La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XLI

Libro secondo
Capitolo XLI

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Intanto con gran sollecitudine io fini’ il bel Giove d’argento, insieme con la sua basa dorata, la quale io avevo posta sopra uno zocco di legno, che appariva poco; e in detto zocco di legno avevo commesso quattro pallottole di legno forte, le quali istavano piú che mezze nascoste nelle lor casse, in foggia di noce di balestre. Eran queste cose tanto gentilmente ordinate, che un piccol fanciullo facilmente per tutti i versi sanza una fatica al mondo, mandava innanzi e indietro e volgeva la ditta statua di Giove. Avendola assettata a mio modo, me ne andai con essa a Fontana Beliò, dove era il Re. In questo tempo il sopra ditto Bologna aveva portato di Roma le sopra ditte statue, e l’aveva con gran sollecitudine fatte gittare di bronzo. Io che non sapevo nulla di questo, sí perché lui aveva fatto questa sua faccenda molto segretamente, e perché Fontana Beliò è discosto da Parigi piú di quaranta miglia; però non avevo potuto sapere niente. Faccendo intendere al Re dove voleva che io ponessi il Giove, essendo alla presenza Madama di Tampes, disse al Re che non v’era luogo piú a proposito dove metterlo che nella sua bella galleria. Questo si era, come noi diremmo in Toscana, una loggia, o sí veramente uno androne: piú presto androne si potria chiamare, perché loggia noi chiamiamo quelle stanze che sono aperte da una parte. Era questa stanza lunga molto piú di cento passi andanti, ed era ornata e ricchissima di pitture di mano di quel mirabile Rosso, nostro fiorentino; e infra le pitture era accomodato moltissime parte di scultura, alcune tonde, altre di basso rilievo: era di larghezza di passi andanti dodici in circa. Il sopra ditto Bologna aveva condotto in questa ditta galleria tutte le sopra ditte opere antiche, fatte di bronzo e benissimo condotte, e l’aveva poste con bellissimo ordine, elevate in su le sue base; e sí come di sopra ho ditto, queste erano le piú belle cose tratte da quelle antiche di Roma. In questa ditta istanza io condussi il mio Giove; e quando viddi quel grande apparecchio, tutto fatto a arte, io da per me dissi: - Questo si è come passare in fra le picche. Ora Idio mi aiuti -. Messolo al suo luogo e, quanto io potetti, benissimo acconcio, aspettai quel gran Re che venissi. Aveva il ditto Giove innella sua mano destra accomodato il suo fúlgore in attitudine di volerlo trarre, e nella sinistra gli avevo accomodato il Mondo. Infra le fiamme avevo con molta destrezza commisso un pezzo d’una torcia bianca. E perché Madama di Tampes aveva trattenuto il Re insino a notte per fare uno de’ duo mali, o che lui non venissi o sí veramente che l’opera mia, causa della notte, si mostrassi manco bella; e come Idio promette a quelle creature che hanno fede in lui, ne avvenne tutto il contrario; perché veduto fattosi notte, io accesi la ditta torcia che era in mano al Giove; e per essere alquanto elevata sopra la testa del ditto Giove, cadevano i lumi di sopra e facevano molto piú bel vedere, che di dí non arien fatto. Comparse il ditto Re insieme con la sua Madama di Tampes, col Dalfino suo figliuolo e con la Dalfina, oggi re, con il re di Navarra suo cognato, con madama Margherita sua figliuola, e parecchi altri gran signori, i quali erano instruiti a posta da Madama di Tampes per dire contro a di me. Veduto entrare il Re, feci ispignere innanzi da quel mio garzone già ditto, Ascanio, che pianamente moveva il bel Giove incontro al Re: e perché ancora io fatto con un poco d’arte, quel poco del moto che si dava alla ditta figura, per essere assai ben fatta, la faceva parer viva; e lasciatomi alquanto le ditte figure antiche indietro, detti prima gran piacere, agli occhi, della opera mia. Subito disse il Re: - Questa è molto piú bella cosa che mai per nessuno uomo si sia veduta, e io, che pur me ne diletto e ’ntendo, non n’arei immaginato la centesima parte -. Quei Signori, che avevano a dire contr’a di me, pareva che non si potessino saziare di lodare la ditta opera. Madama di Tampes arditamente disse: - Ben pare che voi non abbiate occhi. Non vedete voi quante belle figure di bronzo antiche son poste piú là, innelle quali consiste la vera virtú di quest’arte, e non in queste baiate moderne? - Allora il Re si mosse, e gli altri seco; e dato una occhiata alle ditte figure, e quelle, per esser lor porto i lumi inferiori, non si mostravano punto bene; a questo il Re disse: - Chi ha voluto disfavorire questo uomo, gli ha fatto un gran favore; perché mediante queste mirabile figure si vede e cognosce questa sua da gran lunga esser piú bella e piú maravigliosa di quelle. Però è da fare un gran conto di Benvenuto, che non tanto che l’opere sue restino al paragone dell’antiche, ancora quelle superano -. A questo Madama di Tampes disse che vedendo di dí tale opera, la non parrebbe l’un mille bella di quel che lei par di notte; ancora v’era da considerare, che io avevo messo un velo addosso alla ditta figura, per coprire gli errori. Questo si era un velo sottilissimo, che io avevo messo con bella grazia addosso al ditto Giove, perché gli accrescessi maestà: il quale a quelle parole io lo presi, alzandolo per di sotto, scoprendo quei bei membri genitali, e con un poco di dimostrata istizza tutto lo stracciai. Lei pensò che io gli avessi scoperto quella parte per proprio ischerno. Avvedutosi il Re di quello isdegno e io vinto dalla passione, volsi cominciare a parlare: subito il savio Re disse queste formate parole in sua lingua: - Benvenuto, io ti taglio la parola; sí che sta cheto, e arai piú tesoro che tu non desideri, l’un mille -. Non possendo io parlare, con gran passione mi scontorcevo: causa che lei piú sdegnosa brontolava; e il Re, piú presto assai di quel che gli arebbe fatto, si partí, dicendo forte, per darmi animo, aver cavato di Italia il maggior uomo che nascessi mai, pieno di tante professione.