Le mie prigioni/Cap XX
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Capo XX.
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Ei raccontava questa storia con una sorprendente aria di verità. Io, non potendo crederlo, pur l’ammirava. Tutti i fatti della rivoluzione francese gli erano notissimi; ne parlava con molta spontanea eloquenza, e riferiva ad ogni proposito aneddoti curiosissimi. V’era alcun che di soldatesco nel suo dire, ma senza mancare di quella eleganza ch’è data dall’uso della fina società.
— Mi permetterete, gli dissi, ch’io vi tratti alla buona, ch’io non vi dia titoli.
— Questo è ciò che desidero, rispose. Dalla sventura ho almeno tratto questo guadagno, che so sorridere di tutte le vanità. V’assicuro che mi pregio più d’esser uomo che d’esser re. —
Mattina e sera, conversavamo lungamente insieme; e, ad onta di ciò ch’io reputava esser commedia in lui, l’anima sua mi pareva buona, candida, desiderosa d’ogni bene morale. Più volte fui per dirgli: — Perdonate, io vorrei credere che foste Luigi XVII, ma sinceramente vi confesso che la persuasione contraria domina in me, abbiate tanta franchezza da rinunciare a questa finzione. — E ruminava tra me una bella predicuccia da fargli sulla vanità d’ogni bugia, anche delle bugie che sembrano innocue.
Di giorno in giorno differiva; sempre aspettava che l’intimità nostra crescesse ancora di qualche grado, e mai non ebbi ardire d’eseguire il mio intento.
Quando rifletto a questa mancanza d’ardire, talvolta la scuso come urbanità necessaria, onesto timore d’affliggere, e che so io. Ma queste scuse non m’accontentano, e non posso dissimulare che sarei più soddisfatto di me se non mi fossi tenuta nel gozzo l’ideata predicuccia. Fingere di prestar fede ad una impostura, è pusillanimità: parmi che nol farei più.
Sì, pusillanimità! Certo, che per quanto s’involva in delicati preamboli, è aspra cosa il dire ad uno: «Non vi credo». Ei si sdegnerà, perderemo il piacere della sua amicizia, ci colmerà forse d’ingiurie. Ma ogni perdita è più onorevole del mentire. E forse il disgraziato che ci colmerebbe d’ingiurie vedendo che una sua impostura non è creduta, ammirerebbe poscia in secreto la nostra sincerità, e gli sarebbe motivo di riflessioni che il ritrarrebbero a miglior via.
I secondini inclinavano a credere ch’ei fosse veramente Luigi XVII, ed avendo già veduto tante mutazioni di fortune, non disperavano che costui non fosse per ascendere un giorno al trono di Francia e si ricordasse della loro devotissima servitù. Tranne il favorire la sua fuga, gli usavano tutti i riguardi ch’ei desiderava.
Fui debitore a ciò, dell’onore di vedere il gran personaggio. Era di statura mediocre, dai quaranta ai quarantacinque anni, alquanto pingue, e di fisionomia propriamente borbonica. Egli è verosimile che un’accidentale somiglianza coi Borboni l’abbia indotto a rappresentare quella trista parte.