La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo CVIII

Libro secondo
Capitolo CVIII

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Trovandosi il Duca al Livorno, io lo andai a trovare, solo per chiedergli licenzia. Sentendomi ritornare le mie forze, e veduto che io non ero adoperato annulla, e’ m’incresceva di far tanto gran torto alli mia studii; di modo che resolutomi me n’andai alLivorno, e trova’ vi il Duca che mi fece gratissima accoglienza. E perché io vi stetti parecchi giorni, ogni giorno io cavalcavo con Sua Eccellenzia, e avevo molto agio a poter dire tutto quello che io volevo, perché il Duca usciva fuor di Livorno e andava quattro miglia rasente ’l mare, dove egli faceva fare un poco di fortezza e per non essere molestato da troppe persone, e’ gli aveva piacere che io ragionassi seco: di modo che un giorno, vedendomi fare certi favori molto notabili, io entrai con proposito a ragionare dello Sbietta, cioè di Piermaria d’Anterigoli, e dissi: - Signore, io voglio contare a Vostra Eccellenzia illustrissima un caso maraviglioso, per il quale Vostra Eccellenzia saprà la causa che mi impedí a non potere finire il mio Nettunno di terra, che io lavoravo nella Loggia. Sappi Vostra Eccellenzia illustrissima come io avevo comperato un podere a vita mia dallo Sbietta -. Basta che io dissi il tutto minutamente, non macchiando mai la verità con il falso. Ora quando io fui al veleno, io dissi che, se io fussi stato mai grato servitore nel cospetto di Sua Eccellenzia illustrissima, che quella doverrebbe, in cambio di punire lo Sbietta o quegli che mi dettono il veleno, dar loro qualche cosa di buono; perché il veleno non fu tanto che egli mi ammazzassi; ma sí bene ei fu appunto tanto a purgarmi di una mortifera vischiosità, che io avevo dentro nello stomaco e negli intestini; - il quale ha operato di modo, che dove, standomi come io mi trovavo, potevo vivere tre o quattro anni, e questo modo di medicina ha fatto di sorte, che io credo d’aver guadagnato vita per piú di venti anni; e per questo con maggior voglia che mai, piú ringrazio Iddio; e però è vero quel che alcune volte io ho inteso dire da certi, che dicono: “Iddio ci mandi mal, che ben ci metta” -. Il Duca mi stette a udire piú di dua miglia di viaggio, sempre con grande attenzione; solo disse: - O male persone! - Io conclusi che ero loro ubbrigato ed entrai in altri piacevoli ragionamenti. Appostai un giorno approposito, e trovandolo piacevole ammio modo, io pregai Sua Eccellenzia illustrissima che mi dessi buona licenzia, acciò che io non gittassi via qualche anno acché io ero ancor buono affar qualche cosa, e che di quello che io restavo d’avere ancora del mio Perseo, Sua Eccellenzia illustrissima me lo dessi quando aqquella piaceva. E con questo ragionamento io mi distesi con molte lunghe cerimonie arringraziare Sua Eccellenzia illustrissima, la quale non mi rispose nulla al mondo, anzi mi parve che e’ dimostrassi di averlo aùto per male. L’altro giorno seguente messer Bartolomo Consino, segretario del Duca, de’ primi, mi trovò, e mezzo in braveria, mi disse: - Dice il Duca che se tu vòi licenzia, egli te la darà; ma se tu vuoi lavorare, che ti metterà in opera: che tanto potessi voi fare, quanto Sua Eccellenzia vi darà da fare! - Io gli risposi che non desideravo altro che aver da lavorare, e maggiormente da Sua Eccellenzia illustrissima piú che da tutto il resto degli uomini del mondo, e fussino papa o imperatori o re; piú volentieri io servirei Sua Eccellenzia illustrissima per un soldo che ogni altri per un ducato. Allora ei mi disse: - Se tu se’ di cotesto pensiero, voi siate d’accordo senza dire altro; sí che ritòrnatene a Firenze e sta di buona voglia, perché il Duca ti vuol bene -. Cosí io mi ritornai a Firenze.