Le mie prigioni/Cap LXXXVII

Capo LXXXVII

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Capo LXXXVII.

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In quel deplorabile stato, ei poetava ancora, ei cantava, ei discorreva; ei tutto facea per illudermi, per nascondermi una parte de’ suoi mali. Non potea più digerire, né dormire; dimagrava spaventosamente; andava frequentemente in deliquio; e tuttavia, in alcuni istanti raccoglieva la sua vitalità, e faceva animo a me.

Ciò ch’egli patì per nove lunghi mesi non è descrivibile. Finalmente fu conceduto che si tenesse un consulto. Venne il protomedico, approvò tutto quello che il medico avea tentato, e senza pronunciare la sue opinione sull’infermità e su ciò che restasse a fare, se n’andò.

Un momento appresso, viene il sottintendente, e dice a Maroncelli: — Il protomedico non s’è avventurato di spiegarsi qui in sua presenza; temeva ch’ella non avesse la forza d’udirsi annunziare una dura necessità. Io l’ho assicurato che a lei non manca il coraggio.

— Spero, disse Maroncelli, d’averne dato [p. 297 modifica]qualche prova, in soffrire senza urli questi strazi. Mi si proporrebbe mai?...

— Sì, signore, l’amputazione. Se non che il protomedico vedendo un corpo così emunto, esita a consigliarla. In tanta debolezza, si sentirà ella capace di sostenere l’amputazione? Vuol ella esporsi al pericolo?...

— Di morire? E non morrei in breve egualmente se non si mette termine a questo male?

— Dunque faremo subito relazione a Vienna d’ogni cosa, ed appena venuto il permesso di amputarla...

— Che? ci vuole un permesso?

— Sì, signore. —

Di lì a otto giorni, l’aspettato consentimento giunse.

Il malato fu portato in una stanza più grande; ei dimandò ch’io lo seguissi.

— Potrei spirare sotto l’operazione, diss’egli; ch’io mi trovi almeno fra le braccia dell’amico. —

La mia compagnia gli fu conceduta.

L’abate Wrba, nostro confessore (succeduto a Paulowich) venne ad amministrare i sacramenti all’infelice. Adempiuto questo atto di religione, aspettavamo i chirurgi, e non comparivano. Maroncelli si mise ancora a cantare un inno.

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I chirurgi vennero alfine: erano due. Uno, quello ordinario della casa, cioè il nostro barbiere, ed egli, quando occorrevano operazioni, aveva il diritto di farle di sua mano, e non volea cederne l’onore ad altri. L’altro era un giovane chirurgo, allievo della scuola di Vienna, e già godente fama di molta abilità. Questi, mandato dal governatore per assistere all’operazione e dirigerla, avrebbe voluto farla egli stesso, ma gli convenne contentarsi di vegliare all’esecuzione.

Il malato fu seduto sulla sponda del letto colle gambe giù: io lo tenea fra le mie braccia. Al di sopra del ginocchio, dove la coscia cominciava ad esser sana, fu stretto un legaccio, segno del giro che dovea fare il coltello. Il vecchio chirurgo tagliò tutto intorno, la profondità d’un dito; poi tirò in su la pelle tagliata, e continuò il taglio sui muscoli scorticati. Il sangue fluiva a torrenti dalle arterie, ma queste vennero tosto legate con filo di seta. Per ultimo, si segò l’osso.

Maroncelli non mise un grido. Quando vide che gli portavano via la gamba tagliata, le diede un’occhiata di compassione, poi, voltosi al chirurgo operatore gli disse: [p. 299 modifica]— Ella m’ha liberato d’un nemico, e non ho modo di rimunerarnela. —

V’era in un bicchiere sopra la finestra una rosa.

— Ti prego di portarmi quella rosa, mi disse.

Gliela portai. Ed ei l’offerse al vecchio chirurgo, dicendogli: — Non ho altro a presentarle in testimonianza della mia gratitudine. —

Quegli prese la rosa, e pianse.