La stipe tributata alle divinità delle Acque Apollinari/Introduzione
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Il 21 Febbraio di quest’anno la Civiltà Cattolica, pubblicazione periodica romana, annunziava in un articolo, che io avevale comunicato, come nuova la scoperta delle Acque Apollinari e della stipe, che forse da’ tempi anteriori alle nostre istorie erasi incominciata a loro tributare, e che cessò di tributarsi al quarto secolo incominciato dell’era nostra. Prometteva io allora una descrizione più diffusa e più ragionata di quel fatto; ed ora che è compiuta l’analisi accurata delle acque stesse, vengo a sdebitarmi dell’obbligo allora contratto.
L’itinerario detto di Antonino, tra molti viaggi dell’antico mondo Romano, riporta eziandio quello che facevasi da Roma per andare a Cosa nell’Etruria, e lo divide in quattro mansioni, o poste che vogliam dire, in questa forma:
Da Roma alle Careje miglia | 15 |
Dalle Careje alle Acque Apollinari | 19 |
Dalle Acque Apollinari alle Tarquinie | 12 |
Dalle Tarquinie a Cosa | 15 |
Avea questo nome la mansione, perchè di qui prendevasi la via traversa o il diverticolo che conduceva alle Acque Apollinari, le quali come nascoste in un seno recondito del cratere del lago Sabatino, oggi detto di Bracciano, non lasciano neppure imaginare che ad esse si appressasse la via Claudia, la quale d’altronde tendeva verso Cosa. Erano poi nascoste in guisa che i moderni geografi e topografi nel rintracciarle nè sepper tra loro accordarsi, nè indovinare dov’erano: e chi le volle a Cere come il Cluverio, chi alle Allumiere come Lapie, chi al Sasso come Westphal, chi a Stigliano come Mannert1. La quale discordia è pure meritevole di qualche scusa per la molta varietà de’ luoghi dalla via Claudia in questa parte poco distanti, dove oggi altresì rampollano acque termali e minerali. Molto più prossima alla mansione vi sorgeva un’altra fonte, alla quale sola, secondo noi pensiamo, competeva il titolo di Acque Appollinari.
Vicarello, che vuolsi da qualcuno corruzione di Vicus Aurelius, è un considerevole tenimento da Gregorio XIII. di gloriosa ricordanza dato in dote al Collegio Germanico Ungarico. Il tenimento al suo piede è bagnato dal lago, Sabatino, e da questo sollevasi equabilmente per le falde amplissime del cratere, rispetto al cielo, tra occidente e settentrione, rispetto poi alle terrestri adiacenze, fra’ territorj di Bracciano, Manziana, Oriolo, Bassano e Trevignano. In molta varietà di luoghi, ma singolarmente su d’una prominenza prossima al lago, Vicarello conserva ruderi di grandiosi edifizj romani della prima età imperiale; e non più che a mezzo miglio di distanza dal lago medesimo si avvalla in un cratere minore, intorno al quale altresì abbondano gli avanzi d’edifizj di antica e buona maniera. Tra più prossimi alle nostre terme conservasi quasi intera una botte o serbatojo eretto, secondo ogni buona apparenza, dagli uffiziali dell’imperatore Trajano nella occasione in cui dalla vastità del cratere del lago Sabatino raccolsero l’acqua Trajana o Sabatina che in Roma condussero.
Ora dal fondo di questo minor cratere rampolla un’acqua che è invariabilmente elevata ai 45 gradi del termometro centigrado, la quale assoggettata dal chiarissimo Signor Dottore e Professore Ratti, e in Vicarello stesso ed in Roma, a rigorosa analisi, s’è meritata il titolo d’acidula-salina, come quella che in venti libre contiene
Cloruro di sodio gr. 03. 26 Solfato di soda » 89. 46 Carbonato di soda » 11. 76 di calce » 75. 64 di ferro » 03. 34 di magnesia » 09. 52 Silice » 13. 60 Sostanza organica e perdita » 00. 42 –––––– 207. 00
Aveala il Bacci studiata, e con quegli ajuti scarsissimi che prestavagli l’arte a suoi tempi avea pronunziata una sua sentenza, che sunt autem qualitate non adeo acri neque calida, ut Stygianae, pro admixtione cum sulphure minerae alicujus temperatae ac maxime ferri2. Rimase tuttavia quasi dimentica fino al pontificato di Clemente XII, ossia fino ad un cento vent’anni addietro; il quale abbandono originavasi dalla mancanza d’abitatori in Vicarello, e forse più dalla salvatichezza del basso fondo dov’esce, e dalla infezione dell’aria, che era pessima per le putrefazioni animali e vegetali copiosissime in quel luogo, in proporzione delle acque, che per difetto di scoli opportuni quivi impaludavano. Questa squallidezza non era certamente della natura del sito, ma rimontava a que’tempi, ne’ quali il maggior nostro littorale era quasi universalmente deserto, a cagione delle frequenti e barbare devastazioni dei Saraceni padroni quasi assoluti del vicin mare. Non potevasi quindi presumere che il Cluverio e gli altri illustratori dell’antica geografia facessero menzione di Vicarello. Si ricordarono le acque di Cere, quantunque più vicine alla via Aurelia che alla Claudia, si ricordarono quelle delle Allumiere, del Sasso, di Stigliano, perchè col riacquistare abitatori, riacquistavano una certa rinomanza. Le vere terme Apollinari erano nella dimenticanza, a fronte che il Bacci ne avesse parlato, perchè il luogo di Vicarello ove sorgono le acque, era impraticabile, e perciò disabitato.
Buoni saggi n’erano però stati presi fin dal cominciare del passato secolo; talchè gli amministratori del Collegio Germanico Ungarico vi eressero un edifizio d’un piano sopra il pianterreno per uso de’ bagnanti. L’opera era forse bastevole alle esigenze del tempo in cui si faceva, ma nella età in cui siamo, dopo che la medicina ha voluto donare alle acque minerali e termali d’ogni sorte la virtù di sanare ogni morbo, quel tugurio era troppo meschino provvedimento al molto numero e alla qualità delle persone, che avrebber voluto senza grave incomodo approfittarne. Perciò gli attuali amministratori si recarono a debito di accorrere in ajuto della inferma umanità, e deliberarono di creare dalle fondamenta presso la sorgente un sistema conveniente di bagni e un edifizio non incomodo per i bagnanti.
Il sistema che voleasi introdurre esigeva la totale demolizione del bagno antico, il quale anche dopo attraversati un quasi trenta secoli, erasi costantemente serbato nella forma stessa, che gli Etruschi del luogo aveano saputo dargli, fin da quando aveano scoperto la virtù di quelle acque. Consisteva esso in una vasca o bacino eretto dall’arte sulla roccia vulcanica del picciol cratere nel luogo ove l’acqua rampollava colla vena principale e colle minori della sorgente. Avea il bacino in pianta il diametro di non più che un metro e trenta centimetri, e sollevavasi dal sasso ove cominciava a sorgere oltre a quattro metri con tutta l’acqua che vi rimaneva dentro allacciata. Alla bocca di questo bacino, che era in parte coperto da una volticella a guisa di forno, scendevano per alcuni gradi gl’infermi, e vi prendevano il bagno. Oltracciò una porzione dell’acqua derivavasi ad altra vasca e ad altra stanza immediatamente a contatto della prima. Era questa seconda che aveva il nome di bagnarello, e s’apprestava a quegl’infermi che sostener non potevano il calore troppo gagliardo della sorgente immediata. Traccie di più larghe diramazioni non sonosi trovate. Un timore forse superstizioso toglieva dall’animo di chi presiedeva al bagno l’idea di derivarla anche a piccola distanza. Le acque che erano, secondo loro, un benefizio locale della divinità, potevano avere efficacia finchè rimanevano chiuse entro il luogo nativo; uscite di colà, parevano persuasi, che la loro virtù si perdesse irreparabilmente.
Nel divisamento del nuovo edifizio le acque avrebbero sofferta diminuzione di calore coll’esser chiamate a piccola distanza, non già di parte alcuna della naturale loro virtù. Fu dunque stabilita la demolizione della prima allacciatura; e Federico Akermann soprastante alla nuova fabbrica coll’incominciare dell’anno ponea mano a disfare l’antico, ed a coordinare la nuova allacciatura e le nuove fistole ad un numero di vasche disposte tutt’intorno alla sorgente, e chiuse entro altrettanti camerini. La vecchia allacciatura demolivasi col ferro, e colla tromba idraulica abbassavasi la sorgente delle acque, quando il soprastante fu avvisato, un grande ammasso di metalli vedersi sotto all’acqua giacere accumulati. Fu molta la diligenza ch’egli adoperò ad estrarneli, ma non fu leggero il tormento, che i manovali ne riportarono, costretti com’erano a rimaner colle piante sopra que’ metalli, e con una parte de’ piedi entro quelle acque che erano tanto più ferventi, da quanto maggior tempo avevano quel calore concepito. L’operazione fu anche lunga, perchè superava di molto le duemila libre il peso dei piccoli metalli che di colà entro si dovettero trarre fuori.
Il 22 gennaio io era sul luogo per riconoscere qual sorta di metalli erano, ed insieme per rimanere convinto che una buona loro parte era stata ingojata dalle bocche delle grandi e piccole vene, d’onde le acque scaturiscono. Allora m'avvidi che era un delirio, più che un sogno, il pensiero di squarciare il sasso per rintracciare ciò che vi mancava. Ci saremmo messi nel pericolo di sviare la fonte dall’antico suo sbocco, e forse nulla avremmo potuto rinvenire fra gli abbissi ed i vortici sotterranei di quello scoglio.
Posto l’occhio in quello svariato numero di metalli non v’era a rimanere incerto intorno alla positiva ragione del loro accumulamento in quella fonte. Erano essi la stipe3 tributata dai pagani, che erano venuti a prendere il bagno, alle divinità che avevano in guardia la fonte medesima. Questo tributo erasi pagato dagli ordini diversi de’ cittadini di Roma al lago Curzio per ottenere salute ad Ottaviano Augusto4: erasi pagato dagli Egiziani al Nilo; onde Seneca giunto alle cataratte di quel fiume benefico, addita i margini precipitosi di quelle rupi, da cui i sacerdoti gittavano nella corrente la stipe, e i prefetti delta provincia gli aurei loro doni5: erasi pagato dagli Umbri al loro Clitunno, onde il giovane Plinio recatosi ad ammirare la limpidezza di quelle sorgenti, dichiara tale essere stata, che vi si poteano contar le pietruzze che ne formavano il letto, e la stipe che tra esse v’era intramischiata6: erasi pagato alle divinità del lago di Falterona dagli Etruschi medesimi7. Nulla pertanto di maraviglioso, nulla di nuovo l’aver trovata la stipe in un’altra fonte minerale e termale; le quali due proprietà certamente non si accoppiano nelle correnti del Nilo, nel lago Curzio, nel Clitunno e nel laghetto di Falterona. Contento del poter far conoscere questi preziosi monumenti, i cui più singolari ho fatti fedelmente disegnare ed incidere, prendo a darne una semplice indicazione o poco più, certo di riuscire a’ miei lettori meno disaggradevole, che con una più dotta illustrazione.
Note
- ↑ V. Vesseling. Veter. Romanor. Itiner. p. 300. Parthei e Pimler. Itiner. Antonin. et Hierosel . p. 304.
- ↑ Bacci De Thermis L. IV. p. 243. an. 1571.
- ↑ Stipe è anche una piccola offerta fatta alla divinità pagana. Dicesi singolarmente della moneta minuta.
- ↑ Omnes ordines in lacum Curtii quotannis pro salute ejus stipem jaciebant. Svet. Aug. 57.
- ↑ . . . In haec ora stipem sacerdotes, et aurea dona praefecti, quum solemne venit sacrum, jaciunt . . . L. Ann. Senec. Natur. Quaest. L. IV. 2.
- ↑ . . . Modicus collis assurgit antiqua cupressu nemorosus et opacus. Hunc subter fons exit, et exprimitur pluribus venis sed imparibus, eluctatusque facit gurgitem, qui lato gremio patescit purus et vitreus, ut numerare jactas stipes et relucentes calculos possis . . . Plin. Sec. Epist. L. VIII. 8. E qui ne giova il ricordare quello che sul proposito ne dice il P. La Cerda nelle note al verso 143 del II. delle Georgiche. Ebbe origine, egli dice, da queste divinità, che una parte sola di questo fiume potea navigarsi, ma non vi si potea nuotare. Plinio nella citata lettera aggiunge: Ponte (Clitumnus) transmittitur. Is terminus sacri profanique, in superiori parte navigare tantum, infra natare etiam concessum. Questo è il senso che tutti danno a Plinio. Ma forse egli dice che questo fiume nella parte superiore permette la navigazione, nella inferiore anche il poter nuotare; ma nella parte media, dove è sacro, nè il navigar nè il nuotare era permesso. Perchè egli stesso parlando del lago di Vadimone nell’Etruria soggiunge, nulla in hoc navis, sacer enim est. Così Platone nel 1 delle Leggi afferma, perfino la pescagione essere proibita ne’ fiumi sacri. Piscator nec in portubus, nec in sacris fluviis, paludibus, stagnisque venetur: in aliis liceat.
- ↑ V. Bullett. Archeol. 1838 p. 65, e 1842. p. 179.