La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XLII

Libro secondo
Capitolo XLII

../Capitolo XLI ../Capitolo XLIII IncludiIntestazione 17 luglio 2008 75% Autobiografie

Libro secondo - Capitolo XLI Libro secondo - Capitolo XLIII

Lasciato il Giove quivi, volendomi partire la mattina, mi fece dare mille scudi d’oro: parte erano di mia salari, e parte di conti, che io mostravo avere speso di mio. Preso li dinari, lieto e contento me ne tornai a Parigi; e subito giunto, rallegratomi in casa, di poi il desinare feci portare tutti li miei vestimenti, quali erano molta quantità di seta, di finissime pelle e similmente di panni sottilissimi. Questi io feci a tutti quei mia lavoranti un presente, donandogli sicondo i meriti d’essi servitori, insino alle serve e i ragazzi di stalla, dando a tutti animo che m’aiutassino di buon cuore. Ripreso il vigore, con grandissimo istudio e sollecitudine mi missi intorno a finire quella grande statua del Marte, quale avevo fatto di legni benissimo tessuti per armadura; e di sopra, la sua carne si era una crosta, grossa uno ottavo di braccio, fatta di gesso e diligentemente lavorata; dipoi avevo ordinato di formare di molti pezzi la ditta figura, e commetterla da poi a coda di rondine, si come l’arte promette; che molto facilmente mi veniva fatto. Non voglio mancare di dare un contra segno di questa grande opera, cosa veramente degna di riso: perché io avevo comandato a tutti quelli a chi io davo le spese, che nella casa mia e innel mio castello non vi conducessino meretrice; e a questo io ne facevo molta diligenza che tal cosa non vi venissi. Era quel mio giovane Ascanio innamorato d’una bellissima giovine, e lei di lui: per la qual cosa fuggitasi questa ditta giovine da sua madre, essendo venuta una notte a trovare Ascanio, non se ne volendo poi andare, e lui non sapendo dove se la nascondere, per utimo rimedio, come persona ingegnosa, la mise drento nella figura del ditto Marte, e innella propia testa ve l’accomodò da dormire; e quivi soprastette, assai, e la notte lui chetamente alcune volte la cavava. Per avere lasciato quella testa molto vicino alla sua fine, e per un poco di mia boria, lasciavo iscoperto la ditta testa, la quale si vedeva per la maggior parte della città di Parigi: avevano cominciato quei piú vicini a salire su per i tetti, e andavavi assai popoli a posta per vederla. E perché era un nome per Parigi, che in quel mio castello ab antico abitassi uno spirito, della qual cosa io ne vidi alcuno contra segno da credere che cosí fussi il vero - il detto spirito universalmente per la plebe di Parigi lo chiamavano per nome Lemmonio Boreò - e perché questa fanciulletta, che abitava innella ditta testa, alcune volte non poteva fare che non si vedessi per gli occhi un certo poco di muovere; dove alcuni di quei sciocchi popoli dicevano che quel ditto spirito era entrato in quel corpo di quella gran figura, e che e’ faceva muovere gli occhi a quella testa, e la bocca, come se ella volessi parlare; e molti ispaventati si partivano, e alcuni astuti, venuti a vedere e non si potendo discredere di quel balenamento degli occhi che faceva la ditta figura, ancora loro affermavano che ivi fussi spirito, non sapendo che v’era spirito e buona carne di piú.