Loris Serafini

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L'eresia in miniera. I minatori tedeschi dell'Agordino e la diffusione della Riforma Protestante in Italia (1545-1591)
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Loris Serafini


L'eresia in miniera. I minatori tedeschi dell'Agordino e la diffusione della Riforma Protestante in Italia (1545-1591)


Questo studio intende indagare i rapporti tra i minatori tedeschi e la Riforma protestante nell’Agordino, una zona periferica della Repubblica veneta, che presentava un tempo i caratteri di una vivace mobilità sociale e di uno scambio culturale più intenso di quanto si potrebbe immaginare. In effetti, trovandosi al confine con i domini asburgici nella parte settentrionale ed occidentale, l’Agordino fu terra di frontiera fino alla fine del primo conflitto mondiale. In particolare, grazie alla collocazione dell’area, risulta piuttosto robusto il flusso migratorio dai territori germanofoni, specie tra i secoli XV e XVI, quando una presenza incisiva è rappresentata dai minatori tedeschi - i cosiddetti canòp - provenienti nella maggior parte dei casi dal Tirolo (in particolare da Schwaz, importante centro minerario), ma anche dalla Sassonia, dalla Svevia e dalla Boemia, zone note sia per l’intensa attività estrattiva sia per l’alta specializzazione professionale raggiunta nel settore minerario. Nei decenni che conobbero grandi stravolgimenti religiosi e sociali i canòp portarono con sé un apprezzato bagaglio professionale, ma rappresentarono anche un temuto veicolo di diffusione delle istanze riformate nelle valli delle Dolomiti bellunesi.

L’Agordino - una delle otto Comunità Montane della provincia di Belluno - è situato a 46,16 gradi di latitudine N e 9,43 di longitudine. È circondato dalle valli di Primiero, Fiemme e Fassa (Trentino), Badia (Alto Adige), Ampezzo, Cadore, Zoldo (Bellunese). La zona si trova incuneata tra le più suggestive e celebri montagne delle Dolomiti - la Marmolada, il Civetta, il Pelmo, le Pale di San Martino, le Tofane - ed è suddivisa nella Val del Cordévole, che è la principale, e nella Valle del Bióis. Sulla sua superficie di 660 kmq sono presenti 16 comuni; la popolazione è di circa 20.000 abitanti, dei quali circa 4.000 si concentrano nel comune di Agordo. Le risorse economiche attuali sono rappresentate in massima parte dal settore industriale, nel quale occupa il primo posto l’azienda che produce occhiali Luxottica (in cui lavora la maggior parte della popolazione), seguito dal settore turistico e da quello artigianale; minor importanza compete attualmente al settore agricolo, che un tempo rappresentava la fonte maggiore di sussistenza.

Se dal secondo dopoguerra andiamo a ritroso nel tempo, troviamo una realtà economica nel complesso depressa, basata sulla pastorizia e sull’agricoltura, sostenute tuttavia, fino alla metà del Settecento, da una vivace attività estrattiva, che rappresentò una delle maggiori risorse di questa terra fin dal XIV secolo. Il centro minerario maggiore era quello di Valle Imperina, nei pressi di Agordo, seguito dai centri di Forno di Canale, Cencenìghe,

Il presente saggio introduce la tesi (inedita) dall’omonimo titolo, discussa da Loris Serafini di Canale d’Agordo nell’a.a. 2001/2002 per la laurea in Lettere e filosofia, corso in lingue e letterature straniere, presso l’Università di Trento, relatrice la professoressa Silvana Seidel Menchi.

Taibón e da altri minori. La nostra attenzione sarà circoscritta al XVI secolo, quando l’attività mineraria era ancora fiorente, a tal punto da attirare in zona molti minatori tedeschi specializzati nel settore, chiamati dalla popolazione locale canòp. La loro presenza in loco è testimoniata dall’esistenza di cognomi di origine tedesca, ancora oggi diffusi, dalla toponomastica, dai molti tedeschismi rintracciabili nel lessico, dalle pale d’altare e dalle tele che parlano dell’influenza artistica tirolese e sveva sull’arte sacra agordina tra il XV e il XVI secolo.

L’oggetto principale del nostro studio è tuttavia l’adesione dei canòp alle istanze della Riforma. Nel Cinquecento, infatti, grazie alla diffusione delle nuove dottrine eterodosse e alla stampa, la Riforma conobbe una divulgazione che sarebbe stata impensabile soltanto un secolo prima. Parecchi dei minatori tedeschi che lavoravano nell’Agordino erano entrati in contatto con predicatori riformati e trasmettevano alla popolazione locale idee o assumevano comportamenti i quali, agli occhi del clero e dei fedeli che erano legati alle forme tradizionali della pietà, apparivano inauditi. Si trattò di atteggiamenti ereticali privi di un particolare spessore dottrinale, quale invece era perlopiù proprio dei dissidenti e dei riformati dei grandi centri culturali, come ad esempio Venezia. I minatori si limitavano, piuttosto, probabilmente a causa della loro scarsa istruzione, ad affermare semplici proposizioni contro i precetti imposti dalla Chiesa e soprattutto a manifestare con gesti concreti la loro opposizione, per esempio attraverso la violazione dell’obbligo del riposo festivo o la violazione del precetto dell’astinenza delle carni, attuata pure da un gruppo di ciabattini originari dell’Engadina, che compaiono assieme ai minatori tedeschi nel processo analizzato in questa trattazione.

Per affrontare questo tema era necessario esaminare innanzi tutto la situazione ecclesiastica e religiosa dell’Agordino: mi sono chiesto se l’area potesse essere stata un terreno fertile per il diffondersi della Riforma. Così sono risalito alle fonti cinquecentesche, sfogliando i resoconti delle visite pastorali dell’età tridentina e consultando la bibliografia locale, soprattutto quella connessa alle ricerche di Ferdinando Tamis. Da quest’indagine è emersa una situazione piena di ombre: il clero del tempo risulta più preoccupato della propria sicurezza economica che della salvezza delle anime; alcuni sacerdoti si spingono a commettere abusi e perfino crimini; molti sono distratti da attività commerciali; i più sono del tutto inadeguati al loro ufficio non solo dal punto di vista culturale, ma anche da quello morale.

In questa complessa situazione, in cui l’inadeguatezza del clero valligiano si mescola con una religiosità molto spesso superficiale e lontana dalla freschezza dei messaggi evangelici, si affermano le aspirazioni di quanti aspettavano un rinnovamento della Chiesa e un nuovo annuncio di liberazione. Il contatto con le nuove istanze religiose, trasmesse dai predicatori itineranti, dai minatori e da quanti avevano accolto la Riforma, aveva entusiasmato gli animi più sensibili e più esigenti, che ben presto accettarono di buon grado le nuove parole d’ordine. Nel contrastare il «pericolo» della repentina divulgazione delle nuove dottrine svolge un ruolo centrale il tribunale dell’Inquisizione, che nel frattempo si era riorganizzato. In questo contesto, dunque, si collocano i 36 processi per eresia conservati presso l’Archivio Vescovile della diocesi di Belluno, discussi nell’ambito della diocesi tra il 1545 e il 1600. Essi ebbero luogo durante il governo pastorale di tre vescovi: Giulio Contarini (1542-1575), nipote del cardinal Gaspare, Giovanni Battista Valier (1575- 1596) e Alvise Lollino (1596-1625). Il processo più noto è quello riguardante l’eretico Giulio Maresio, che finì bruciato sul rogo a Roma il 10 ottobre 1567. Gran parte di essi, tuttavia, rispecchia, come detto, non tanto importanti dissensi dottrinali, quanto piuttosto comportamenti non ortodossi e sospetti di quanti si dissociano dagli insegnamenti della Chiesa, manifestando il dissenso attraverso le parole e le azioni.

Tra i vari processi ho scelto di analizzare i dieci fascicoli relativi alla zona dell’Agordino, la regione che presentava, all’interno dell’antica diocesi di Belluno, il punto di maggior contatto con il mondo tedesco, confinando essa con i principati vescovili di Bressanone e Trento ed essendo, in quanto zona di frontiera, caratterizzata dal passaggio e dalla circolazione di uomini e di idee.

Mi imbattei così in un interessante documento che sollevò la mia curiosità. Si trattava di un processo discusso tra il 1561 e il 1562, intentato «contra nonnullos agnellinos veteramentarios et alios comedentes carnes temporibus prohibitis». Sebbene il titolo citasse principalmente i ciabattini, gli zaùt già citati, detti anche agnellinos - così indicati dal termine Agnellina, con cui si indicava l’Engadina, da cui i ciabattini incriminati provenivano -, in realtà le testimonianze più importanti riguardavano un ufficiale minerario di Agordo, Piero della Bortola, il quale era stato visto mangiare carne durante la Quaresima in un’osteria di Canale assieme a due suoi dipendenti, due canòp tedeschi (Nichel e Peterle) che lavoravano nelle miniere della Valle di Garés, e ad altri due commensali. Il gruppo aveva quindi invitato una sesta persona, Giacomo follador, ad infrangere il precetto dell’astinenza quaresimale. Nel processo vennero inquisiti tutti eccetto i due minatori tedeschi che si erano nel frattempo allontanati dall’Agordino verso il Primiero, probabilmente proprio per evitare l’istruttoria. Le testimonianze rilasciate nel corso del processo non lasciano dubbi sulla posizione dei due minatori tedeschi: essi avevano affermato che nel Vangelo non compariva affatto il divieto di mangiare determinati cibi e che dunque la proibizione non era giustificata, trattandosi solo di una scelta arbitrariamente imposta dalla Chiesa.

Proprio i due canòp avevano invitato Giacomo follador a mangiare la carne, sostenendo che l’atto non costituiva peccato. La sentenza finisce con una condanna alla pena dei triremi di Venezia della durata di un anno e mezzo per Piero della Bortola e al digiuno esemplare per gli altri rei.

La scelta di questo processo è giustificata da due motivi: innanzi tutto, il documento offre parecchi spunti sulla mobilità dei minatori e delle maestranze e, di conseguenza, sulla circolazione del messaggio ereticale durante il Cinquecento. Gli atti processuali ci rivelano infatti chiaramente non solo la presenza nell’Agordino di minatori di fede protestante, ma anche la loro azione di ‘predicazione’ nella zona e l’effetto positivo di essa su una parte della popolazione del luogo, la quale manifesta a sua volta il proprio dissenso religioso e aderisce a comportamenti non ortodossi volti a contestare pubblicamente l’autorità ecclesiastica, che fino ad allora nessuno aveva osato mettere in discussione. In secondo luogo, il corposo documento riguarda la zona di Canale d’Agordo, mia terra natale, alla quale con questa scelta ho voluto dare una testimonianza di appartenenza. Il processo, peraltro, presenta uno spaccato della vita quotidiana di questi paesi di montagna, che avevano all’epoca rapporti economici con le terre tedesche più intensi di quello che ci si aspetterebbe. Dovendo concentrare l’attenzione sui canòp, ho dovuto lasciare in secondo piano la questione degli zaùt, cioè dei ciabattini sospetti di eresia coinvolti nel processo analizzato. Le loro vicissitudini e la loro storia andrebbero studiate a parte, anche se la documentazione a riguardo appare molto scarsa.

Questo lavoro non ha pretese di completezza. Vorrebbe solo offrire un contributo allo studio di un tema che merita di essere ulteriormente approfondito con indagini negli imponenti archivi della Serenissima o in quelli dei grandi centri minerari. La ricerca che ho condotto tra i processi per eresia bellunesi mi ha reso via via più consapevole della ricchezza della documentazione, finora poco studiata, che certamente potrebbe allargare l’orizzonte storiografico in merito alla diffusione della Riforma nelle aree di confine e periferiche, come è appunto il caso delle vallate bellunesi.

Spero quindi che il mio modesto contributo possa invogliare altri a proseguire le ricerche in questa direzione, per mettere in luce non solo le dinamiche di diffusione degli elementi ereticali in un’area periferica dell’arco alpino, ma anche la mentalità, la cultura e le aspettative di uomini del passato, i quali rimangono per noi ancora in gran parte degli sconosciuti.