Le caverne dei diamanti/8. L'acqua

8. L'acqua

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7. La traversata del deserto 9. Un cadavere mummificato

8.

L'ACQUA


Mi svegliai dopo un paio d'ore e la gran sete che mi struggeva m'impedì di riaddormentarmi. Aveva sognato di bagnarmi in un ruscello d'acqua limpida le cui sponde fiorite erano ombreggiate da alberi verdi; al risvegliarmi, il sentimento della realtà mi ritornò subito, parendomi ancora più triste. Le ultime parole di Umbopa mi suonavano ancora all'orecchio, come un terribile ritornello: «Trovare dell'acqua o morire!».

Penai molto ad aprire gli occhi stropicciandoli. Potevano essere le quattro del mattino; il giorno veniva, ma nessuna sensazione di frescura m'annunziava il passaggio della notte al giorno, e l'aria era come un vapore d'acqua calda.

I miei compagni, di me più fortunati, dimenticavano nel sonno le loro sofferenze. Svegliatisi finalmente anche loro, tenemmo consiglio sul da farsi.

La situazione era gravissima; non una sola goccia d'acqua; le nostre fiasche erano secche tanto internamente che all'esterno; invano provammo se vi fosse rimasta qualche goccia ancora di quel liquido così prezioso. Il tenente Good estrasse dalla sacca da viaggio la bottiglia d'acquavite e la guardò con occhi ardenti.

— No, no, Good! — gridò il genovese, strappandogliela dalle mani. — L'acquavite in un momento simile sarebbe come del fuoco nelle nostre gole; abbiamo invece bisogno di acqua, o non la dureremo più a lungo.

— Se la carta del portoghese fosse esatta, — diss'io, — dovremmo ben presto trovare la pozza indicatavi.

Questa riflessione non parve ai miei compagni motivo d'incoraggiamento, anzi non vi fecero caso. E veramente da che la carta fu tracciata quanto tempo era trascorso, e quante cose erano succedute!

Ad un tratto Venvogel si alzò e si mise a camminare, cogli occhi attentamente fissi a terra, come se cercasse qualche cosa. Poi s'arrestò di botto e mandando una esclamazione gutturale, indicò il suolo.

— Ebbene! — dissi. — Che c'è di nuovo?

Mi mostrò una piccola pianta verde.

— È lo springbok — disse l'africano. — Questa pianta nasce nelle vicinanze dell'acqua.

— Hai ragione! Siamo salvi; non è possibile che qui presso non si trovi una sorgente qualunque.

Questa debole speranza ci rese un coraggio incredibile ed una indicibile gioia; sapevamo per esperienza quale fiuto posseggono gl'indigeni. Venvogel camminava sempre, scrutando tutti i lati.

— Sento l'acqua, — diceva, — la sento ed è... vicina.

In quel momento il sole si levò. Lo spettacolo era così grandioso, che per qual che poco dimenticammo la nostra sete. A cinquanta o sessanta chilometri lungi da noi, le montagne di Suliman risplendevano come lucido argento.

I raggi del sole illuminarono alcuni istanti quelle imponenti montagne e le oscure masse delle loro falde, poi la nebbia le avviluppò a poco a poco, nascondendole alla nostra vista. Non si vedeva più che alcune linee nere in una nube fioccosa.

Allora ritornammo alla nostra sete o piuttosto la sete ci ritornò.

Venvogel aveva un bel dire: — Sento l'acqua, sento l'acqua! — non se ne trovava.

Anche noi cercavamo senz'altro scoprire che sabbia e cespugli di karou. Facemmo tutto il giro della collina e sempre invano.

— È inutile, la cosa è chiarissima! — dissi. — L'acqua è nelle nubi, e tra qualche settimana essa cadrà a torrenti per lavare le nostre ossa imbianchite!

Il genovese si carezzava malinconicamente la sua folta barba.

— Noi non siamo ancora andati a visitare la cima di questa collina — ci disse.

— Tentiamo, — risposi, — ma se non abbiamo trovato acqua alle falde, non è probabile che ne troveremo lassù.

Per iscarico di coscienza partimmo per esplorare questa collina di sabbia. Umbopa ci precedeva; tutto ad un tratto si volse a noi.

— Eccola, eccola! — ci gridò.

Lascio immaginare ai lettori se fu necessario ripeterci l'avviso. Effettivamente, in una depressione del monticello, si trovava una pozza di acqua salmastra e di dubbiosa apparenza. Non mi incarico di spiegare come e perché quell'acqua si trovasse lì. Credo che quella pozza doveva essere alimentata da una sorgente sotterranea; ma è una semplice mia supposizione. Noi certo non perdemmo tempo ad analizzarla; in un salto ci trovammo tutti, ventre a terra, intorno a quella pozza benedetta, e bevemmo come se fosse il nettare più puro dell'Olimpo. Cielo! Quali delizie! È cosa che non si può immaginare! Calmata la sete, ci strappammo in un batter d'occhio, i nostri abiti e ci tuffammo nell'acqua tiepida. Che bagno! Voi felici mortali che non avete da far altro se non aprire i rubinetti d'acqua calda o fredda a volontà, non sapete né potete comprendere quale refrigerio fu pei nostri corpi disseccati, quel bagno d'acqua, certo non limpida.

Quando fummo sufficientemente rinfrescati e riposati, ci sedemmo intorno a quella fossa, sotto l'ombra protettrice d'una roccia e allora solo ci accorgemmo d'essere affamati. Il biltong che non avevamo toccato da ventiquattro ore ci parve squisito, e, allungandoci sulla sabbia ombreggiata, non tardammo gran tempo ad addormentarci.

Restammo là tutto quel giorno, benedicendo la nostra buona stella che ci aveva guidati proprio al punto voluto, cosa tanto difficile in una distesa di deserto così ampia. E quale riconoscenza dovevamo avere verso quel portoghese che, sulla sua carta, aveva segnalata quella sorgente!

Alla notte, rinforzati e freschi, riprendemmo i nostri bastoni da pellegrini e ci avanzammo senza pena per più di trentacinque chilometri. Di acqua non ve ne era più; ma le nostre fiaschette erano piene, ed avemmo anche la fortuna d'incontrare dei giganteschi nidi di formiche termiti, i quali ci procurarono un po' d'ombra quando il sole si levò.

L'indomani ci trovavamo sulla falda della montagna sinistra, verso la quale eravamo diretti. Sventuratamente, nei due giorni trascorsi, le nostre provviste d'acqua si erano di bel nuovo esaurite. Le torture della sete ricominciavano e non vedevamo il mezzo per arrivare alle nevi che coprivano la vetta.

La base della montagna era formata di lave, questi monti essendo evidentemente vulcani spenti, e quelle lave rendevano molto malagevole il cammino.

So bene che vi sono delle montagne vulcaniche che sono più malagevoli; ma non è perciò meno vero che, stanchi e sofferenti come eravamo, quest'ultima prova ci sfinì interamente. Non potevamo nemmeno più trascinarci su. Una massa di lava attirò i nostri sguardi, e, non so per quale sforzo, facemmo i cento metri che da essa ci separavano. Ci sedemmo all'ombra senza coraggio e senza forza. I nostri sguardi erranti all'intorno, scoprirono una specie di verdura che si estendeva a piccole macchie qua e là. La lava sgretolata aveva formato un po' di terreno su cui gli uccelli avevano probabilmente lasciati cadere dei semi. Questa verdura non ci apporta alcuna consolazione, perché, ammeno per grazia speciale della Provvidenza, come accadde a Nabucodonosor, non si può certo vivere di erba verde.

Mentre queste amare riflessioni, senza portar sollievo alle mie sofferenze fisiche, abbattevano il mio morale, Umbopa faceva il giro delle macchie di verdura che ci circondavano. Ad un tratto, questo indigeno tanto solenne e compassato, si abbassò, rialzandosi tosto con qualche cosa di verde in mano, e gesticolando come un fantoccio, ci fe' segno di correre presso di lui; cosa che facemmo quanto più presto ce lo permisero i nostri piedi addolorati. Speravo avesse trovata dell'acqua.

— Che cosa hai trovato, Umbopa, figlio d'un pazzo! — gli dissi.

— Da bere e da mangiare, Macoumazahne!

E mi presenta una specie di cocomero. Avevamo la fortuna di trovare là un campo di cocomeri selvatici; quelle frutta erano abbondanti e perfettamente mature.

— Dei cocomeri! — gridai ai compagni che mi seguivano.

Non avevo ancora finito di parlare che già la dentiera di Good era piantata in uno di quei cucurbitacei. Mangiammo sul principio senza prender fiato. I cocomeri selvaggi non sono molto saporiti né molto dolci, ma a noi, in quel momento, sembrò di non aver mai mangiato alcun frutto più delizioso.

Calmata la fame e la sete, noi raffinammo le cose, mettendo alcuni di quei cocomeri a rinfrescare. Li tagliavamo per metà ed esponendoli al sole, l'evaporazione li raffreddava.

Quei cucurbitacei sono però così poco nutrienti, che ben presto la fame si fece nuovamente sentire. Il biltong ripugnava ai nostri stomachi affaticati e, d'altra parte ci trovavamo nell'obbligo di economizzarlo; era la nostra unica risorsa, perché non sapevamo quando avremmo potuto rifornire il nostro sacco di provviste. Stavamo cercando con quale altro cibo potevamo surrogarlo, quando uno stormo di uccelli volò dalla nostra parte.

— Tira, baas, tira — disse sottovoce il cafro, gettandosi per terra, esempio che fu subito imitato da tutti.

Vidi che quegli uccelli dovevano passare a cinquanta metri sopra di me. Allora, aspettai che si fossero avvicinati e afferrando la mia carabina, l'armai; gli uccelli si strinsero fra loro, si raggrupparono quasi per offrirmi miglior bersaglio, ed io tirai nella massa. Ne cadde uno molto grosso che pesava forse quindici libbre. Era un'ottarda. Un buon fuoco di sterpi fu tosto acceso, e la nostra selvaggina, sorvegliata dai nostri avidi sguardi, ben presto cominciò ad arrostire. L'operazione seguì a meraviglia; da gran tempo i nostri stomachi non avevano preso parte a simile festino. Non lasciammo altro che le ossa, e non temo di sbagliarmi credendo che questo pasto ci impedì di morire.

Venuta la sera, ripartimmo carichi di cocomeri. L'aria si faceva più fresca ed era per noi un refrigerio. Al levarsi del giorno seguente trovammo altri cucurbitacei, e, siccome ci avvicinavamo alle nevi, così il timore della mancanza d'acqua più non ci allarmò.

Quella sera consumammo quanto ci restava di biltong. Non vedevamo su quel versante alcun essere vivente, né alcuna traccia di corsi di acqua, malgrado la grande quantità di neve; e questo ultimo fatto ci parve ben strano.

Ed ora, dopo di essere sfuggiti ai pericoli della sete, temevamo di morir di fame. Durante i tre giorni che seguirono non trovammo assolutamente nulla.

Nessuna selvaggina abitava quelle solitudini; ed il freddo si faceva sentire tanto più intenso, inquantoché uscivamo allora dalle fornaci del deserto. Le coperte che con tanta fatica avevamo trasportato sino lassù, ci arrecarono grande conforto; come pure l'acquavite, della quale prendevamo qualche sorso di tanto in tanto. Alla notte ci stringevamo l'uno presso l'altro per conservare un po' di calore. Solo Venvogel sopportava il freddo più male di tutti noi.

Un po' prima del tramonto del sole, nel quarto giorno, noi giungevamo esattamente alla base della seconda montagna che si accavallava sopra la prima.

Era altissima, coi fianchi ripidi e coperti dalla base alla cima d'un immenso mantello di neve, che il sole tingeva superbamente di rosso, facendolo vivamente scintillare verso l'ultima vetta, come una corona risplendente posata di fronte al gigantesco picco.

— Ditemi dunque — gridò ad un tratto, Good, arrestandosi bruscamente e volgendosi verso di me. — Il vostro vecchio portoghese non parlava d'una caverna che avrebbe dovuto trovarsi in questi paraggi?

— Così diceva il documento — risposi. — Io però non posso affermarlo.

— Ohe, signor Quatremain — disse il signor Falcone. — Non scoraggiateci prima del tempo, e poi si deve credere al documento del portoghese dopo che ci ha fatto trovare quella pozza. Io vi dico, amici, che noi troveremo infallantemente la caverna.

— Io non chiedo di meglio che di trovarla, — risposi, — solo vi dico che se noi non vi giungiamo questa notte, non avremo di certo bisogno di un ricovero per la notte ventura.

Nessuno rispose alla mia osservazione. Erano tutti convinti della verità delle mie parole.

Avevamo già cominciata la salita, procedendo faticosamente, ed avevamo già raggiunta una certa altezza, quando Umbopa, che camminava presso di me, tenendosi strettamente avviluppato nella coperta, tutto d'un tratto mi prese per un braccio, dicendomi con voce trionfante:

— Guardate laggiù quel buco, padrone.

E così dicendo mi mostrava con una mano una punta dell'alta montagna.

Guardai in quella direzione ed a circa duecento metri da noi, scorsi in mezzo al bianco mantello nevoso un buco oscuro.

— Dev'essere la caverna — disse Umbopa.

— Non si può ingannarsi — aggiunse il tenente Good.

Affrettammo tutti il passo e superate alcune rocce coperte d'un fitto strato di neve, giungemmo ben presto dinanzi a quell'apertura, la quale pareva che conducesse in qualche spaziosa caverna.

Eravamo appena entrati che il sole, già prossimo al tramonto, scomparve dietro l'orizzonte, lasciandoci in una oscurità quasi perfetta.

Sotto quelle latitudini non vi è, si può dire, crepuscolo. Tramontato l'astro diurno, le tenebre piombano di colpo, poiché fra il giorno e la notte non vi è transazione.

Ci inoltrammo con precauzione entro quell'oscura apertura e giungemmo in fondo ad una vasta caverna che pareva fosse alta assai.

Essendo tutti stanchissimi, ci dividemmo gli ultimi sorsi della bottiglia d'acquavite per riscaldarci un po', quindi ci sdraiammo gli uni presso gli altri cercando di addormentarci.

La cosa era più facile a dirsi che a farsi: non ostante la nostra stanchezza, nessuno era capace di chiudere gli occhi in causa del freddo intenso che regnava anche entro quella caverna.

Sentivamo le nostre membra gelarsi una ad una e non riuscivamo a scaldarci nemmeno stringendoci gli uni addosso agli altri.

Io non vedevo il momento che tornasse a sorgere il sole per rimetterci in cammino e rimettere un po' in circolazione il sangue, poiché avevo il timore che qualcuno di noi non potesse risalutare il sole all'indomani.

Qualche volta nondimeno riuscivo ad assopirmi per pochi istanti; mi affrettavo però a svegliarmi, temendo che se mi fossi completamente addormentato non potessi più mai riaprire gli occhi.

Un po' prima che l'alba spuntasse vidi Venvogel che mi stava a fianco appoggiarsi bruscamente contro la muraglia, mandando un sordo rantolo. Avevo udito, tutta la notte, i suoi denti battere e stridere incessantemente; ora non udivo più nulla.

Dapprima credetti che quel povero diavolo si fosse addormentato; ma poi mi nacque il sospetto che il freddo lo avesse intrizzito, sapendo che lo soffriva assai più di tutti noi.

In questo frattempo l'oscurità aveva cominciato a dissiparsi. Dei riflessi d'oro si proiettavano sulla neve facendola superbamente scintillare, mentre il sole si alzava maestosamente sopra la massa granitica delle montagne, mandando i suoi raggi perfino dentro la caverna, a riscaldare un po' i nostri corpi semigelati. Guardai il povero Venvogel e m'accorsi che il disgraziato cafro, invece di esser addormentato, era morto.

La vista di quel cadavere rattrappito, ci fece un tale senso, che ci affrettammo ad allontanarci senza osare di toccarlo.

Stavamo per uscire, quando volgendoci per guardare il fondo della caverna, che la luce del sole a poco a poco invadeva, un grido di terrore ci sfuggì.

All'estremità di quella grotta che si inoltrava nei fianchi della montagna per circa venti piedi, avevamo scorto un altro corpo umano.

La testa di quel cadavere era inclinata sul petto, e le sue lunghe e scarne braccia, pendevano lungo i fianchi.

Io lo guardai un momento, mentre un fremito di terrore invadeva le mie membra, e vidi che quell'uomo era un bianco.

Quell'inatteso spettacolo era troppo superiore alle nostre forze e senza attendere oltre fuggimmo precipitosamente, come se temessimo che quei due morti, il bianco ed il negro, ci inseguissero.