Le confessioni/VI
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | V | VII | ► |
VI.
Mentre cercavo la risposta al problema della vita, provavo esattamente lo stesso sentimento che prova l’uomo che s’è smarrito in una foresta: sbocca in una radura, s’arrampica sopra un albero, vede distintamente degli spazî infiniti, ma si rende conto che non vi sono case, che non possono esservene; allora si immerge nel più fitto del bosco, ove non vi son che tenebre, senza nessun asilo.
Errai così nella foresta delle scienze umane, fra le luci delle scienze matematiche e sperimentali che mi scoprivano degli orizzonti rischiarati, ma senza rifugio alcuno, e nelle tenebre delle scienze speculative, che divenivano tanto più fitte quanto più mi ci immergevo, fin che fui infine convinto che non v’era uscita e che non poteva esservene.
Studiando i lati più chiari della scienza, avevo compreso che mi scostavo dalla questione. Quantunque l’orizzonte che si svolgeva ai miei occhi fosse attraente e luminoso, quantunque fosse piacevole per me l’immergermi nell’infinito di queste scienze, ciononostante capivo che queste scienze m’erano tanto più chiare quanto meno m’erano necessarie e meno rispondevano alla questione.
«Ebbene! mi dicevo, so tutto ciò che la scienza vuol sapere così ostinatamente, ma la soluzione al problema del senso della vita non vi si trova». Nel campo speculativo, nonostante o precisamente perchè lo scopo questa scienza è di dare una risposta alla mia domanda, compresi che non esisteva altra risposta, di quella che m’ero data: «Qual è il senso della mia vita?» «Il nulla.» Oppure: «Che cosa risulterà dalla mia vita? — Nulla.» O: «Perchè tutto ciò che esiste, esiste, e perchè esisto io? — Perchè tutto ciò esiste.»
Da certi rami della scienza umana ricevevo un’infinita quantità di risposte esattissime su ciò che non chiedevo: sulla composizione chimica delle stelle, sul movimento del sole verso la costellazione d’Ercole, sulle origini delle specie e dell’uomo, sulle forme delle parti infinitamente piccole e imponderabili dell’etere. Ma alla mia domanda circa il senso della vita in questo dominio delle scienze, io non ottenevo che questa risposta: Tu sei ciò che tu chiami la tua vita, sei una riunione provvisoria, casuale di molecole; l’azione reciproca di queste molecole le une sulle altre, le loro modificazioni, producono in te ciò che tu chiami vita; questa riunione si manterrà per un po’ di tempo; poi l’azione reciproca di queste parti cesserà e con essa cesserà ciò che tu chiami vita e tutte le tue domande. Tu sei una piccola massa formata per caso, e la fermentazione di questa massa si chiama vita. La piccola massa scomparirà, la fermentazione si arresterà e con essa tutte le domande.
Così rispondono le scienze positive, e non possono rispondere nulla di più, senza allontanarsi dalle loro basi. Ma questa risposta non è la risposta alla mia domanda. Io ho la necessità di sapere in che cosa consista il senso della mia vita; il fatto di essere una parte dell’infinito non le dà senso, anzi distrugge tutto il senso possibile.
Altrettanto vaghe sono le risposte fornite dalla scienza speculativa, la quale dice che il senso della vita consiste nello svolgimento e nella contribuzione a quello svolgimento. Queste risposte sono troppo inesatte e troppo vaghe per essere considerate come tali.
D’altra parte la scienza speculativa, quando si attiene strettamente alle sue basi e risponde direttamente alla questione, dà sempre e dappertutto la stessa risposta: il mondo è qualche cosa d’infinito ed incomprensibile; la vita umana è una parte di questo incomprensibile tutto.
Di nuovo io lascio da parte tutti questi accomodamenti tra le scienze speculative e le scienze sperimentali, che formano il bagaglio delle mezze scienze che si dicono giuridiche, politiche e storiche. Anche in queste scienze si introduce a torto il concetto di svolgimento e di perfezionamento, con la differenza che nelle scienze speculative lo svolgimento è lo svolgimento del tutto, mentre nelle mezze scienze è soltanto lo svolgimento della vita umana. L’irregolarità è la stessa: lo svolgimento, la perfezione nell’infinito non può aver nè scopo nè direzione e non risponde a nulla. Nel punto in cui le scienze speculative sono precise, nella vera filosofia — non in quella che Schopenhauer chiama la filosofia professorale, la quale non serve che a classificare tutti i fenomeni esistenti in nuove caselle filosofiche, dando loro dei nomi nuovi — quando il filosofo non perde di vista la questione essenziale, la risposta è sempre la stessa, ed è data da Socrate, Schopenhauer, Salomone e Budda.
«Noi non ci avviciniamo alla verità che in quanto ci allontaniamo dalla vita» dice Socrate preparandosi a morire. «Perchè noi, che amiamo la verità, aspiriamo alla vita? Per sbarazzarci del nostro corpo e di tutto il male generato dalla vita corporea. Se è così, perchè non ci rallegriamo quando la morte viene a noi? Il saggio, durante tutta la sua vita, cerca la morte; per questo la morte non lo spaventa.»
Ed ecco ciò che dice Schopenhauer: «Avendo compresa l’essenza intima del mondo come una volontà, e in tutti i fenomeni, dalla tendenza incosciente delle forze oscure della natura fino all’attività pienamente cosciente dell’uomo, non avendo compreso che l’attuazione di questa volontà, non potremo evitare la seguente conseguenza: con la libera negazione, con la distruzione della volontà, spariranno anche tutti questi fenomeni, questa precipitazione continua e l’attrazione senza scopo nè riposo, per tutti i gradi della realtà nella quale e con l’aiuto della quale esiste il mondo. La diversità delle forme successive scomparirà, come tutti i fenomeni con le loro forme generali, lo spazio e il tempo, e finalmente l’ultima forma fondamentale: il soggetto e l’oggetto. Se non v’ha volontà, non v’ha rappresentazione, non v’ha universo. Davanti a noi non resta nulla, senza alcun dubbio. Ma ciò che s’oppone a questo passaggio nel nulla — la nostra natura — è appunto questa stessa volontà dell’esistenza (Wille zum Leben) dalla quale noi dipendiamo come il nostro mondo. Il fatto che abbiamo tanta paura del nulla o, ciò ch’è lo stesso, che teniamo tanto alla vita, significa soltanto che noi stessi non siamo nulla se non questo desiderio di vivere e che non sappiamo nulla di più. Ecco perchè, dopo l’annientamento assoluto della volontà, per noi che siamo ancora pieni di volontà, non rimarrà senza dubbio nulla. E per coloro la volontà dei quali s’è trasformata e s’è negata essa stessa, il nostro mondo reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, non è che il nulla».
«Vanità delle vanità, dice Salomone, vanità delle vanità, tutto è vanità! Che vantaggio ricava l’uomo da tutto il lavoro ch’egli fa sotto il sole? Una generazione passa e l’altra arriva, ma la terra rimane sempre ferma... Ciò che è stato è ciò che sarà, ciò che è stato fatto è ciò che si farà, e non v’ha nulla di nuovo sotto il sole. V’è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo»? È già stato nei secoli che son venuti prima di noi; non si rammentano più le cose che hanno preceduto e, allo stesso modo, non saranno rammentate dai posteri le cose che avverranno fra poco. Io, l’Ecclesiasta, sono stato re su Israele, a Gerusalemme, ed ho applicato il mio cuore a ricercare, a investigar con saggezza tutto ciò che si faceva sotto i cieli, il che è un’inquietante occupazione che Dio ha dato agli uomini affinchè vi si consacrino. Ho guardato tutto ciò che si fa sotto il sole, ed ecco: tutto è vanità e tormento dello spirito... Ho parlato nel mio cuore e ho detto: «Ecco, io son cresciuto in età e in saggezza più di tutti quelli che son stati prima di me a Gerusalemme, e il mio cuore ha visto molta saggezza e scienza, ed ho applicato il mio cuore a conoscere la saggezza e a conoscere gli errori e la follia, ma ho conosciuto che anche questo era un tormento dello spirito, poichè ov’è abbondanza di scienza è anche abbondanza di dolore, e colui che acquista scienza, acquista dolore.
«Ho detto nel mio cuore: Andiamo, voglio provarti ora con la gioia; godi il bene; ma ecco: anche questo è vanità. Ho detto incontrando il riso: È insensato, e incontrando la gioia: A che serve? Ho cercato nel mio cuore il modo di trattarmi delicatamente, di applicarmi alla saggezza e di comprendere che sia la follia; per vedere che cosa è bene gli uomini facciano sotto i cieli, durante i giorni della loro vita. Mi son fatto delle magnifiche cose, mi son fabbricato delle case, mi son piantato delle vigne, mi son fatto dei giardini e degli orti, e vi ho piantato ogni specie d’alberi fruttiferi, mi son fatto delle cisterne per inaffiare il parco con gli alberi, ho preso dei domestici e delle domestiche e ne ho avuti di nati in casa mia ed ho avuto del bestiame grosso e minuto più di quanti furono prima di me in Gerusalemme; ho anche ammassato argento e oro e i più preziosi gioielli dei re e delle provincie; mi son preso dei cantanti e delle cantanti, e le delizie degli uomini, un’armonia di strumenti musicali, anzi parecchie armonie d’ogni sorta di strumenti, mi sono ingrandito ed accresciuto più che tutti quanti furon prima di me a Gerusalemme, e con ciò la mia saggezza è rimasta in me. Infine non ho ricusato ai miei occhi nulla di quanto mi abbiano chiesto e non ho risparmiato gioia alcuna al mio cuore. Ma avendo considerato tutte le opere che le mie mani avevan fatto e tutto il lavoro a cui m’ero sobbarcato per farle, ecco che tutto era vanità e tormento dello spirito, di modo che l’uomo non trae vantaggio alcuno da ciò che è sotto il sole. Poi mi misi a considerare tanto la saggezza che la stoltezza e la stupidità... ma riconobbi pure che la stessa cosa succede a tutti. Ecco perchè dissi nel mio cuore: Mi accadrà come all’insensato: perchè, allora, sono stato più saggio? Ecco perchè dissi nel mio cuore che questo pure era vanità.
«La memoria del saggio non sarà eterna, non più che quella dell’insensato, perchè nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. E perchè il saggio muore come l’insensato? Ecco perchè ho odiato questa vita, perchè le cose che si son fatte sotto il sole mi son spiaciute, perchè tutto è vanità e tormento dello spirito. Ho anche odiato tutto il lavoro che è stato fatto sotto il sole, perchè dovrò lasciarlo all’uomo che verrà dopo di me.
«Che cosa trae l’uomo da tutto il suo lavoro, dal tormento del suo cuore, per cui si affatica sotto il sole? Tutti i suoi giorni non son che dolori e la sua occupazione non gli dà che pena; perfino di notte il suo cuore non può riposare. Anche questa è una vanità. Non è dunque bene per l’uomo che mangi e beva e faccia goder la sua anima de frutto del suo lavoro?...
«Tutto succede egualmente a tutti, la stessa cosa capita al giusto e al cattivo, all’uomo buono, all’uomo puro e all’uomo contaminato, a quello che si sacrifica e a quello che non si sacrifica; il peccatore per questo riguardo è come il giusto, colui che bestemmia come colui che teme la bestemmia. Questa è la cosa più triste fra quante accadono sotto il sole: che una stessa sorte tocca a tutti, ed il cuore degli uomini è riempito di male ed essi hanno delle follie nel cuore durante la loro vita, dopo di che se ne vanno fra i morti. Poichè vi è speranza per tutti quelli che sono fra i vivi, tanto che un cane vivo val più che un leone morto. Certo i viventi sanno che dovranno morire, ma i morti non sanno nulla, non guadagnano più nulla, perchè il loro ricordo è messo in oblio. Così il loro amore, il loro odio, la loro invidia sono periti, ed essi non hanno più parte alcuna al mondo in tutto ciò che si fa sotto il sole.»
Così parla Salomone o colui che ha scritto queste parole.
Ed ecco ciò che dice la saggezza indiana.
Sakia Muni, un giovane principe felice, al quale avevan nascosto tutte le malattie, la vecchiaia e la morte, va a passeggio e incontra un vecchio spaventoso, sdentato, con la bocca piena di bave. Il principe, al quale fino a quel giorno era stata nascosta la vecchiezza, si stupisce e chiede al suo servitore di che si tratta e perchè quell’uomo è in uno stato così miserando e ripugnante. Quando apprende che tale è la sorte di tutti gli uomini, e che egli stesso, giovane principe, sarà un giorno simile a quel vecchio, egli non può proseguir la sua passeggiata e dà ordine di ritornare per poter riflettere a ciò che ha imparato or ora. Si rinchiude e riflette. Trova probabilmente una consolazione qualunque, poichè, nuovamente gaio e felice, si avvia alla passeggiata.
Ma questa volta incontra un malato. Vede un uomo spossato, con gli occhi torbidi, tremante e livido. Il principe, al quale avevan nascosto la malattia, si arresta e chiede di che si tratti. Quando apprende che è la malattia, a cui son soggetti tutti gli uomini e che egli sesso, principe felice e sano, può esserne colpito domani, di nuovo non si sente più attratto dal piacere, ritorna al suo palazzo e ancora cerca la calma. Probabilmente la trova, visto che per la terza volta si avvia alla passeggiata.
Ma questa terza volta gli si offre un nuovo spettacolo. Vede che vien portato qualche cosa: — Che cos’è? — Un uomo morto. — Che vuoi dire morto? domanda il principe. Gli spiegano che morire vuol dire: essere ciò ch’è divenuto quell’uomo. Il principe s’avvicina, solleva il drappo funebre e guarda: — Che avverrà di lui, dopo? domanda il principe.
Gli dicono che verrà seppellito sotto terra.
— Perchè?
— Perchè è certo che non tornerà più vivo e che il corpo andrà in putrefazione.
— Ed è la sorte di tutti gli uomini? Avverrà lo stesso per me? Mi si metterà sotto terra? Andrò in putrefazione e i vermi mi mangeranno?
— Sì.
— Ritorniamo; non voglio più passeggiare e non lo vorrò mai più.
Sakia Muni non può trovar consolazioni nella vita; decide che la vita è il più grande dei mali e, con tutte le sue forze, cerca di liberarsene e di liberarne gli altri, in modo che dopo la morte la vita non si rinnovelli; egli distrugge la vita nella sua stessa radice.
Ecco ciò che dice la saggezza indiana.
Ecco ancora ciò che dice la saggezza umana quando risponde direttamente al problema della vita:
«La vita del corpo è un male e una menzogna: per questo l’annientamento della vita del corpo è un bene, e noi dobbiamo desiderarlo» dice Socrate.
«La vita è ciò che non dovrebbe essere: il male e il passaggio al nulla è l’unico bene della vita» dice Schopenhauer. «Tutto al mondo — stoltezza, saggezza, ricchezza, povertà, gioia, dolore — tutto è vanità e sciocchezza. L’uomo muore e non ne resta nulla. Questo è assurdo» dice Salomone. «Vivere con la coscienza dell’inevitabilità della sofferenza, della decrepitezza, della vecchiaia e della morte è impossibile. Bisogna liberarsi dalla vita, da ogni possibilità di vita» dice Budda.
E ciò che hanno detto questi spiriti forti, milioni e milioni d’uomini simili ad essi l’hanno detto, pensato e sentito. Ed io pure lo penso e lo sento.
Così le mie incursioni nella scienza, non solo non cacciavano la mia disperazione, ma l’aumentavano. L’una non rispondeva affatto al problema della vita; la risposta dell’altra confermava la mia disperazione, dimostrandomi che le conclusioni alle quali ero arrivato non erano il risultato del mio errore o di una disposizione malsana del mio spirito; essa mi confermava che avevo pensato giustamente e che ero giunto alle stesse conclusioni dei più potenti spiriti dell’umanità.
Non si può ingannarsi; tutto è vanità. Felice colui che non nacque mai. La morte è migliore della vita. Bisogna disfarsi della vita.