La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo CV

Libro primo
Capitolo CV

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Questo era preso per luteriano: era bonissimo domestico compagno, ma quanto a frate egli era il maggior ribaldo che fussi al mondo, e s’accomodava a tutte le sorte de’ vizii. Le belle virtú sua io le ammiravo, e’ brutti vizii sua grandemente aborrivo, e liberamente ne lo riprendevo. Questo frate non faceva mai altro che ricordarmi come io non ero ubrigato a osservar fede al Castellano, per esser io in prigione. Alla qual cosa io rispondevo, che sí bene come frate lui diceva il vero, ma come uomo e’ non diceva il vero, perché un che fussi uomo e non frate, aveva da osservare la fede sua in ogni sorte d’accidente, in che lui si fussi trovato: però io che ero uomo e non frate, non ero mai per mancare di quella mia simplice e virtuosa fede. Veduto il ditto frate che non potette ottenere il conrompermi per via delle sue argutissime e virtuose ragioni tanto maravigliosamente dette dallui, pensò tentarmi per un’altra via; e lasciato cosí passare di molti giorni, in mentre mi leggeva le prediche di fra Ierolimo Savonarolo, e’ dava loro un comento tanto mirabile, che era piú bello che esse prediche; per il quale io restavo invaghito, e non saria stata cosa al mondo che io non avessi fatta per lui, da mancare della fede mia in fuora, sí come io ho detto. Vedutomi il frate istupito delle virtú sue, pensò un’altra via; che con un bel modo mi cominciò a domandare che via io arei tenuto se e’ mi fussi venuto voglia, quando loro mi avessino riserrato, a aprire quelle prigione per fuggirmi. Ancora io, volendo mostrare qualche sottigliezza di mio ingegno a questo virtuoso frate, gli dissi, che ogni serratura difficilissima io sicuramente aprirrei, e maggiormente quelle di quelle prigione, le quale mi sarebbono state come mangiare un poco di cacio fresco. Il ditto frate, per farmi dire il mio segreto, mi sviliva, dicendo che le son molte cose quelle che dicon gli uomini che son venuti in qualche credito di persone ingegnose; che se gli avessino poi a mettere in opera le cose di che loro si vantavano, perderebbon tanto di credito, che guai a loro: però sentiva dire a me cose tanto discoste al vero, che se io ne fossi ricerco, penserebbe ch’io n’uscissi con poco onore. A questo, sentendomi io pugnere da questo diavolo di questo frate, gli dissi che io osavo sempre prometter di me con parole molto manco di quello che io sapevo fare, e che cotesta cosa, che io avevo promessa, delle chiave, era la piú debole; e con breve parole io lo farei capacissimo che l’era sí come io dicevo; e inconsideratamente, sí come io dissi, gli mostrai con facilità tutto quel che io avevo detto. Il frate, facendo vista di non se ne curare, subito benissimo apprese ingegnosissimamente il tutto. E sí come di sopra io ho detto, quello uomo da bene del Castellano mi lasciava andare liberamente per tutto il Castello; e manco la notte non mi serrava, sí come attutti gli altri e’ faceva; ancora mi lasciava lavorare di tutto quello che io volevo, sí d’oro e d’argento e di cera; e se bene io avevo lavorato parecchi settimane in un certo bacino che io facevo al cardinal di Ferrara, trovandomi affastidito dalla prigione, m’era venuto annoia il lavorare quelle tale opere; e solo mi lavoravo, per manco dispiacere, di cera alcune mie figurette: la qual cera il detto frate me ne buscò un pezzo, e con detto pezzo messe in opera quel modo delle chiave, che io inconsideratamente gli avevo insegnato. Avevasi preso per compagno e per aiuto un cancelliere che stava col ditto Castellano. Questo cancelliere si domandava Luigi, ed era padovano. Volendo far fare le ditte chiave, il magnano li scoperse; e perché il Castellano mi veniva alcune volte a vedere alla mia stanza, e vedutomi che io lavoravo di quelle cere, subito ricognobbe la ditta cera e disse: - Se bene a questo povero uomo di Benvenuto è fatto un de’ maggior torti che si facessi mai, meco non dovev’egli far queste tale operazione, che gli facevo quel piacere che io non potevo fargli. Ora io lo terrò istrettissimo serrato e non gli farò mai piú un piacere al mondo -. Cosí mi fece riserrare con qualche dispiacevolezza, massimo di parole dittemi da certi sua affezionati servitori, e’ quali mi volevano bene oltramodo, e ora per ora mi dicevano tutte le buone opere che faceva per me questo signor Castellano; talmente che in questo accidente mi chiamavano uomo ingrato, vano e sanza fede. E perché un di quelli servitori piú aldacemente che non si gli conveniva mi diceva queste ingiurie, onde io sentendomi innocente, arditamente risposi, dicendo che mai io non mancai di fede, e che tal parole io terrei a sostenere con virtú della vita mia, e che se piú e’ mi diceva o lui o altri tale ingiuste parole, io direi che ogniuno che tal cosa dicessi, se ne mentirebbe per la gola. Non possendo sopportare la ingiuria, corse in camera del Castellano e portommi la cera con quel model fatto della chiave. Subito che io viddi la cera, io gli dissi che lui e io avevamo ragione; ma che mi facessi parlare al signor Castellano perché io gli direi liberamente il caso come gli stava, il quale era di molto piú importanza che loro non pensavano. Subito il Castellano mi fece chiamare, e io gli dissi tutto il seguito; per la qual cosa lui ristrinse il frate, il quale iscoperse quel cancelliere, che fu per essere impiccato. Il detto Castellano quietò la cosa, la quale era di già venuta agli orecchi del Papa; campò il suo cancelliere dalle forche, e me allargò innel medesimo modo che io mi stavo in prima.