Le caverne dei diamanti/9. Un cadavere mummificato
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9.
UN CADAVERE MUMMIFICATO
Giunti fuori della caverna, alla luce del sole, ci arrestammo quasi vergognosi di essere fuggiti senza prima aver bene osservato quel nuovo cadavere, che teneva compagnia a quello del povero cafro.
— Io voglio rientrare — disse il signor Falcone, con tono deciso. — Noi siamo stati sciocchi a fuggire, come se avessimo avuto dinanzi un leopardo o un leone.
— Rientrare! — diss'io. — Ed a quale scopo? Cosa importa a noi sapere chi possa essere quell'uomo bianco?
— Ma io penso che potrebbe anche essere quello di mio fratello — riprese il signor Falcone. — Siamo fuggiti così precipitosamente che non ho avuto il tempo di guardare in viso quel morto.
— Allora voi avete ragione — disse Good. — Andiamo a vedere quel povero diavolo che ha avuto la cattiva idea di venire a morire in questa caverna.
Ci facemmo animo e vincendo la nostra ripugnanza, rientrammo nella galleria e ci dirigemmo verso il fondo di quell'enorme spaccatura, la quale era allora così bene illuminata dai raggi obliqui del sole, da poter distinguere senza difficoltà l'oggetto del nostro terrore. Il cadavere di quell'uomo era appoggiato alla parete, su una specie di salita formata da alcune rocce. Era un individuo di alta statura, dai lineamenti energici, con baffi lunghi, grigi ed ancora bene conservati, dalla testa calva e dalla pelle giallastra e secca come quella delle mummie egiziane.
Per vestito non aveva che dei brandelli di stoffa i quali lasciavano vedere parte del corpo. Al collo aveva un crocifisso d'avorio sospeso ad una cordicella e teneva una mano rattrappita, stretta attorno ad uno dei suoi ginocchi ossuti, con una certa posa da far rabbrividire.
— Questo non è mio fratello — disse il signor Falcone, dopo d'averlo esaminato attentamente ed emettendo un lungo sospiro di soddisfazione.
— Chi può essere questo disgraziato smarrito fra queste montagne? — diss'io.
— Chi?... — disse Good, il quale in quel momento s'era bruscamente abbassato per raccogliere una piccola scheggia di legno che si trovava presso il cadavere.
— Voi non lo indovinate adunque?
— No davvero — risposi.
— Ma questo disgraziato deve essere il portoghese Josè da Sylvestra.
— Caro amico, — diss'io, — volete scherzare? Sono ormai trecent'anni che Josè Sylvestra è morto.
— Trecento o quattrocento a me non importa; il tempo ha nulla da fare. A voi, guardate questo pezzetto di legno tagliato in forma di penna.
— E cosa volete concludere?
— Che questo è l'istrumento di cui si è servito il portoghese per tracciare il documento che voi possedete.
— Ma sono tre secoli che è morto, vi dico.
— Mettetene anche quattro se volete, e cosa importa?
«Avete forse dimenticato, amico mio, che ad una temperatura bassissima la carne si conserva indefinitivamente. Fra tremila anni questo cadavere sarà conservato come lo abbiamo trovato oggi, ve lo assicuro.
«Signori miei, ora andiamocene onde non correre il pericolo di tener compagnia, pei tremila anni futuri, a questo povero uomo. Io non mi sento disposto a questo sacrificio, nemmeno voi, suppongo: andiamocene adunque!... »
— Aspettate un momento — disse in quell'istante il genovese, il quale esaminando il cadavere vi aveva scorto sul braccio sinistro, una piccola ferita. — Deve essere da quel forellino che egli ha tratto il sangue per scrivere il documento.
Io nulla risposi: lo stupore mi aveva paralizzato. Presi la scheggia di legno raccolta da Good e che aveva servito di penna al portoghese; il genovese con un colpo secco strappò al cadavere il crocefisso d'avorio, poi uscimmo portando ciascuno di noi un ricordo, lasciando quell'antro dove l'uno vicino all'altro, dormivano il sonno eterno, il nobile lusitano discendente di una illustre famiglia ed il miserabile cafro figlio selvaggio d'una razza degradata.
Quella lugubre ed inattesa scoperta ci aveva per alcuni istanti fatto dimenticare le nostre sofferenze, ma ci aveva però messo in capo delle idee ben tristi.
Avremmo potuto noi sfuggire alla sorte disgraziata che aveva colpito il portoghese? La fame, il freddo, le fatiche ed altri malanni non avrebbero finito col vincere la nostra audacia e le nostre forze?
Per sfuggire a quei pensieri, ci rimettemmo subito in cammino. Veramente eravamo assai affranti e troppo assiderati; pure mettendo un piede dinanzi all'altro, e facendo appello a tutte le nostre forze, verso il mezzogiorno, dopo una lunga discesa, giungevamo sul margine d'una vasta pianura la quale si estendeva dinanzi a noi verdeggiante, fino ad un corso d'acqua.
Guardando in direzione del fiume, scoprimmo degli animali che parevano occupati a dissetarsi.
— Cosa saranno quelle bestie? — chiese il signor Falcone, preparando la carabina.
— Siano anche elefanti, noi andremo a cacciarli — rispose Good. — Io muoio di fame e divorerei perfino un coccodrillo.
— Quegli animali sono delle antilopi — disse Umbopa dopo di averle osservate attentamente.
— Si lasceranno avvicinare? — chiese il genovese.
— Sono molto diffidenti — risposi. — Per poterli accostare bisogna marciare sottovento e con grandi precauzioni e non di rado non si riesce a giungere a tiro nemmeno con queste misure.
— Io però vi dico che possiamo far fuoco restando qui — osservò Good. — I nostri fucili hanno una buona portata.
— Proviamo — disse il genovese.
Ci nascondemmo dietro alcune rocce e mirammo a lungo, con grande attenzione, premendoci di non mancare ai nostri colpi, quindi facemmo fuoco quasi contemporaneamente.
Indovinate quale fu la nostra gioia quando vedemmo uno di quegli animali rizzarsi bruscamente sulle zampe posteriori, quindi stramazzare pesantemente al suolo.
Dimenticammo la nostra debolezza e ci slanciammo in direzione della vittima.
Quell'animale era una splendida antilope azzurra, una specie di cervo non troppo comune nell'Africa meridionale, ma non ci soffermammo a lungo ad esaminarla. Con pochi colpi di coltello la sventrammo e gli strappammo gli intestini ed il cuore il quale era ancora palpitante.
Guardammo con occhi quasi feroci quelle carni, ma esitammo un po', trattenuti solo da uno sciocco ed inopportuno pregiudizio di uomini civili; ci ripugnava mangiare quella carne ancor calda e così, cruda, come fossimo diventati uomini selvaggi.
— Bah! — gridò ad un tratto Good. — Quando si muore di fame, non bisogna essere schizzinosi! Date a me!
Afferrò gl'intestini, li lavò frettolosamente nel fiumicello che scendeva attraverso le rocce, poi addentò ferocemente quel nutrimento ripugnante. Ebbene, lo credereste? Noi lo imitammo quasi subito e divorammo ingordamente quella carne cruda, anzi posso dirvi che la trovammo in quel momento, con tanta fame che ci tenagliava lo stomaco, incomparabilmente squisita.
La fame è la migliore dei cucinieri e noi non potevamo smentire il proverbio.
Quantunque i viveri abbondassero, noi fummo assai prudenti, evitando di rimpinzare lo stomaco con troppa carne, onde non correre il pericolo di fare una indigestione, dopo tanta penuria.
Tagliammo i pezzi migliori dell'antilope per prepararci più tardi dei deliziosi arrosti, poi fortificati da quel pasto e riposati da quella fermata, riprendemmo con maggior lena, ed allegramente, la salita della grande montagna.
— Ditemi — mi chiese ad un tratto il signor Falcone, dopo alcuni minuti di cammino. — Il documento lasciato dal portoghese non fa menzione d'una grande via?
— Lo credo — risposi.
— Non scorgete nulla lassù?
Alzai gli sguardi e con mia sorpresa scorsi, incassata fra le rupi nevose, una larga linea bianca che si dirigeva verso un gruppo di altre montagne che si disegnavano in lontananza, in direzione del deserto.
— La vedete? — mi chiese il genovese.
— Sì — risposi.
— Che sia la via del portoghese?
— Lo suppongo.
— Cerchiamo di raggiungerla — disse Good. — Ci servirà meglio di guida pel ritorno.
Accettammo il consiglio del tenente e dopo un'ora di marcia assai aspra e faticosa, giungevamo su di una grande e comoda via, rassomigliante ad una di quelle superbe strade costruite dai romani e che dopo tanti e tanti secoli si conservano ancora in ottimo stato.
Potete immaginarvi il nostro stupore nel trovare in un paese così selvaggio dell'Afiica meridionale una simile via.
Cominciammo a salirla senza troppa fatica, essendo, come dissi, assai comoda e dopo qualche po' giungemmo in un secondo altipiano circondato, in lontananza, da altre montagne.
Un grido di stupore sfuggì ai nostri petti, scorgendo dei boschi pittoreschi, dei corsi d'acqua serpeggianti fra opulenti praterie, delle terre che parevano coltivate con grande cura e delle truppe di animali. Non mancavano che delle capanne per completare il quadro.
— Urrah!... — gridò Good, alzando ed agitando trionfalmente le braccia. — Ecco un paesaggio che è molto promettente.
Noi avevamo finalmente attraversata la regione arida. Qua cominciavamo ad incontrare dei cespugli, dei grossi e fronzuti moshoma dal cupo e maestoso fogliame e dei macchioni assai fitti di mimose nilotiche assai spinose e di stinkhout, ossia di legni puzzolenti, così chiamati perché bruciando i rami di quelle piante, tramandano un odore niente affatto piacevole.
Di passo in passo che scendevamo, inoltrandoci attraverso i boschi, la temperatura diventava più dolce, la vegetazione più splendida e più svariata e l'aria che soffiava dal piano ci apportava tratto tratto dei profumi deliziosi che noi aspiravamo con vero piacere.
— Olà, amici — disse Good. — Ora che siamo giunti in questo bel paese, credo che sia giunto il momento di riposarci un po' e prepararci una buona colazione. Avete qualche obbiezione da fare?...
— Nessuna — rispose il genovese. — Un bel pezzo di arrosto lo desidero vivamente, credetelo.
— Allora trasformiamoci in cuochi.
Ci mettemmo a raccogliere frettolosamente dei rami secchi, ed accendemmo un allegro fuoco, mettendo ad arrostire un bel pezzo di antilope infilzato in un bastoncino, come usano i cafri.
I cafri non sono certo i migliori cucinieri del mondo, ma sanno molto meglio di noi trarre partito dalle circostanze, e prepararsi i cibi, sia in pieno deserto che sulla cima delle montagne, senza aver bisogno né di spiedo, né di casseruole.
Questa seconda colazione fu divorata, e, lo credereste? Noi la giudicammo inferiore alla prima. Vedete quali effetti produce la fame!
Calmati gli stiracchiamenti dello stomaco ci credemmo in diritto di fare una bella dormita e ne diedi l'esempio, allungandomi comodamente sotto la fresca ombra d'un fronzuto niawna.
Dopo una dormita di qualche ora, aprii gli occhi e guardai i miei compagni; il signor Falcone e Umbopa mi avevano imitato, ma mi accorsi che Good non era coricato presso di noi.
Lo vidi invece sulla riva d'un ruscello occupato a fare una minuziosa toletta.
Lo vidi spogliarsi degli indumenti, lavarli perbene con cura meticolosa, poi tenderli fra i rami per farli asciugare, quindi passare in rivista i suoi stivali. Poveri stivali! In quale stato erano ridotti dopo tante marce! Good si mise a strofinarli con del grasso d'antilope, poi se li rimise ai piedi.
Ciò fatto estrasse un piccolo rasoio da viaggio e dopo d'averlo affilato sulla pelle ingrassata delle scarpe, si accomodò ai piedi di un albero, cercando di radersi la barba.
L'operazione doveva essere molto ardua a giudicarlo dalle smorfie e dalle contorsioni che faceva; nondimeno egli continuava coraggiosamente nella difficile impresa.
Già si era rasa mezza barba, quando lo udii a gridare:
— Dannato paese! Che non possa fare i miei comodi?
Mi alzai di scatto e vidi presso di lui alcuni negri armati, e che non avevano di certo un aspetto rassicurante.
— Camerati! — gridai. — Aprite gli occhi ed afferrate le armi.
Il genovese ed Umbopa, che dormivano presso di me, non si fecero ripetere il comando.
Balzarono sulle armi e le puntarono risolutamente verso gl'indigeni, minacciando di scaricarle contro di loro.
Quei negri erano dei robusti garzoni vestiti con un semplice sottanino; ciò che attirava la nostra attenzione erano le loro armi, le quali consistevano in lance assai affilate e in certi grandi coltelli che portavano sospesi ai fianchi.
Il signor Falcone prese di mira quei selvaggi, ma essi invece di spaventarsi lo guardarono tranquillamente, seguendo i suoi movimenti senza inquietarsi. Ciò ci fece comprendere che le armi da fuoco dovevano essere a loro sconosciute.
— Camerati, — diss'io, — credo che noi c'intenderemo senza aver bisogno delle armi.
I fucili furono abbassati ed io mi volsi verso quei negri, dicendo in lingua zulù:
— Vi saluto.
Figuratevi la mia sorpresa quando udii uno di quei negri, un bel vecchio e che dall'aspetto mi sembrava un capo, avendo attorno alla testa delle piume, rispondermi nell'eguale lingua e che io compresi facilmente.
— Vi saluto.
Poi dopo d'averci guardato per qualche istante, riprese:
— Chi siete voi? Cosa venite a far qui? Perché le vostre facce sono bianche e perché quella di quell'uomo assomiglia tutta a quella dei nostri fratelli?
Ciò dicendo indicava Umbopa, il quale effettivamente aveva la loro statura ed i tratti del volto quasi eguali.
Mi feci innanzi, dicendo:
— Noi veniamo da lontano, al di là di queste montagne, dalle rive del mar salato e quest'uomo che vi rassomiglia è nostro servo.
— Voi mentite — rispose fieramente il capo. — Non si attraversano impunemente queste montagne che hanno già spento tutti coloro che hanno ardito affrontarle. Ma che importano le vostre parole menzognere? Voi andate incontro alla morte, poiché nessun straniero ha il diritto di venire a calpestare la terra dei koukouana! Seragga, prepara i tuoi coltelli.
— Cosa dice quel vecchio gufo? — gridò Good impazientito.
— Dice che vuol provare il filo dei suoi coltelli sulla nostra pelle, per poi metterci probabilmente allo spiedo.
— Ah! I furfanti credono che noi abbiamo paura dei loro coltelli! Aspettate un po' e vedrete.
Com'era sua abitudine quand'era perplesso, portò la mano alla sua dentiera artificiale e la staccò, facendola cadere sul labbro inferiore.
Quel movimento non isfuggì ai selvaggi, anzi parvero così impressionati da farli recedere di qualche passo.
— Good! — gridò il signor Falcone, il quale vide subito quale partito insperato poteva trarsi da quella dentiera. — Pare che i selvaggi abbiano avuto paura dei vostri denti.
Good comprese di cosa si trattava e con gesto rapido nascose la dentiera in una manica della camicia.
— Aprite la bocca — disse il genovese. — Mostratela a loro senza denti.
Good s'affrettò ad obbedire. A quella vista i selvaggi mandarono un lungo grido di terrore.
— Good! Rimettete i vostri denti! — gridammo.
Il tenente con un gesto rapido che passò quasi inosservato rimise a posto la dentiera e mostrò ai selvaggi quasi stupiti le gengive perfettamente armate.
Lo stupore dei poveri negri non ebbe allora più limiti. Colui che abbiamo udito chiamarsi Seragga si gettò a terra rotolandosi fra le erbe, mentre il vecchio capo e tutti gli altri tremavano così forte, che le loro ginocchia parevano dovessero piegarsi da un istante all'altro.
— Siete voi degli spiriti? — chiese il capo, con voce tremula. — Noi non abbiamo mai veduto degli uomini che si levano i denti e che se li ripongono a posto come fate voi. Se siete degli esseri superiori, vi prego di non far del male alla mia tribù.
— Noi non vi faremo nulla, — diss'io, guardando superbamente quei negri tremanti di spavento, — ma colui che pel primo ardì alzare la sua arma sul capo dell'uomo dai denti mobili, meriterebbe una severa lezione.
— Perdonate a lui — disse il capo. — Egli è il figlio del re, ed io solo sono responsabile delle sue azioni.
— Sta bene, — diss'io, — ma vogliamo darvi ancora una prova della nostra potenza onde impariate a temerci ed a rispettarci meglio. Vedete voi laggiù quell'antilope che pascola sul margine di quel bosco?
— Sì, la vediamo — rispose il capo.
— Ebbene, state ora attenti a quello che succede.
Mi volsi verso il nostro servo, dicendogli con aria minacciosa:
— Cane d'uno schiavo!... Dammi il tubo fiammeggiante.
Umbopa capì cosa volevo fare e s'affrettò a porgermi il fucile.
— Uomini selvaggi — ripresi io, rivolgendomi verso i negri che ci guardavano con crescente stupore. — Ditemi, siete a corto di viveri?
— Perché ci fate questa domanda? — chiese il capo del drappello.
— Perché io voglio regalarvi quell'antilope.
— Ma se è lontana da noi?
— Io la ucciderò egualmente, senza muovermi da qui.
— Ecco una cosa assolutamente impossibile.
— Ma che io farò per darvi un'idea della nostra straordinaria potenza — diss'io. — State attenti e preparatevi a raccogliere la preda.
Mirai attentamente l'animale che pascolava a trecento metri da noi, poi feci fuoco.
I selvaggi, udendo lo sparo caddero al suolo, urlando di terrore, mentre l'antilope, colpita dalla mia palla, stramazzava sul margine del bosco.
— Andate a raccoglierla — diss'io, con una certa impazienza.
Ad un segno del vecchio capo, due uomini, dopo un po' di esitazione, si recarono sul margine del bosco e tornarono portando l'antilope da me uccisa.
— Lo vedete: è morta — diss'io. — Ora se qualcuno di voi dubita della potenza del mio tubo fiammeggiante, vada a porsi nel luogo ove cadde l'animale ed io lo ucciderò senza muovermi da questo posto.
Non sarebbe necessario dire che nessuno dei selvaggi si sentì il coraggio di tentare la prova.
Il figlio del re, colui che avevamo udito chiamare Seragga, si fece innanzi dicendomi:
— Noi crediamo alla potenza del tuo tubo fiammeggiante e non dubitiamo che tu possa uccidere anche un uomo come hai ucciso l'antilope, a meno che mio zio non voglia provarlo.
Il vecchio negro parve offeso da quelle parole:
— No, no — diss'egli vivamente. — Se vogliono fare la prova i nostri stregoni, la facciano pure, ma io non ho alcuna intenzione di parlare colla canna fiammeggiante. Conduciamo questi uomini dal nostro re e là, se qualcuno porrà in dubbio la potenza di quel tubo, ne faranno l'esperimento a loro spese.
Poi avvicinatosi a noi ci diede alcune informazioni sulle loro persone e sullo scopo del loro viaggio. Egli, il vecchio capo, si chiamava Infadou, il re dei koukouana Touala, e Seragga era il figlio del monarca. Si trovavano in quelle pianure per caso, avendo voluto scortare il figlio del re ad una partita di caccia.
— Si trova molto lontano il re? — chiesi io.
— Il suo kraal è situato a tre giornate di marcia — mi rispose il vecchio capo.
— Volete condurci da lui?...
— Se così lo desiderate, noi vi guideremo.
Fece un gesto ad alcuni dei suoi uomini, i quali s'affrettarono ad impadronirsi dei nostri leggeri bagagli non solo, ma anche delle vesti di Good, il quale, come già dissi, era stato sorpreso dai negri mentre stava facendo toletta.
Il tenente si mise a strepitare per avere i suoi calzoni, ma il vecchio negro disse:
— Il signore dai denti mobili, non si inquieti; i miei schiavi porteranno le sue vesti.
— Ma io non voglio camminare senza calzoni!... — gridò Good.
Io ed Umbopa ebbimo un bel tradurre le parole, ma il vecchio capo si limitava a ripetere:
— No, il signore dai denti mobili non s'inquieti e non nasconda agli occhi dei suoi servitori le sue belle gambe bianche.
Intanto durante questa discussione, i negri erano partiti velocemente, portando con loro gli effetti del povero Good.
— Alla malora gli scellerati!... — urlò il povero tenente. — Mi hanno portato via i pantaloni!...
— Calmatevi amico — disse il genovese, ridendo della collera del compagno. — Il prestigio che vi siete procurato colla vostra dentiera, nulla perderà, anzi io credo che aumenterà notevolmente. Guardate che aspetto imponente che avete ora, colla vostra camicia di lana svolazzante, i vostri stivali infilati nelle gambe nude ed il vostro occhialetto!... Siete più magnifico di prima, ve lo assicuro. E poi, di che cosa vi lagnate!... Stimatevi fortunato di avere i vostri stivali e di essere sotto un clima così mite che permette di farne senza dei pantaloni.
— Al diavolo i negri ed i miei pantaloni — brontolò Good, fra il serio ed il burlesco. — Quello che mi secca è di dover presentarmi al re in questo stato poco attraente.