Le Perle
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XIX
LE PERLE
AL SIG. BERNARDO CASTELLETTI.
Qual per lo dosso di selvaggio monte
Fra duri bronchi, e fra spinosi dumi
È meraviglia, e non minor diletto,
Veder la neve di bel giglio, o l’ostro
5Fiorir di rosa, in guisa tal non meno
Fassi quaggiuso rimirare un’alma
Agli occhi altrui di gentilezza adorna.
Nasce ad ognora navigante ardito,
Che sospinge le prore oltre Bengala,
10Bramoso d’oro; a lunghe schiere, e folte
Mira di viti inghirlandar Leneo
I biondi crini, e le nevose tempie,
E per le labbra i suoi nettarei fonti:
Grida ogni lingua ove si canti il nome
15Del frodolente Arcier di Citerea,
E s’adora suo stral; ma d’altra parte
Ben è picciolo stuol, che abbia contezza
Delle donzelle del gentil Parnaso;
E pur son Dive, e fan contrasto a morte.
20Chi prende a ripensar, perchè nel cielo
Soffra la Luna senza lume oltraggio?
Perchè le rote luminose affretti
Alcuna volta in suo cammin Piroo,
E talor tardo si conduca a sera?
25Quanti son, che nel cor volgono l’arco
D’Iride bella? ed onde nasca l’ostro,
Che sì la fregia in seno all’aria? e quanti
Amano investigar, perchè sì gonfi
Tanto mugghiando l’Oceàno? o pure
30Il suo confine indi sforzar paventi?
Pochi per certo: e son color che al cielo
Volano sulle piume del pensiero,
Per meraviglia delle cose belle.
Nè da costor tu raggirasti lunge,
35Bernardo, i passi: al tuo gentile ingegno
Appressar non si vide unqua viltate.
Tu dell’Olimpo le bellezze eterne,
Tu l’ornamento degli aerei campi
Vagheggi intento, e tutto ciò che asconde
40Di pregio peregrin la terra immensa
Fai nobile tesor della tua mente.
Tu per gli umidi mondi d’Anfitrite
Vai col pensiero spazïando, e miri
Le ricchezze maggior del gran Nereo;
45Lo splendido vermiglio, onde s’illustra
Il ramoso corallo, alto monile
Sul puro sen dell’amorosa Dori;
E l’amabile perla, a cui non giunge
Altro candor nell’universo, pompa
50Ben singolar delle cerulee Ninfe.
Di questa gemma hai senza forse udito
Parlare i saggi nelle dotte scole;
Ma ciò, che di Parnaso in sulle cime,
E lungo Eurota ne ragioni Euterpe,
55Forse per te non s’ascoltò giammai:
Nol disprezzar, che le Castalie Dive
Con meraviglia fanno udir suoi canti.
Tanta possanza, o d’amorosa face
Invitta fiamma, ha femminil beltate,
60Che d’Elena gli sguardi un mar di sangue
Fero un tempo versar l’Asia e l’Europa:
Nè solamente allor donne terrene
Videro in arme travagliar suoi figli;
Ma per lo scampo de’ dardanii muri
65Mennone, prole della bella Aurora
Cinse la spada, e d’altra parte Achille.
Contra Ilïon vibrò l’asta possente.
Costoro un giorno nella pugna acerba
Furono a fronte; a rimirar qual Austro,
70E qual è Borea per gli aerei campi,
Ciascun ben vago d’occuparne il regno;
O come duo leoni in val d’Atlante
Sopra le membra di cervetta ancisa
Infurïati da digiun: non l’unghia
75Allora è pigra a disbranar, no ’l dente
Stancasi di far sangue; alti ruggiti,
Tuoni del petto lor, scuotono il bosco,
E fan lunge sonar l’ampie spelonche:
Ben è feroce il Mauritan bifolco,
80Se ivi non trema: in guisa tal non meno
L’aspra famiglia delle nobil Dive
Movea con forte man l’orribil armi
Da sè sgombrando il rio timor di morte:
E già scendeva all’Oceáno in grembo
85Il Sol dorato, e s’allungavan l’ombre:
Quando il micidïale acciar dell’asta
Sospinse Achille, ed impiagò nel petto
Profondamente degli Etiopi il duce.
Venne il misero a terra, e sonno eterno
90Gli circondò le giovinette ciglia.
Come tal volta il villanel, cui meno
Vengon del tetto le tarlate travi,
Corre tra’ boschi, e con polita accetta
Recide il tronco di durissima elce:
95Essa trabocca, e ne risuona intorno
La solitaria sponda: a tal sembianza
Mennone cadde; ma l’acerbo Achille
Guardandol fe’ volar queste parole:
Infin dal Polo, onde si move l’Austro,
100Tu sei venuto ad incontrar la morte:
Misera madre! e così detto ei cessa
Dalle battaglie, poichè cessa il giorno.
Ma gli scudier dell’Etiopo estinto,
Turba infelice, sollevaro il corpo,
105E lo portaro alle reali tende,
Vaghi d’ornarlo. In quel momento scorse
Gli affanni lor Tersicore, soave
Ninfa di Pindo, e dispiegò le piume
Inverso il cielo, e ritrovò l’Aurora.
110Era l’Aurora d’odorate rose
Sul far ghirlande, e raccogliea bei gigli
Per seminarli in ciel, tosto, che il Sole
Sgombrar volesse la Cimmeria notte,
Gli egri mortali risvegliando in terra:
115Ed ecco sparsa il crin dell’auree trecce,
E scolorita i rai del chiaro sguardo
A lei fassi veder la nobil Ninfa,
E con fervido sdegno a parlar prende
Pur lagrimando: Dell’Aonie Muse
120Io mi sono una; e lo Strimonio fiume
Ebbe prole di me, che i Tracii regni
Già governava, ed appellossi Reso:
Egli sen venne ad ajutar di Troja
Il rege amico; e nel miglior del sonno
125Ignudo affatto in sulle proprie piume
Con ferro Ulisse traditor lo spense:
A poco dianzi del feroce Achille
L’asta micidïal Mennone uccise,
E vanne altiero, e del suo mal si gode:
130Or vedrò se sei madre, o pur se obblio
Lungo ti prende dell’amabil parto:
Che non corriamo a piè del sommo Giove?
Che non voliamo a dimandar vendetta?
Non deve il nostro duolo aver conforto?
135Non siam noi Dive? A sì crudel novella
Trasse lunge da sé l’Aurora i gigli,
Trasse le rose; e per l’eburneo petto
Mandaro que’ begli occhi un fiume a terra;
Al fin gridava: in sul fiorir degli anni,
140Quando era da goder tua giovinezza,
Mennone giungi indegnamente a morte.
Eri tal uomo tu, che il mondo in pregio
Aver non ti dovesse? o son miei pregi
Vili cotanto, che io sia fatta degna
145Di udire, e di soffrir tanto cordoglio?
Chi verrà vago di servire a Giove
Omai per l’avvenir? se io, che fo scorta
Eternamente al gran cammin del Sole,
Ho tal mercede. Ora abbandoni il mare,
150Sorga Tetide in cielo, ella raccenda
All’Universo i mattutini albori:
Io tra gli abissi abiterò; là dove
Mennone giungi a dimorar per sempre.
Così dicea, nè si vedea far tregua
155Co’ fervidi sospiri, anzi dal fianco
Infra singhiozzi gli spargeva intorno
Via più cocenti e più dolenti ognora:
E già Febo era presto al gran viaggio
Ben luminoso, e’ suoi destrier veloci
160Omai pasciuti di nettarea biada
Chiedean nitrendo i freni d’oro, e d’oro
Ferrato il piè, feano sonar zappando
Il pavimento dell’etereo smalto.
Ma non vedeansi del zaffiro eterno
165In Orïente disserrar le porte,
Per dare il giorno a’ risvegliati spirti;
Però commosso di Saturno il figlio,
Mandò repente alla dogliosa Aurora
Iride messaggiera: ella volando
170Trovò l’afflitta Diva in un momento;
E con labbra di rose a dirle prese:
Io vengo a te, che di Saturno il figlio
Lo mi comanda: è suo volere, o Diva,
Che tu non lasci i comandati uffici,
175Acciocchè il mondo non ne senta offesa:
Fatti saper, che sopra il pian di Troja
Cadde pugnando Sarpedone ucciso,
Prole sua ben diletta; e quinci a poco
Pianger vedrassi la marina Teti
180Sovra la morte del suo caro Achille.
Qui tacque la celeste messaggiera,
E ritornò volando al suo soggiorno.
Ma l’Aurora adempiendo il gran volere
Del sovrano Monarca, aperse il varco,
185Pur come sempre, all’Apollineo carro,
E precorreva i suoi destrieri ardenti,
Non già punto gioconda; anzi piovea
Dagli occhi luminosi amare stille
D’alma rugiada; ed elle, scese in grembo
190Soavemente all’Oceáno Eoo,
Il fèro ricco di lucenti perle
A femminil beltà sommo tesoro.
Ma come poscia sua mirabil polve
Aggia virtù di medicare il core,
195Che dentro il petto sovrassalta, e come
Rischiari le pupille annuvolate,
Nol ti dirò: tu per te stesso il sal,
O ben vissuto Castelletti, in cui
D’ogni cosa gentil fassi conserva,
200A cui segreto alcun non si nasconde,
Che sia prezzato da’ leggiadri spirti.