V - A bordo del Condor

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IV VI


A bordo del Condor.


Era appena spuntata l’alba, quando Holker entrò nella stanza del suo antenato e del signor Brandok, gridando: — In piedi miei cari amici!... Il mio Condor ci aspetta dinanzi alle finestre del salotto e l’hôtel ci ha già mandato il tè.

Non ci volevano che le parole — ci aspetta dinanzi alle finestre — per far balzare giù dal letto il dottore ed il suo compagno.

— L’automobile davanti alle finestre! — avevano esclamato, infilando i calzoni.

— Vi sorprendete?

— A che piano siamo? — chiese Brandok.

— Al diciannovesimo. Si respira meglio in alto ed i rumori della via giungono appena.

— Allora che automobile è la vostra, per salire a simile altezza?

— Lo vedrete; sbrigatevi, amici, perchè ho desiderio di condurvi stamane fino alle cascate del Niagara, per mostrarvi i colossali impianti elettrici che forniscono la forza a quasi tutti gli stabilimenti della Federazione. Prima andremo a vedere la stazione ultrapotente di Brooklyn, dovendo dare mie notizie al mio amico marziano. Quel brav’uomo deve essere un po’ inquieto pel mio lungo silenzio e saprà con piacere la notizia della vostra risurrezione.

— Come! — esclamò Toby. — Tu lo avevi informato che un tuo antenato dormiva da cento anni?

— Sì, zio — rispose Holker. — Ci facciamo di tratto in tratto delle confidenze, perchè siamo legati da una profonda amicizia.

— Senza esservi mai veduti? — esclamò Brandok.

— Dietro alcune mie indicazioni avrà scarabocchiato il mio ritratto.

— E tu? — chiese Toby.

— Ho il suo.

— Come sono dunque gli abitanti di Marte? Somigliano a noi?

— Dalle descrizioni che abbiamo ricevuto da loro, non sono affatto simili a noi; tuttavia in fatto di civiltà e di scienza, sembra che non siano a noi inferiori. Figuratevi, zio, che hanno delle teste quattro volte più grosse delle nostre e che quindi, con un simile sviluppo di cervello, non devono essere più arretrati di noi.

— Ed il corpo?

— I martiani, da quanto abbiamo potuto comprendere, sono anfibi che rassomigliano alle foche, con braccia cortissime, che terminano con dieci dita, e piedi molto grandi e palmati.

— Dei veri mostri, insomma! — esclamò Toby, che ascoltava con viva curiosità quei particolari.

— Non sembra infatti che siano troppo belli — rispose Holker. — Ma andiamo a prendere il tè, o lo troveremo freddo. Riparleremo dei martiani e del loro pianeta quando saremo alla stazione ultrapotente di Brooklyn.

Lasciarono la stanza ed entrarono nel salotto. La piccola ferrovia con un solo vagoncino, stava ferma all’estremità della piastra di metallo. Non fu però quella che attrasse l’attenzione di Brandok e del dottore, bensì un’ombra gigantesca che si agitava dinanzi alle due ampie finestre.

— Che cos’è? — chiesero, slanciandosi innanzi.

— Il mio Condor — rispose tranquillamente Holker.

— Un pallone dirigibile? — chiese.

— No, signori, una macchina volante che funziona perfettamente, dotata d’una velocità straordinaria, tale da poter gareggiare colle rondini ed i colombi viaggiatori. Ve n’erano ai vostri tempi?

— Qualche pallone dirigibile, sempre pericoloso — disse Toby.

— E siccome i palloni causavano troppe disgrazie, noi da cinquant’anni abbiamo abbandonato l’idrogeno per le ali. Prendiamo il tè, poi avrete il tempo di osservare il mio Condor e di vederlo manovrare.

Strappò quasi per forza il dottore e Brandok dalle finestre e trasse dal vagoncino le tazze, la salvietta ed il recipiente contenente la profumata bevanda, nonchè dei biscotti.

— Non siate troppo impazienti — disse. — Bisogna vedere le cose una alla volta o vi affaticherete troppo. Il tempo non ci manca.

Bevettero il tè, bagnandovi qualche biscotto, poi Holker salì sul davanzale che era molto basso e mise i piedi sulla piattaforma della macchina volante su cui erano state collocate quattro comode poltroncine.

Harry, il negro gigante, stava dietro alla macchina, tenendo le mani su una piccola ruota che faceva agire due immensi timoni di forma triangolare, costruiti con una specie di tela lucidissima, montati sopra una leggera armatura di metallo.

Brandok e Toby si erano appena seduti, che il Condor s’innalzò subito obliquamente fino al di sopra delle immense case, descrivendo una serie di giri d’una precisione ammirabile.

Quella macchina, inventata dagli scienziati del Duemila, era davvero stupefacente e, quello che è più, d’una semplicità straordinaria.

Non si componeva che di una piattaforma di metallo che pareva più leggero dell’alluminio, con quattro ali e due eliche collocate le une lateralmente alle altre, tutte di tela, con stecche d’acciaio e una piccola macchina che le faceva agire.

Il gas, come si vede, non vi entrava per nulla; la meccanica aveva trionfato sui palloni dirigibili del secolo precedente.

Toby ed il suo compagno guardavano con stupore quel congegno straordinario che si alzava e si abbassava e girava e rigirava come fosse un vero uccello.

Altri consimili ne volavano in gran numero sopra i tetti dei palazzi, gareggiando in velocità, per la maggior parte montati da signore che ridevano allegramente, e da fanciulli schiamazzanti.

Ve n’erano di tutte le dimensioni: di grandissimi che portavano perfino venti persone, e di piccolissimi, appena sufficienti per due; ed altri formati da sole due ali somiglianti a quelle dei pipistrelli, che reggevano una poltroncina montata da una sola persona e che pure manovravano con non minore precisione e rapidità degli altri.

In alto, in basso, s’incrociavano saluti e chiamate, poi la flottiglia aerea si disperdeva in tutte le direzioni, calando sulle vie, sulle piazze, sulle immense terrazze delle case o fermandosi dinanzi alle finestre od ai poggioli per imbarcare nuove persone. Brandok e Toby erano diventati muti, come se lo stupore avesse paralizzato loro la lingua.

— Non dite nulla, dunque? — chiese finalmente Holker. — Avete perduta la favella?

— Io mi domando se sto sognando — disse Brandok. — È impossibile che tutto ciò sia realtà.

— Mio caro Brandok, siamo nel Duemila.

— Tutto quello che vorrete; eppure stento a persuadermi che il mondo, in soli cent’anni, sia così progredito. Trasformare gli uomini in uccelli! È incredibile!

— E non vi è pericolo che queste macchine volanti cadano? — chiese Toby.

— Qualche volta succedono degli scontri; le ali si spezzano, le eliche si lacerano e allora guai a chi cade: eppure chi ci bada? Forse che ai vostri tempi non s’urtavano le vecchie ferrovie e le navi? Sono incidenti che non commuovono nessuno.

— Che macchine sono quelle che fanno agire le ali?

— Macchine elettriche di grande potenza. Come vi ho detto, in questi cent’anni l’elettricità ha fatto dei progressi stupefacenti.

— E quale velocità potete imprimere a queste navi volanti?

— Anche 150 chilometri all’ora.

— Sicchè avete abolito i treni ferroviari? — chiese Brandok.

— Oh no, mio caro signore, non son più quelli che si usavano ai vostri tempi, troppo lenti per noi, ma ne abbiamo ancora moltissimi. Capirete che queste macchine volanti non si possono caricare soverchiamente. Non servono che per divertirsi o per compiere delle piccole corse di piacere. E pei lunghi viaggi attraverso gli oceani anche — proseguì Holker.

— Noi abbiamo dei veri vascelli aerei, che partono regolarmente da tutti i porti dell’Atlantico e del Pacifico e che in trentasei ore vi sbarcano in Inghilterra, ed in quaranta nel Giappone o nella Cina o nell’Australia.

— Non vi sono più navi sui mari?

— Oh sì, ne abbiamo ancora; ma non sono più quelle che si usavano nel secolo scorso. Ne vedrete molte quando attraverseremo l’Atlantico. Ho pensato anzi di lasciare alle cascate del Niagara il mio Condor e di condurvi a Quebec colla ferrovia canadese, per imbarcarvi poi di là per l’Europa.

— Mio caro nipote, — disse Toby — tu trascuri i tuoi affari; suppongo che avrai qualche occupazione.

— Sono medico nel grande ospedale di Brooklyn; per ora non si ha bisogno di me, avendo io due mesi di vacanza.

— Anche tu dottore! — esclamò Toby.

— Che farà una ben meschina figura dinanzi all’uomo che ha fatto una così grande scoperta.

— Ne sarai l’erede — disse Toby.

In quel momento il Condor si abbassò bruscamente su una vasta piazza brulicante di gente che pareva impazzita.

— Che cosa accade laggiù? — chiese Brandok, che si era curvato sul parapetto della piattaforma.

— È la piazza della Borsa — rispose Holker.

— Sembra che quegli uomini abbiano il fuoco addosso. Vanno e vengono quasi correndo.

— E anche la gente che si affolla nelle vie vicine pare che cammini sui tizzoni — disse Toby.

— Eppure non saranno borsisti quelli là.

— Camminavano diversamente cent’anni fa? — chiese Holker, con una certa sorpresa.

— Erano molto più calmi gli uomini, mentre ora vedo che perfino le signore marciano a passo di corsa, come se avessero paura di perdere il treno.

— Io ho sempre veduto, da quando son venuto al mondo, correre così frettolosamente.

— Ah! Ora comprendo, — disse Toby. — È la grande tensione elettrica che agisce sui loro nervi.

Il mondo è impazzito o quasi.

— Harry, — disse Holker — muovi verso Brooklyn.

Il Condor s’alzò d’un centinaio di metri e si slanciò verso l’est con una velocità di cinquanta chilometri all’ora.

Vie immense apparivano sotto agli aeronauti, se così si potevano chiamare, fiancheggiate da palazzi mostruosi di venti, venticinque e perfino di trenta piani, che dovevano contenere migliaia di famiglie ciascuno, la popolazione di un villaggio. Mille fragori salivano fino agli orecchi dei due risuscitati, prodotti chissà da quali macchine gigantesche: fischi, colpi formidabili, detonazioni, scoppi, e si vedevano, lungo le pareti e sulla cima di colonne di ferro, roteare con velocità straordinaria delle macchine volanti di dimensioni mai viste.

— Che cosa fanno laggiù? — chiese Brandok.

— Sono officine meccaniche — rispose Holker.

— Chissà quante migliaia di operai lavoreranno là dentro!

— Vi ingannate, mio caro signore; gli operai oggidì sono quasi scomparsi. Non vi sono che dei meccanici per dirigere le macchine. L’elettricità ha ucciso il lavoratore.

— Cosa è avvenuto di quelle masse enormi di lavoratori che esistevano un tempo?

— Sono diventati pescatori ed agricoltori; il mare e le campagne a poco a poco hanno assorbito gli operai.

— Sicchè non vi saranno più scioperi?

— È una parola sconosciuta.

— Ai nostri tempi si imponevano, e come! Specialmente dopo l’organizzazione fatta dal grande partito socialista. Che cosa è avvenuto anzi del socialismo? Si prediceva un grande avvenire a quel partito.

— È scomparso dopo una serie di esperimenti che hanno scontentato tutti e contentato nessuno. Era una bella utopia che in pratica non poteva dare alcun risultato, risolvendosi infine in una specie di schiavitù. Così siamo tornati all’antico, e oggidì vi sono poveri e ricchi, padroni e dipendenti come era migliaia d’anni prima, e come è sempre stato dacchè il mondo cominciò a popolarsi. Qualche colonia tedesca e russa sussiste nondimeno ancora, composta da vecchi socialisti che coltivano in comune alcune plaghe della Patagonia e della Terra del Fuoco, ma nessuno si occupa di loro, nè hanno alcuna importanza, anzi, vanno scomparendo poco a poco.

— Il ponte di Brooklyn! — esclamò Brandok. — Lo riconosco ancora. Ha dunque resistito fino ad oggi?

— Già, sono più di centoventi anni che è lì. Gl’ingegneri dei vostri tempi erano buoni costruttori — disse Holker.

— Come è diventato immenso quel sobborgo! — esclamò il dottore guardando con ammirazione la distesa di palazzi immensi che si estendeva a perdita d’occhio.

— Quattro milioni di abitanti — disse Holker. — Ormai gareggia con Nuova York.

— E Londra che cosa sarà mai?

— Una città di dodici milioni.

— E Parigi?

— Una metropoli sterminata, più grossa ancora. Harry, va diritto alla stazione ultrapotente.

Il Condor, oltrepassato il ponte, aveva affrettato il volo.

Anche di sopra all’antico sobborgo di Nuova York si vedevano volteggiare un gran numero di macchine volanti, cariche di persone che si dirigevano per lo più verso l’Hudson o verso il mare.

Il Condor, dopo essere passato sopra la città, si diresse verso una piccola altura su cui si vedeva ergersi una torre immensa munita sulla cima di un’antenna smisurata, che pareva un cannone mostruoso minacciante il cielo.

— La stazione ultrapotente — disse Holker. — Vedete là a fianco della torre anche un tubo lucente, di dimensioni pure enormi?

— Sì, e cos’è? — chiese Toby.

— È il più grande cannocchiale che esista al mondo.

— Deve essere immenso.

— È lungo centocinquanta metri, signori miei, una vera meraviglia che permette di vedere la luna ad un solo metro di distanza.

— Sicchè voi avete realizzato l’antico sogno dei nostri astronomi.

— Ah! Anche i vostri scienziati hanno tentato di avvicinare di tanto il nostro satellite?

— Sì, nipote mio, — rispose Toby — e senza riuscirvi. Sicchè ora la luna è ormai conosciuta minutamente?

— Conosciamo anche le sue più piccole rocce.

— È popolata?

— È un corpo spento, senz’aria, senz’acqua, senza vegetazione e senza abitanti.

— Già, anche i nostri astronomi l’avevano supposta così.

— E Marte a quanta distanza lo vedete col vostro cannocchiale? — chiese Brandok.

— A soli trecento metri.

— Che meraviglie!

— Adagio, Harry, scendi piano.

Il Condor aveva superata una vasta cinta che circondava la stazione e scendeva dolcemente, descrivendo delle curve allungate.

Alle otto del mattino s’adagiava a trenta metri dall’enorme telescopio.