Le avventure d'Alice nel paese delle meraviglie/III

Capitolo III

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CAPITOLO III.


corsa arruffata, e racconto con la coda.


L’assemblea che si riunì alla spiaggia era oltremodo bizzarra — figuratevi, gli uccelli avevano le piume fradice, e gli altri animali avevano il pelo incollato a’ loro corpicciuoli; e tutti erano inzuppati, grondanti acqua, tristi e malcontenti.

Naturalmente la prima quistione che fu posta fu quella di sapere come si sarebbero asciugati: [p. 30 modifica] si consultarono insieme su questo argomento, e pochi minuti dopo Alice si mise a parlare familiarmente con loro, come se li avesse conosciuti da un secolo. Ebbe una lunga discussione col Lori, ma bentosto quest’ultimo le fece un viso arcigno, e disse perentoriamente, “Son più vecchio di lei, perciò devo saper più di lei;” ma Alice non volle convenirne se prima non le avesse detto quanti anni aveva. Il Lori non volle dirlo, e la loro conversazione cessò.

Finalmente il Sorcio, che sembrava essere persona d’una certa autorità fra loro, gridò, “Si seggano signori, e mi ascoltino! Io seccherò tutti in pochi momenti!” Tutti sedettero, in circolo, col Sorcio in mezzo. Alice gli affisò ansiosamente gli occhi in faccia, perchè era sicura che se non si fosse presto rasciugata avrebbe guadagnata una infreddatura solenne.

“Hem!” disse il Sorcio con aria autorevole, “sono tutti all’ordine? Questa domanda è bastantemente secca, mi pare! Silenzio tutti, di grazia! ‘Il Generale Oudinot che venne a restaurare il [p. 31 modifica] governo papale, fu presto secondato dal Re di Napoli, e dalle truppe della Regina di Spagna — — ’”

“Uff!” fece il Lori, con un brivido.

“Scusi!” disse il Sorcio tutto accigliato, ma con molta civiltà: “Diceva qualche cosa?”

“Le pare!” rispose frettolosamente il Lori.

“Mi era parso di sì,” soggiunse il Sorcio. — “Continuo dunque. ‘Il Re di Napoli e la Regina di Spagna, con Oudinot, sposarono la causa del Papa, ed anche il Granduca di Toscana trovò la cosa — — ’”

“Trovò che cosa?” disse l’Anitra.

“ Trovò la cosa,” replicò vivamente il Sorcio: “ella sa che significa ‘la cosa.’”

“Sò bene che significa ‘la cosa’ quando io trovo qualche cosa,” rispose l’Anitra: “generalmente trovo un ranocchio o un verme. Or la quistione stà ‘nella cosa,’ che cosa ha trovato il Granduca?”

Il Sorcio non gli badò punto e si affrettò d’andare innanzi, “— trovò la cosa ben fatta cioè di unirsi ad Oudinot, al Re di Napoli ed alla [p. 32 modifica]Regina di Spagna, per assistere il Papa e rimetterlo sul trono. Nel principio il Papa usò moderazione ma la violenza dei suoi consiglieri — — ’ Ebbene, carina, come si sente ora?” disse, rivolgendosi ad Alice.

“Bagnata come un pulcino,” rispose Alice mestamente, “non mi pare che la sua storiella mi secchi abbastanza.”

“Allora,” disse il Dronte con voce solenne, e levandosi in piedi, “propongo che il parlamento si aggiorni, acciochè sieno adottati rimedii più energici — — ”

“Ma parli italiano!” sclamò l'Aquilotto. “Non capisco la metà delle sue parolone, e forse lei stesso non ne intende cica!” E l’Aquilotto abbassò la testa per nascondere un sorriso, ma alcuni degli uccelli sghignazzarono apertamente.

“Volevo dire,” continuò il Dronte, facendo il broncio, “che il miglior modo di seccarsi sarebbe quello di fare una Corsa arruffata.”

“Che è la Corsa arruffata?” domandò Alice; non le premeva molto di saperlo, ma il Dronte [p. 33 modifica] taceva come se qualcheduno dovesse parlare, mentre niuno sembrava disposto ad aprire becco o bocca.

“Ecco,” disse il Dronte, “il miglior modo di spiegarla è quello di eseguirla.” (E siccome vi potrebbe venire la voglia di provare questa Corsa in qualche giorno d’inverno, vi dirò come il Dronte la diresse.)

Imprima tracciò la linea dello steccato, una specie di circolo (“già, non importa che sia ben tracciata,” disse), e poi tutta la comitiva entrò nello steccato mettendosi chi quà, chi là. Non si udì “Uno, due, tre, — via!” ma cominciarono a correre a piacere, e si fermarono quando n’ebbero voglia, di tal che non si seppe quando la Corsa fosse terminata. Ad ogni modo, dopo che ebbero corso una mezz’ora o quasi, e si sentirono tutti ben seccati, il Dronte sclamò tutt’a un tratto, “La corsa è finita!” e tutti l’intorniarono anelanti, e sclamando, “Ma chi ha vinto?”

Questa domanda impensierì immensamente il Dronte, perciò sedette e restò lungo tempo con [p. 34 modifica] un dito appoggiato alla fronte (tale e quale come è rappresentato Dante), mentre gli altri zittivano. Finalmente il Dronte disse, “Tuttiquanti hanno vinto, e tutti debbon’essere premiati.”

“Ma chi distribuirà i premii?” replicò un coro di voci.

Essa, s’intende,” disse il Dronte, indicando Alice con un dito; e tutti si affollarono intorno a lei, gridando confusamente, “I premii! I premii!”

Alice non sapea che fare, e nella disperazione cacciò la mano in tasca, e ne cavò una scatola di confetti (per buona sorte l’acqua non v’era entrata dentro), e ne distribuì tutt’intorno. Ce ne erano appunto uno per uno.

“Ma essa dovrebbe avere un premio,” disse il Sorcio.

“S’intende,” soggiunse il Dronte assai gravemente. “Che altro ha in saccoccia?” disse, rivolgendosi ad Alice.

“Soltanto un ditale,” rispose mestamente la fanciulla.

“Dia qui,” replicò il Dronte.

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E tutti l’accerchiarono di nuovo, mentre il Dronte con molta gravità le offrì il ditale, e disse, “La preghiamo di accettare quest’elegante ditale;” e appena finito questo breve discorso, tutti applaudirono.

Alice giudicò tutto quest’affare come una cosa [p. 36 modifica] sovranamente stupida, ma avevano tutti un contegno talmente grave ch’ella non osò ridere, pure non seppe che cosa rispondere, ma semplicemente s’inchinò e prese il ditale assumendo la migliore serietà del mondo.

Rimaneva ora il mangiare i confetti; ciò produsse un po’ di rumore e di confusione, poichè gli uccelli grandi si lagnavano che non avean potuto assaporarne il gusto, e gli uccelli piccoli avendoli inghiottiti ne rimasero pressochè strozzati e si dovette loro picchiar la schiena. Ma anche ciò ebbe un termine e sedettero in circolo, pregando il Sorcio di dir loro qualcosuccia di più.

“Si rammenti che mi ha promesso di raccontarmi la sua storia,” disse Alice, “e la ragione per cui odia i ‘G’ e i ‘C’” soggiunse sommessamente, e un poco con paura che di nuovo si offendesse.

“La mia è una storia lunga e trista, e con la coda!” rispose il Sorcio, rivolgendosi con un sospiro ad Alice.

“Certo è una lunga coda,” disse Alice, [p. 37 modifica] guardando con meraviglia alla coda del Sorcio; “ma perchè la chiama trista?” E continuò a pensarvi sopra imbarazzata mentre il Sorcio parlava; e così l’idea che si fece di quella storia con la coda fu presso a poco questa:

Furietta disse
          al Sorcio,
               che in casa
                         avea
                    trovato:
                         Andiamo
                    al Tribunale,
                         ti voglio
                    processare.
               Non chiedo
          le tue scuse,
         o Sorcio
     indiavolato,
          Quest’oggi
               non ho nulla
                    a casa mia
                         da fare. —
                              Disse a
                         Furietta
                    il Sorcio:
               Ma come
          andremo
               in Corte?
                    Senza giurì
                         nè giudici?
                              Sarebbe
                         una vendetta!
                    Sarò giurì
               e giudice,
          rispose
               allor
                    Furietta,
                         E passerò
                              latrando,
                         La tua
                    sentenza
               amorte.


[p. 38 modifica]“Ella non presta attenzione!” disse il Sorcio ad Alice con tuono severo. “A che cosa sta pensando?”

“Le domando scusa,” rispose umilmente Alice: “ella è giunta alla quinta curvatura della coda, non è vero?”

“No, doh!” riprese il Sorcio con voce acerba ed irata.

“Che! c’è un nodo?” sclamò Alice sempre pronta e servizievole, e guardandosi attorno. “Mi conceda il favore di disfarlo!”

“Niente affatto,” rispose il Sorcio, levandosi e in atto di partire. “Lei m’insulta dicendomi tali scempiaggini!”

“No, davvero!” disse Alice con sottomissione. “Ma lei s’offende tanto facilmente!”

Per tutta riposta il Sorcio si mise a borbottare.

“Di grazia, ritorni, e finisca il suo racconto!” Alice dunque lo richiamò; e tutti gli altri sclamarono in coro, “Via, finisca il racconto!” ma il Sorcio crollò il capo con un moto d’impazienza, ed affrettò il passo.

[p. 39 modifica]“Peccato che non sia restato!” disse sospirando il Lori, appena che il Sorcio si perdè di vista; e un vecchio granchio colse quella opportunità per dire alla sua figlia, “Amore mio, ciò ti serva di lezione, e bada a non andar mai in collera!”

“Sta zitto Babbo,” rispose la piccina con un fare sdegnosetto. “Tu provocheresti anche la pazienza d’un’ostrica!”

“Ah se Dina fosse quì!” disse Alice, parlando ad alta voce, ma senza rivolgersi a chi che sia. “Lo porterebbe indietro in un momento!”

“Perdoni la curiosità, chi è Dina” domandò il Lori.

Alice rispose sollecitamente, perchè la era sempre pronta a parlare della sua prediletta: “Dina è la nostra gatta. È un vero paladino quando va a caccia di sorci! E se la vedeste correr dietro agli uccelli! Visti e presi!”

Questo discorso produsse un impressione vivissima nell’assemblea. Alcuni uccelli volarono via di botto: una gazza vecchia si avviluppò ben [p. 40 modifica] bene dicendo, “È ormai tempo di tornare a casa; l’aria della notte mi fa male alla gola!” e un canarino chiamò con voce tremula tutt’i suoi piccini, “Venite, venite carini! Gli è tempo di andare a letto!” E così chi con un pretesto chi con un altro, tutti andarono via, ed Alice rimase sola.

“Ho fatto male di nominare Dina!” disse fra sè assai mestamente. “Ei pare che niuno l’ami quaggiù, eppure la è la miglior gatta del mondo! Oh Dina mia cara! Chi sa, se ti rivedrò mai più!” E la povera Alice rincominciò a piangere perchè si sentiva tutta soletta e sconsolata. Ma alcuni momenti dopo, sentì di nuovo uno scalpiccío in lontananza, e guardò fissamente, nella speranza che il Sorcio avesse mutato pensiero, e tornasse per finire il suo racconto.