La tempesta (Shakespeare-Angeli)/Ragione dell'opera
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Ragione dell’opera
C’è stata un’epoca della mia vita in cui sono stato innamorato di Titania. Io ero allora un ragazzetto appena settenne e vivevo in una vecchia villa toscana fra le giogaie petrose della Gonfolina e i lecci medicei di Artimino. Ma appunto fra quelle pietre, nelle cui fessure crescevano le linarie gialle e dentro i cui ginepri arsicci zirlavano i tordi nei mattini di novembre, o sotto le ombre cupe dell’antico parco dove s’intravedevano ancora gli avanzi dello splendore d’altri tempi io ho ricercato invano la piccola regina delle Fate con tutto il suo minuscolo corteggio di genietti invisibili. Avevo imparato a conoscerla in un vecchio volume illustrato da uno di quelli artisti che con lo Stoddart e col William Blake furono i precursori di tutto l’idealismo letterario della pittura inglese. Avevo imparato a conoscerla in quelle grandi illustrazioni, un poco primitive, dove essa compariva sempre all’ombra dei tassobarbassi vellosi o delle fragole gigantesche, mentre sopra ogni stelo d’erba si cullava maliziosamente il piccolo «Cobweb» o l’inafferabile «Pea’s Blossom», mentre Puck dall’alto di un cespuglio vigilava se Oberon non si avvicinasse. Nella grande stanza deserta, il sole d’agosto entrava a fiotti dalle vetrate senza tende, e gli armadii intorno sapevano di resina, e i mosconi ronzavano contro i cristalli mentre lo stridio non interrotto delle cicale sembrava arrecare su dalla valle il saluto trionfale della terra feconda. Nella calma di quei pomeriggi estivi, mentre tutta la casa dormiva nella siesta quotidiana, io sfogliavo il vecchio volume trovato nella biblioteca paterna e imparavo a conoscere Caliban, punzecchiato dagli spiriti maligni di Prospero, e il cane bizzarro di Speed, e i cervi che scendevano ad abbeverarsi lungo il ruscello nella foresta delle Ardenne dove il vecchio duca esiliato ascoltava le bizzarrie filosofiche di messer Giacomo e i sospiri amorosi di Rosalinda. Ma sopra tutti era Titania quella che attirava il mio spirito infantile, Titania con le sue chiome disciolte, coi suoi occhi attoniti, con le sue collane di corolle fiorite e con la sua tenerezza per il bel somarello dalle lunghe orecchie pelose. Così che molte volte io mi son ritrovato, su per gli scopeti odorosi di funghi di Artimino o fra i pinastri di Villa Campi, a cercare timorosamente in ogni campanella d’oro di tassobarbasso e in ogni calice azzurro di fanciullaccia se non si nascondesse una di quelle fate misteriose che andavano di notte ad appendere goccie di rugiada sui fiori della loro regina.
Questa è stata la mia prima visione del mondo shekspiriano e se più tardi ho cercato altre cose nei suoi volumi e ho trovato altre emozioni fra i suoi eroi, nessuna certo è stata così pura e così spontanea come quella di un amore infantile, nato nel tedio delle ore di studio, dentro una grande villa toscana sui colli di Signa, arsi dall’estate. E forse è in quel ricordo lontano che debbo ricercare il senso quasi religioso che io ho avuto sempre per il grande poeta inglese. Col crescere degli anni e degli studii la prima sensazione puramente fantastica si è naturalmente modificata, ma anche oggi non posso rileggere i versi divini del «Midsummer night’s dream» senza provare un poco l’antica nostalgia e ritrovare come in un angolo riposto del mio cuore qualcosa dell’amore di altri tempi. Per questo quando il Gaffuri di Bergamo mi propose di tradurgli quella divina fantasia per una edizione italiana delle illustrazioni di Arturo Rackham io accettai con gioia e mi accinsi al lavoro con tale un impeto di entusiasmo che i versi della traduzione mi vennero quasi naturalmente come in un accesso del «brevis furor» oraziano.
Pubblicato il volume io non pensavo certo a farlo seguire da altri, quando sopravvennero due fatti nuovi che fecero nascere in me una idea — ancora indeterminata — dell’opera a cui mi sono accinto. Il primo fu un articolo di G. S. Gargano, sul «Marzocco» di Firenze, articolo che oltre a parole fin troppo lusinghiere per la mia versione, conteneva come un ringraziamento per avere con essa fatto conoscere ai lettori italiani il capolavoro della fantasia shekspiriana nella sua integrità; e in secondo luogo venne la rappresentazione che di essa fu fatta dalla compagnia stabile all’Argentina di Roma, rappresentazione che ebbe esito trionfale e che mi procurò l’onore di una lettera dell’ambasciatore inglese sir Rennel Rodd — che è poeta tanto nobile, quanto è sagace diplomatico — nella quale dopo di avermi detto il suo piacere nell’aver assistito a quel trionfo del poema inglese che non credeva possibile d’innanzi a un pubblico latino, m’incoraggiava a proseguire e a dare agli italiani una intiera versione dell’opera shekspiriana.
Debbo confessare che da principio l’impresa mi parve così ardua che non osai concepirla. Ma le due voci diverse mi risuonavano continuamente nel pensiero e mi spronavano a tentarla. L’Italia, in fatti, non ha una vera e propria traduzione del Teatro di Guglielmo Shakespeare. Sia in prosa che in versi i traduttori italiani, per quanto valenti, non hanno mai avuto il coraggio di osare la semplicità e spesso la ruvidezza shekspiriana costretti dalla moda del tempo a quella artificiosità ridondante che era propria della letteratura italiana, essi hanno travisato il testo, travestendolo in uno stile che non è lo stile del poeta inglese e spesso allontanandosene totalmente, quando un passo oscuro e audace sembrava loro che fosse insopportabile al pensiero italiano. D’altra parte, da che la poesia nostra si è felicemente liberata da quelle pastoie accademiche, nessun poeta aveva tentato di accingersi all’impresa non facile e non breve. Il Gargano, alcuni anni or sono, aveva tentato di costituire una società shekspiriana fra i varii letterati italiani, che si accingessero alla desiderata versione, la quale — tra parentesi — doveva essere in prosa e più documento letterario che lavoro d’arte. Ma il tentativo fallì e non fu danno — io credo. Perchè un’opera di tal genere deve essere compiuta da un unico individuo, che le dia quell’unità e quella armonia di intendimenti e di stile senza la quale non potrebbe riuscire degna dell’altissimo soggetto. D’altra parte, altre nazioni avevano già risoluto il problema per opera di uno solo, perchè non si sarebbe tentato di fare lo stesso in Italia? L’impresa è ardua, ma lusinghiera, e a poco a poco divenne così prepotente in me l’idea di attuarla, che decisi di accingermi al lavoro.
Nel qual lavoro io ho tentato sopra tutto la più scrupolosa fedeltà, rispettando i metri e le rime, rispettando i concetti e le espressioni anche là dove esse potevano sembrare meno tollerabili ad orecchi latini. Ma Guglielmo Shakespeare è con Dante Alighieri una di quelle forze vive della natura, da cui dobbiamo accettare tutto. D’altra parte, per quello che riguarda la struttura metrica dei suoi drammi o delle sue commedie, essa ha una così profonda relazione con l’anima dei suoi personaggi che non potrebbe esserne divisa senza grave danno. Per questo, non solo ho lasciato la doppia forma prosastica e poetica — come era naturale — ma nei versi ho voluto rispettare per fino gli emistichi e quei distici rimati che quasi sempre chiudono il lungo discorso in versi sciolti di un personaggio. E anche questa fedeltà credo sia necessaria per rendere il pensiero shekspiriano, a punto perchè egli è di quei poeti in cui nulla è trascurabile e in cui ogni parola ha un significato profondo e immutabile. Certo, ai primi passi di un’opera a cui dedicherò quanto oramai mi resta di vita, io non mi dissimulo le difficoltà e spesso mi dimando se veramente mi potrà bastare la forza per condurla a fine. Ma ricordando gli esempi di altri popoli e le parole buone di chi volle incoraggiarmi, so ritrovare la fiducia primitiva, confidando anche nei lettori i quali vorranno perdonare le possibili manchevolezze e incoraggiare anch’essi questo sforzo inteso a dare agl’italiani una visione il più possibilmente precisa di quel mondo creato da uno dei genii più alti che mai abbia onorato il pensiero umano.
Roma, Marzo 1911.
DIEGO ANGELI.