La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo CVI

Libro primo
Capitolo CVI

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Quando io veddi seguire questa cosa con tanto rigore, cominciai a pensare ai fatti mia, dicendo: - Se un’altra volta venissi un di questi furori, e che questo uomo non si fidassi di me, io non gli verrei a essere piú ubbrigato, e vorrei adoperare un poco li mia ingegni, li quali io sono certo che mi riuscirieno altrimenti che quei di quel frataccio - e cominciai a farmi portare delle lenzuola nuove e grosse, e le sudice io non le rimandavo. Li mia servitori chiedendomele, io dicevo loro che si stessin cheti, perché io l’avevo donate a certi di quei poveri soldati; che se tal cosa si sapessi, quelli poveretti portavano pericolo della galera: di modo che li mia giovani e servitori fidelissimamente, massimo Felice, mi teneva tal cosa benissimo segreto, le ditte lenzuola. Io attendevo a votare un pagliericcio, e ardevo la paglia, perché nella mia prigione v’era un cammino da poter far fuoco. Cominciai di queste lenzuola e farne fascie larghe un terzo di braccio: quando io ebbi fatto quella quantità che mi pareva che fussi a bastanza a discendere da quella grande altura di quel mastio di castel Sant’Agnolo, io dissi ai miei servitori, che avevo donato quelle che io volevo, e che m’attendessino a portare delle sottile, e che sempre io renderei loro le sudice. Questa tal cosa si dimenticò. A quelli mia lavoranti e servitori il cardinale Santiquattro e Cornaro mi feciono serrare la bottega, dicendomi liberamente, che il Papa non voleva intender nulla di lasciarmi andare, e che quei gran favori del Re mi avevano molto piú nociuto che giovato; perché l’ultime parole che aveva dette monsignor di Morluc da parte del Re, si erano istate che monsigno’ di Morluc disse al Papa che mi dovessi dare in mano a’ giudici ordinari della corte; e che, se io avevo errato, mi poteva gastigare, ma non avendo errato, la ragion voleva che lui mi lasciassi andare. Queste parole avevan dato tanto fastidio al Papa, che aveva voglia di non mi lasciare mai piú. Questo Castellano certissimamente mi aiutava quanto e’ poteva. Veduto in questo tempo quelli nimici mia che la mia bottega s’era serrata, con ischerno dicevano ogni dí qualche parola ingiuriosa a quelli mia servitori e amici, che mi venivano a visitare alla prigione. Accadde un giorno in fra gli altri che Ascanio, il quale ogni dí veniva dua volte da me, mi richiese che io gli facessi una certa vestetta per sé d’una mia vesta azzurra di raso, la quale io non portavo mai: solo mi aveva servito quella volta, che con essa andai in processione: però io gli dissi che quelli non eran tempi, né io in luogo da portare cotai veste. Il giovane ebbe tanto per male che io non gli detti questa meschina vesta, che lui mi disse che se ne voleva andare a Tagliacozze a casa sua. Io tutto appassionato gli dissi, che mi faceva piacere e levarmisi dinanzi; e lui giurò con grandissima passione di non mai piú capitarmi innanzi. Quando noi dicevamo questo, noi passeggiavamo intorno al mastio del Castello. Avvenne che il Castellano ancora lui passeggiava: incontrandoci appunto in Sua Signoria, e Ascanio disse: - Io me ne vo, e addio per sempre -. A questo io dissi: - E per sempre voglio che sia, e cosí sia il vero: io commetterò alle guardie che mai piú ti lascin passare - e voltomi al Castellano, con tutto il cuore lo pregai, che commettessi alle guardie che non lasciassino mai piú passare Ascanio, dicendo a Sua Signoria: - Questo villanello mi viene a crescere male al mio gran male; sí che io vi priego, Signor mio, che mai piú voi lasciate entrar costui -. Il Castellano li incresceva assai, perché lo conosceva di maraviglioso ingegno: a presso a questo egli era di tanta bella forma di corpo, che pareva che ogniuno, vedutolo una sol volta, gli fossi espressamente affezionato. Il ditto giovane se ne andava lacrimando, e portavane una sua stortetta, che alcune volte lui segretamente si portava sotto. Uscendo del Castello e avendo il viso cosí lacrimoso, si incontrò in dua di quei mia maggior nimici, che l’uno era quel Ieronimo perugino sopra ditto, e l’altro era un certo Michele, orefici tutt’a dua. Questo Michele, per essere amico di quel ribaldo di quel Perugino e nimico d’Ascanio, disse: - Che vuol dir che Ascanio piagne? Forse gli è morto il padre? dico quel padre di Castello -. Ascanio disse a questo: - Lui è vivo, ma tu sarai or morto - e alzato la mana, con quella sua istorta gli tirò dua colpi, in sul capo tutt’a dua, che col primo lo misse in terra, e col sicondo poi gli tagliò tre dita della man ritta, dandogli pure in sul capo. Quivi restò come morto. Subito fu riferito al Papa; e il Papa in gran còllora disse queste parole: - Da poi che il Re vuole che sia giudicato, andategli a dare tre dí di tempo per difendere la sua ragione -. Subito vennono, e feciono il detto uflizio che aveva lor commesso il Papa. Quello uomo da bene del Castellano subito andò dal Papa, e fecelo chiaro come io non ero consapevole di tal cosa, e che io l’avevo cacciato via. Tanto mirabilmente mi difese, che mi campò la vita da quel gran furore. Ascanio se ne fuggí a Tagliacozze a casa sua, e di là mi scrisse chiedendomi mille volte perdonanza, che cognosceva avere auto torto a aggiugnermi dispiaceri ai mia gran mali; ma se Dio mi dava grazia che io uscissi di quel carcere, che non mi vorrebbe mai piú abbandonare. Io gli feci intendere che attendessi a ’mparare, e che se Dio mi dava libertà, io lo chiamerei a ogni modo.