare.

Un sacerdote arrestato in chiesa, poco men che coll’ostia consacrata in mano, incatenato e guardato come un infame assassino, e senza alcun riguardo tradotto in carcere, non già perchè reo di qualche delitto, ma per una semplice misura di polizia; un accusato al quale si diniega e impedisce ogni possibile difesa, e si condanna col deposto apertamente falso e calunnioso di pochi scellerati suoi giurati nemici, già noti al governo per uomini che non conobbero mai nè fede, nè religione, son fatti che di per sè, anche nudi e semplici, commovono a dispetto e a sdegno chiunque li conosce: or pensa qual fremito si susciti nell’anima di chi li legge esposti dalla penna infiammata di uno scrittore che ne fu la parte passiva! L’amico a buon diritto biasima e condanna il governo di Leopoldo, poichè sotto il costui regime noi fummo sgovernati da uomini ignoranti, falsi, prepotenti, che non conobbero nè onestà, nè religione. Leopoldo dormiva sempre, e un principe che dorme non può e non deve lagnarsi se lo scudiscio di Dio lo sferza onde destarlo. Oh qualche volta è necessario che nel mondo avvengano gli scandali!

M’è tardi che quest’opera sia fatta di pubblica ragione, perchè niuno può creder vero ciò che l’amico con documenti irrefragabili costringe a confessare e riconoscere come certissimo. So bene che col mezzo di queste economiche procedure in Toscana avemmo troppo spesso a piangere gravissimi abusi di potere, ma non seppi mai che alcun giudizio di questo genere [p. 7 modifica] fosse condotto in un modo così illegale e vergognoso, che alcuna condanna così apertamente ingiusta fosse inflitta, alcuna persecuzione con un odio così feroce ributtante insaziabile fosse mai promossa e consumata.

Era conveniente e giusto che l’amico rivendicasse il suo onore, e se, come spero, si risolverà a stampare i suoi scritti, anche coloro che s’intestarono a sostenere che quando il lume s’attacca vi deve essere o corda o uncino, toccheran con mano che esso non solo non era colpevole, ma che i giudici stessi che lo condannarono lo reputarono innocente. — Se mi si dice, così scrive l’amico, «io son reo di molti e gravi peccati dinanzi a Dio, chino la fronte e taccio, perché a mio danno e sventura è troppo vero; ma chi mi dice reo dinanzi alla umana giustizia è un mentitore; potrà dirlo sì, ma provarlo mai. Dio ha permesso che io sia umiliato, castigato, svillaneggiato, e non posso rammaricarmene, anzi lo ringrazio, perchè m’ha con questo procacciato un mezzo onde soddisfare, almeno in parte, alla Divina Giustizia, e prestata occasione di riparare al bene e alla salutee dell’anima mia. Ma se benedico alla mano di Dio, che giustamente e saviamente mi ha percosso, non posso approvare, anzi condanno gli uomini che ne furono lo stromento, perchè essi non potevano e non dovevano per giustizia nè condannarmi nè punirmi. Se io ho offeso Dio, non ho però offesi gli uomini, se ho trasgredito la legge divina, ho pienamente e esattamente osservata la legge umana, e la umana giustizia non poteva e non doveva d’alcun modo colpirmi».

Lo dice, e lo prova; e il modo con cui lo prova è così chiaro, così certo, così compiuto, che non gli si può fare opposizione di sorta. [p. 8 modifica]Vorrei dirti qualche cosa di più di questo lavoro, ma neanche con una lettera lunghissima io potrei toccare tutto quel che merita di esser rilevato. Tali opere non si compendiano, per saperne il merito e il pregio bisogna leggerle siccome stanno. Mi limiterò dunque a trascriverti i titoli dei settantaquattro capitolo in cui è l'opera divisa, perchè tu abbia una qualche idea di una parte almeno delle tante e svariate materie che egli ha discorse. Eccoli:

Cap. I. L'appennino.
» II. Il paese di T.
» III. Il cholera nel paese di T. nel 1855.
» IV. Amore.
» V. Lotta e contrasti.
» VI. L'arresto.
» VII. Trentatre ore passate nelle carceri di R.
» VIII. Una brutta domenica.
» IX. Una prigione del Pontassieve
» X. Dal bargello alle Murate.
» XI. Il primo giorno passato alle Murate.
» XII. Il silenzio non si osserva.
» XIII. Il biglietto del Semel.
» XIV. Il mio carattere.
» XV. Cammillo d'Arezzo.
» XVI. Silvio pellico.
» XVII. Il mio esame.
» XVIII. Il senno e la riconoscenza di T.
» XIX. Il Bargello, e la prigione degli Spiriti.
» XX. I primi vantaggi della meditazione.
» XXI. La conversazione
» XXII. La finestra chiusa.
» XXIII. Due vantaggi ottenuti.
» XXIV. Un sogno.
» XXV. Prima veduta nel palazzo della verità.
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» XXVI. Seconda veduta.
» XXVII. Terza veduta.
» XXVIII. Quarta veduta.
» XXIX. Quinta veduta.
» XXX. Sesta veduta.
» XXXI. Ultima veduta e fine del sogno.
» XXXII. Le bravure dei borsaiuoli.
» XXXIII. La scelta di patrocinio e i visitatori.
» XXXIV. I tagliaborse sfringuellano
» XXXV. un Gil-Blas fiorentino.
» XXXVI. Una visita.
» XXXVII. Istruzione religiosa e morale alle Murate.
» XXXVIII. La sentenza di condanna.
» XXXIX. Avvertenze di un avvocato sulla sentenza.
» XL. Riflessioni dell'autore sul primo considerando della sentenza
» XLI. Riflessioni sul secondo considerando.
» XLII. Riflessioni sul terzo considerando.
» XLIII. Riflessioni sul decreto di condanna.
» XLIV. Il decreto di conferma.
» XLV. La cella al numero 36.
» XLVI. Nuovi vicini per poche ore.
» XLVII. Dal numero 36 al numero 34.
» XLVIII. Il piazzaletto numero 6.
» XLIX. La confessione.
» L. Le notti di estate.
» LI. La prima mia malattia.
» LII. Al mondo è raro - Che al dolce non si mescoli l'amaro.
» LIII. I matti delle Murate.
» LIV. Avvenimenti diversi
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» LV. Un'operazione fatta senza aiutanti e senza assistenti
» LVI. Il primo giorno dell'anno 1859.
» LVII. Delle cause di morte nelle carceri delle Murate. - Difetto nell'aria.
» LVIII. Insalubrità e insufficienza nel cibo e nella bevanda.
» LIX. Negligenza e incapacità nel medico.
» LX. Solitudine, disprezzo, abbandono.
» LXI. Il fraticida.
» LXII. I figli del carcere.
» LXIII. I ragazzi all'Ambrogiana.
» LXIV. La cella al numero 40. Bandiere bandieruole e coccarde.
» LXV. Il decredo del Ricasoli.
» LXVI. Gli scienziati delle Murate.
» LXVII. Fine del 1859 e morte di mio padre.
» LXVIII. Speranze fallite.
» LXIX. La cistifellea di Nerone.
» LXX. Una domenica italianissimamente santificata.
» LXXI. Le ultime prove.
» LXXII. Una calzolaio delle Murate ammazza in cella il suo maestro con un colpo di martello.
» LXXIII. Il sacrificio compiuto. - Morte di mia madre.
» LXXIV. Gli ultimi giorni di prigionia, e la libertà.


Io ho accennate le finestre e nulla più, ma per sapere quante stanze v'abbiano dentro, per conoscere la ricchezza delle suppellettili, la rarità e il pregio dei quadri, l'eccellenza dei dipinti, la sontuosità degl'arazzi, e di quanto può stare ad adornare e abbellire [p. 11 modifica]l’interno del fabbricato, bisogna entrar la porta, salir le scale, e tutto attentamente osservare. Tanto potrai fare un giorno, se ci riuscirà a vincere la ritrosia dell'amico, e aver l'opera stampata.

Era scorso già un mese, da che io avevo finito di leggere gli scritti dell'amico, e non lo vedeva ancora, e non riceveva sue lettere. Io era impaziente, smanioso di conoscere qual fosse il suo pensiero intorno a questi scritti, che a quanto appariva dalla prefazione, furon da lui fin da primo destinati alla stampa. Passò qualche giorno ancora e fu di ritorno a Firenze; venne a farmi visita e fu adesso che fra noi ebbe luogo un lungo dibattimento, parte del quale ti scrivo.

— Amico, diceva io, ho letto con gran piacere e soddisfazione il tuo lavoro: bisogna metterlo in pronto per la stampa.
— Ecco fatto! stampare! presto detto, ma sappi caro, che la pazza smania di farmi ridere la non m'è entrata ancora in corpo.
— Dunque tu mi stimi un adulatore, ovver un imbecille?
— Nè l'uno, nè l'altro; ti credo anzi e ti so schietto e molto assennato, ma so insieme che tu mi sei grandemente affezionato, e che hai di me un concetto troppo vantaggioso. I molti difetti del mio scritto, agli occhi di un uomo così prevenuto, appariscono molto minori di quel che sono in realtà, e quel che può esservi di buono raggia di tanto splendore e così spiccato giganteggia, che per molto ed è poco. Prima di mettere un'opera sotto gli occhi del pubblico fa duopo pensarci e pensarci bene.
— Io non pretendo che tu te ne stia al mio giudizio solo; la tua riflessione è giustissima, la prudenza non è mai troppa. Metti in buona forma il tuo lavoro [p. 12 modifica]e lo sottoporremo alla revisione di persona, del giudizio della quale tu dovrai certamenete tener conto, e dirti contento.

— Ma benedetto Dio! non hai veduto che i miei scritti sono tuttora quali li gettò la penna in carcere, e che volendoli rivedere e correggere a modo, bisognerebbe sacrificarsi a faticare assiduamente per qualche mese almeno? E puoi tu credere che uscito ora di carcere io voglia sobbarcarmi a tanto peso? Parlami daltro, fammi piacere!

— Tu corri sempre a precipizio, e voli agl'estremi! Chi ti ha detto di volerti inchiodare in una seggiola da presso un tavolino, finchè non abbia riveduti i tuoi scritti? Questa, ne convenga io pure, sarebbe una barbare pretensione, a me basta che tu dedichi ogni giorno qualche ora a questo oggetto, e son certo che riuscirai a mettere a netto il tuo lavoro più presto che non pensi, poichè, a parer mio, non occorre molto studio per riparare alle leggere mende che vi posson essere, anzi che vi sono. Ma quanno anche si dovesse tardare qualche mese ancora a pubblicarlo, non sarebbe un gran che; dentro l'annata potremmo averlo stampato. Se invece tu cominci a divagarti e a darti bel tempo, addio scritti! niente più facile che tu li ponga in dimenticanza, e rimangan sempre quali or sono sono. Orsù! fa a modo mio, e prometti di occuparti subito di questo fatto.

— Non prometto mai, quando non son sicuro di potere attenere; è questo il mio fermo sistema, tu lo sai; e siccome vedo difficilissimo che io possa ora attendere a questo lavoro, quindi non voglio promettere.

— Ma perchè non puoi attendere a questo?

— Perchè voglio riavermi dalla sofferta prigionia: ho tribolato per 41 mesi nell’angustia di una cella, [p. 13 modifica]dove non poteva dar cinque passi senza intopparmi o nell'uscio o nel muro, e ti par troppo se intendo e procuro ora di poter svolazzare un po' per il mondo libero da ogni impegno e impaccio? Lascia correre qualche tempo e vedremo poi che si possa fare.

— Tu se' sempre quella farfalletta di prima! per farti posare un po non ci voleva che il carcere, e in carcere tu se' stato un altr'uomo; ma sortilo appena, eccoti a batter l'ali, e bravo chi ti piglia. Or via! veniamo a transazione; rivedi per ora quella parte che riguarda la tua difesa, e stampiamo intanto quello; poi a tuo comodo e piacere rivedrai il resto.

— Oh qui poi abbi pazienza, tu la sgarri all'ingrosso! le singole parti dell'opera sono così necessariamente collegate che non se ne può lasciare una, senza che l'altra ne resti monca o guasta. O tutto fuori, o nulla.

— Non sono pienamente del tuo avviso; convengo che volendo disgiungere una parte dall'altra occorresse fare qualche variazione, ma pochi versi aggiunti o tolti in alcuni capitoli, l'una parte potrebbe benissimo star senza l’altra. Tuttavia voglio concederti che non convenga separare le due precipue parti della tua opera, tu non potrai negar però che almeno la descrizione di quel sogno, che dici aver fatto in carcere, possa senza sconcio alcuno esser tolta dall'opera, e separatamente essere stampata.

— Oh questo sì! hai ragione, questo potrebbe stare anche da sè; anzi a parlarti liberamente, ti dirò, che quando mi risolvessi di dar fuori questa mia opera, quel sogno lo leverei affatto; perchè troppo libero e perchè inutile e prepostero in un lavoro di questo genere. [p. 14 modifica]— Tanto meglio! metti dunque in netto almeno questo e concedimi di farlo stampare.

A che mai tanta fretta? lasciami prender fiato, non mi caricare quando a mala pena passo la vita! come sarà venuto il freddo, e ci sarem messi a quartier d'inverno, potremo far qualcosa in proposito, ma ora no!

— Davvero io non credeva di trovarti così ostinato! e dopo i servigi che ti ho resi, mi riprometteva da te più discreta condiscendenza.

Finalmente aveva toccata la corda che rispondeva alla nota; m'accorsi che le ultime mie parole l'avevano ferito; stette alcun tempo silenzioso, gettò su di me uno di quei suoi eloquentissimi sguardi con coi tanto ti dice in un istante, mi prese una mano, se la recò e compresse sui cuore, e cogl'occhi umidi di pianto:

— Amico, disse, il bene che mi hai fatto è profondamente scolpito qui, qui nel mio cuore. Ciò che tu mi chiedi non è la ricompensa che io ti debbo; non si soddisfa con sì poca cosa a debito tanto grave. Spiacemi che tu abbia potuto per un momento solo pensare che io abbia dimenticati i tuoi servigi; se io mi opposi a' tuoi desideri lo feci persuaso di non darti dispiacere, e ben lontano dal sospettare che tu potessi credere il mio rifiuto effetto di ingratitudine. Ora che mi richiedi sotto questo titolo non posso e non debbo fare altre opposizioni; i tuoi desideri mi saranno leggi, comanda, obbedirò.

Io aveva buttate là quelle parole senza considerarle gran fatto; la risposta dell'amico mi fece intendere quanto io fossi stato indiscreto, ingiusto. Conosceva a fondo il di lui cuore, a quelle parole non mi doveano uscir di bocca. Aveva vinto, ma quella vittoria fu per [p. 15 modifica]me una vera sconfitta, e invece che approfittare e valermi della ottenuta resa, io mi sentiva più volentieri disposto ad accettare e subire gli oneri e i sacrifizi del vinto. Mi sforzai di persuadere all’amico che io aveva profferite quelle parole con puerile sconsideratezza; lo pregai a non farne alcun conto, a dimenticarle. — Che se, soggiungeva, io non fossi già da gran tempo certo del delicato e tenero sentire dell’anima tua, oggi me ne avresti data una sicurissima prova, quando ad un semplice accenno fatto al tuo cuore, tu hai creduto subito, e generosamente ti sei detto pronto ad ogni sacrifizio per appagare i miei desiderii. Più che sufficiente ricompensa a quel poco che io ho potuto fare per te, è la carissima tua amicizia, e se a questo ricco dono ti piace aggiungere il gradito regalo di rivedere il tuo sogno, ritoccarlo se ne abbisogna, e permettermi di pubblicarlo, tu mi avrai fatto contentissimo, perchè potrò finalmente veder stampata qualche cosa uscita dalla tua penna.

— Ti vedo così fermo nel proposito di voler dare alle stampe questo strambottolo, che non voglio più contrastartelo. Rivedrò subito questa descrizione, e quanto prima le la rimetterò. Ma intendiamoci bene! la regalo a te, e diventa tua: non voglio dunque che il mio nome vada in mostra; osserva questo e nel rimanente fa che ti piace.

— Il patto sarà tenuto! all’opera!

— Dammi lo scritto.

— Ora si che sei veramennte buono, gli dissi ridendo e consegnandogli i fogli; scherzo vè, tu sei buono sempre.

— Eh già son buono sempre! e appunto perchè buono han tentato di farmi cattivo col tenermi 41 mesi a casa del diavolo. [p. 16 modifica]— Sì, ma si son mangiati l’anima i disgraziati! I tuoi nemici non han conosciuta ancora la tempra dell'anima che ti vive in petto; essi avvisarono che un carcere così lungo o t'avrebbe morto, o fatto impazzare, o spinto a qualche eccesso. Ebbene, ora ti vedranno vivo sano e svelto, e la cristiana rassegnazione, la coraggiosa fermezza, colla quale hai sopportato non solo il carcere, ma una persecuzione la più disonesta, svergognata e bestiale, li persuaderà che le anime generose e cristiane non si lasciano abbatter mai dalle avversità: sono i vigliacchi, gli iniqui che si abbiosciano al primo soffio di vento contrario, si disanimano e disperano quante volte la sventura li preme, il dolore li affligge. Tu non fosti e non sarai mai un vile, le tue azioni lo dimostrarono prima, il tuo carcere lo ha confermato ora         .        .        .        .        .        .        .        .        .        .        .        .        .        .        .         .        .        .        .        .        .        .        .        .        .        .        .        .        .        . Due giorni dopo io era dallo stampatore col sogno già riveduto; ne fissai la stampa e fu stampato.

Ora leggi e giudica se l’amico nostro dovesse poi tanto peritarsi di far pubblici i suoi scritti. Io non sono in grado di farla da giudice in materia di letteratura, ma non so persuadermi che a me abbia a parer bello, e piacer molto, quel che altri vede brutto e cattivo. Non dirò che il modo di scrivere del nostro amico sia netto da ogni vizio, dirò solo che le belle frasi del fiorito nostro idioma non gli sono sconosciute; e quando una giusta e ragionata critica di qualche suo scritto lo richiamasse a più stretta osservanza delle sane leggi estetiche e filologiche, io son d’avviso che gli scritti scritti di questo giovane potessero presto esser letti con piacere, anche dagl'amatori di belle lettere. [p. 17 modifica]Fu per questa ragione che io mi adoprai di avere il mezzo onde rompere il ghiaccio; sia pure che per il primo vada fuori uno scritto che egli non voleva pubblicare, è però anche questo parto della sua penna, e se per esso glie ne verrà qualche lode dai molti che potran saperlo suo, noi avrem fatta scattare una molla che lo stuzzicherà sul vivo, e presto lo deciderà a far di pubblica ragione quei suoi scritti che esso a buon dritto stima di miglior pregio. Intanto è sempre vero che da cosa nasce cosa; il sasso è gettato, vedremo che ne viene.

Nel caso che l’amico facesse a te pure una visita, dagliene anche tu un rifrusto a questo volandolino, e vediamo se tutti d’accordo ci riesce di fermarlo alcun poco, di piegarlo e richiamarlo più maturo senno.

Abbiti un abbraccio e un bacio dal


Firenze, li 9 settembre 1861.


Tuo affez.mo amico


D.C.B.