Le mie prigioni/Cap LX
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Capo LX.
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A sera venne il soprintendente, accompagnato da Schiller, da un altro caporale e da due soldati, per fare una perquisizione.
Tre perquisizioni quotidiane erano prescritte: una a mattina, una a sera, una a mezzanotte. Visitavano ogni angolo della prigione, ogni minuzia; indi gl’inferiori uscivano, ed il soprintendente (che mattina e sera non mancava mai) si fermava a conversare alquanto con me.
La prima volta che vidi quel drappello, uno strano pensiero mi venne. Ignaro ancora di quei molesti usi, e delirante dalla febbre, immaginai che mi movessero contro per trucidarmi, e afferrai la lunga catena che mi stava vicino, per rompere la faccia al primo che mi s’appressasse.
— Che fa ella? disse il soprintendente. Non veniamo per farle alcun male. Questa è una visita di formalità a tutte le carceri, a fine di assicurarci che nulla siavi d’irregolare.
Io esitava; ma quando vidi Schiller avanzarsi verso me e tendermi amicamente la mano, il suo aspetto paterno m'ispirò fiducia: lasciai andare la catena, e presi quella mano fra le mie.
— Oh come arde! diss’egli al soprintendente. Si potesse almeno dargli un pagliericcio! —
Pronunciò queste parole con espressione di sì vero, affettuoso cordoglio, che ne fui intenerito.
Il soprintendente mi tastò il polso, mi compianse: era uomo di gentili maniere, ma non osava prendersi alcun arbitrio.
— Qui tutto è rigore anche per me, diss’egli. Se non eseguisco alla lettera ciò ch’è prescritto, rischio d’essere sbalzato dal mio impiego. —
Schiller allungava le labbra, ed avrei scommesso, ch’ei pensava tra sé: — S’io fossi soprintendente, non porterei la paura fino a quel grado; né il prendersi un arbitrio così giustificato dal bisogno, e così innocuo alla monarchia, potrebbe mai riputarsi gran fallo.
Quando fui solo, il mio cuore, da qualche tempo incapace di profondo sentimento religioso, s’intenerì e pregò. Era una preghiera di benedizioni sul capo di Schiller; ed io soggiungeva a Dio: — Fa ch’io discerna pure negli altri qualche dote che loro m’affezioni; io accetto tutti i tormenti del carcere, ma deh, ch’io ami! deh, liberami dal tormento d’odiare i miei simili!.
A mezzanotte udii molti passi nel corridoio. Le chiavi stridono, la porta s’apre. È il caporale con due guardie, per la visita.
— Dov’è il mio vecchio Schiller? diss’io con desiderio. Ei s’era fermato nel corridoio.
— Son qua, son qua, rispose. —
E venuto presso al tavolaccio, tornò a tastarmi il polso, chinandosi inquieto a guardarmi, come un padre sul letto del figliuolo infermo.
— Ed or che me ne ricordo, dimani è giovedì! borbottava egli; pur troppo giovedì!
— E che volete dire con ciò?
— Che il medico non suol venire, se non le mattina del lunedì, del mercoledì e del venerdì, e che dimani pur troppo non verrà.
— Non v’inquietate per ciò.
— Ch’io non m’inquieti, ch’io non m’inquieti! In tutta la città non si parla d’altro che dell’arrivo di lor signori: il medico non può ignorarlo. Perché diavolo non ha fatto lo sforzo straordinario di venire una volta di più?
— Chi sa che non venga dimani, sebben sia giovedì? —
Il vecchio non disse altro; ma mi serrò la mano con forza bestiale, e quasi da storpiarmi. Benchè mi facesse male, n'ebbi piacere. Simile al piacere che prova un innamorato, se avviene che la sua diletta, ballando, gli pesti un piede: griderebbe quasi dal dolore, ma, invece, le sorride, e s’estima beato.