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dere che foste Luigi XVII, ma sinceramente vi confesso che la persuasione contraria domina in me, abbiate tanta franchezza da rinunciare a questa finzione. — E ruminava tra me una bella predicuccia da fargli sulla vanità d’ogni bugia, anche delle bugie che sembrano innocue.

Di giorno in giorno differiva; sempre aspettava che l’intimità nostra crescesse ancora di qualche grado, e mai non ebbi ardire d’eseguire il mio intento.

Quando rifletto a questa mancanza d’ardire, talvolta la scuso come urbanità necessaria, onesto timore d’affliggere, e che so io. Ma queste scuse non m’accontentano, e non posso dissimulare che sarei più soddisfatto di me se non mi fossi tenuta nel gozzo l’ideata predicuccia. Fingere di prestar fede ad una impostura, è pusillanimità: parmi che nol farei più.

Sì, pusillanimità! Certo, che per quanto s’involva in delicati preamboli, è aspra cosa il dire ad uno: «Non vi credo». Ei si sdegnerà, perderemo il piacere della sua amicizia, ci colmerà forse d’ingiurie. Ma ogni perdita è più onorevole del mentire. E forse il disgraziato che ci colmerebbe d’ingiurie vedendo che una sua im-