La sottana del Diavolo/Una citazione
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Una citazione.
Nicola Bordello entrò quella sera nell’osteria della «Testa d’asino» di assai cattivo umore. Diede subito una pedata al gatto, e sedutosi sulla panca con una mossaccia che gli scosse sulla fronte l’arruffata chioma picchiò un gran pugno sulla tavola esclamando senza la menoma intenzione di fare un giuoco di parole:
— Mondo infame.
La frase, per quanto energica, passò inosservata accanto a un piccolo gruppo di contadini che stavano discutendo dei loro affari, confidandoli a un vinello un po’ acido, non tanto però che le mosche non accorressero da ogni parte a contenderlo — essendo pur vero che quando si tratta di pigliare ogni cosa torna buona. Solamente l’oste il quale stava dietro il banco grattandosi la testa ed i fastidi insieme sbirciò con indolenza il nuovo arrivato biascicando:
— Il solito ottavino?
— Un quartuccio perbacco e crepi la miseria! — esclamò ancora Nicola assestando un secondo formidabile pugno.
L’oste che non era nè guercio nè bolognese, ma che oste era, capì che lì ci stava un gran fuoco da estinguere e, dato di piglio al quartuccio e messolo sulla tavola, rimase in piedi davanti all’avventore con una cotal sua aria rimminchionita e dabbene che chiamava le confidenze come il cacio il pane.
Nicola Bordello prese il quartuccio e rovesciando indietro il capo ne bevette a garganella una buona metà ascoltando con piacere il glu glu del liquido che gli scendeva nell’ampio torace. Almeno bere si può sempre.
— Quest’anno, — disse l’oste, — il vino sarà anche migliore. Le viti sono di una bellezza....
— Accidenti! — esclamò Nicola sferrando il suo terzo pugno.
L’oste rimase al pari di colui che avendo spianato il fucile verso un uccello pianamente posato in ramo se lo vede volar via ad un tratto. Per paura di far peggio stette zitto.
Fu Nicola Bordello che dopo un po’ di tempo pizzicandosi il naso soggiunse:
— A me le capitan tutte.
L’oste si accontentò di fare: hum! hum! con un tono che non voleva dir nulla; e fu appunto quello che ispirò fiducia all’altro.
— Tu eri presente, nevvero, quando ebbi una disputa uno di questi giorni con Maso del Ghero, quello scimunito?...
L’oste tornò a fare: hum! hum!
— Ma già a lavare la testa all’asino (non parlo della tua, sai) si butta via sapone e ranno. Cosa mi salta in mente di volergli spiegare che cos’è la repubblica, come se lui potesse intendermi! Così da una parola all’altra ci siamo riscaldati la bile, ti ricordi?
— Vagamente.
— E gli dissi il fatto suo che gli stava bene, a quell’animale, ma niente di più del fatto suo; e nessuno ha parlato della Ghita del bosco che se ne infischia di lui; per questo il motivo della disputa non fu altro che la repubblica; tienilo a mente, la repubblica. Ora dimmi un po’ per quale ragione m’ha tagliato nella vigna sette piedi di vite, che se non gli capita addosso mio padre la era tutta spacciata?
— Sette piedi di vite ti ha tagliato?
— Sette. Per vendetta che gli diedi dell’imbecille, come se la colpa fosse mia e non di sua madre che quando era gravida di lui ebbe certo voglia di una zucca. — E quando è stato? — chiese l’oste con un interesse mediocre, solo per sostenere il discorso.
Ma Nicola Bordello ora che aveva dato la stura all’eloquenza non intendeva di finirla così subito. Buono che si fece portare un altro quartuccio prima di entrare nei particolari della sua disgrazia. Avvenne però questo, che le chiacchiere e il vino invece di calmarlo non fecero che eccitarlo maggiormente, al punto che gridava e smaniava sulla panca dell’osteria quando entrò per l’appunto il maresciallo dei carabinieri a farsi dare una gazosa perchè moriva dal caldo. Nicola Bordello vociava in quel momento:
— Non sono nemmeno io se non glie la faccio vedere a quel cane! Sette denti gli voglio strappare, sette martellate gli voglio dare!
L’oste ammiccò al maresciallo e questi che conosceva Nicola gli si avvicinò bel bello sorridendo col passo cauto della donnicciuola a cui è fuggito il merlo:
— Calma, calma, con chi l’avete, diavolo?
— L’ho che vedo rosso questa volta (Dio sa se intendeva rosso di sangue o rosso di vino) e uno sproposito lo faccio come è vero che mi chiamo Nicola.
— Perchè volete fare uno sproposito, — soggiunse il maresciallo con tono conciliativo, dopo di avere ascoltato il racconto di Nicola, — quando c’è modo di farvi rendere giustizia dai tribunali?
— I tribunali! — mormorò Nicola colpito dalla grandiosità della parola e dal mistero che in essa si celava, — possono forse i tribunali rendermi le mie viti?
— Possono obbligare Maso del Ghero a rifondervi i danni.
Gli occhi di Nicola luccicarono per improvvisa cupidigia, ma l’oste osservò:
— Maso è un po’ corto di cervello. Chi sa se gli riconoscerebbero la responsabilità del mal fatto.
— Non importa, — soggiunse il funzionario, — i suoi genitori rispondono di lui ed hanno di che pagare sette piedi di vite.
— Ben detto! — esclamò Nicola. — Questa è giustizia. Io però non so come si fa a parlare ai tribunali.
— Se non è che questo vi aiuterò io a stendere l’atto d’accusa.
— Nel quale direte che fu in seguito a una disputa politica, senza parlare della Ghita del bosco che non c’entra per nulla.
— Come vorrete.
— In causa della repubblica, che lui non capíva che è il modo di comandare un po’ tutti....
— Ma sì, ma sì.
— E siete sicuro che lo obbligheranno a rifondermi i danni?
— Almeno credo, se le cose stanno come le avete raccontate voi; ma anche alla peggio, male non ve ne può venire.
— Pare anche a me, — concluse l’oste che vedeva spuntare all’orizzonte un nuovo quartuccio.
In tal modo la querela di Nicola Bordello contro Maso del Ghero fu decisa.
*
— Gli faccio causa, — ripeteva in quei giorni Nicola a tutti i suoi conoscenti, smanioso di farsi pagare il guasto delle viti ed anche fiero di quell’improvviso contatto coi tribunali che doveva, secondo lui, accrescergli importanza. — In paese almeno sapranno che a Nicola Bordello non la si fa impunemente.
Quando uscì la citazione egli corse a casa con passi di un trabucco l’uno ed al vecchio che rimestava la cenere del focolare per trovare una brace da accendere la pipa gridò tutto giulivo:
— È qui! È qui!
Padre e figlio consultarono attentamente il foglio di carta bollata nel quale si diceva che il querelante Nicola Bordello doveva presentarsi al tribunale della città di*** la mattina del giorno 28 alle ore nove precise.
— Ti daranno subito il denaro? — chiese il vecchio smettendo di soffiare sulla brace.
— Sfido io! e per che cosa mi chiamerebbero allora?
— Te ne daranno molto?
— Tutto quello che mi viene di sacrosanto diritto.
— Perchè, vedi, si son dati dei casi.... io almeno ho visto qualcuno a pigliare di più, capisci? Tu puoi dire intanto che era la miglior vite del podere; questo non è vero, ma tu lo devi dire.
— Sicuro.
— I genitori di Maso del denaro ne hanno, dunque paghino. Il tribunale non deve nemmeno sapere che noi quella vite la si sradicava lo stesso perchè era troppo fitta. È necessario dire in pubblico i nostri interessi?
— Giustissimo.
— Col denaro potremo invece rifare il tetto della stalla.
— O comperare l’oro per la sposa, — scattò fuori Nicola fregandosi le mani.
— Si vedrà, si vedrà, — disse il vecchio senza entusiasmo.
— Ma della Ghita in tribunale non parlo, — continuò Nicola con fuoco, — se Maso crede ch’ella lo voglia sposare per i suoi denari si inganna, si inganna, si inganna! La Ghita se ne infischia di lui e noi la lite l’abbiamo fatta per questioni politiche, lo giuro.
I due uomini stavano ancora discorrendo quando entrò tutta umile e compunta la madre di Maso e così sbigottita che sembrava una delle tre Marie reduce dal Calvario.
— Con permesso, — ella incominciò, — scusate se entro in casa vostra, ma è per il mio figliolo che voglio bene sperare non me lo lascerete solo nel ginepraio. Ha ricevuto la citazione per il giorno 28 alle ore nove precise e non sa che cosa fare, poverino.
— Come non sa? — gridò Nicola. — Non è per altro difficile. Egli se ne va a*** dove andrò anch’io e ci presenteremo al tribunale che farà giustizia. Vedremo quanto glie li faranno pagare i sette piedi di vite che mi ha tagliato, oltre lo scorno e il dispiacere.
— Non è questo, non è questo, — gemette la donna, — se aveste parlato con me prima di fargli quella figuraccia della citazione si sarebbe potuto accomodare tutto fra noi; ed ora invece mi tocca di vedere il mio sangue a andare insieme ai ladri ed agli assassini.
— Ma che ladri, ma che assassini, — disse il vecchio scuotendo la pipa, — quando vostro figlio ci avrà dato quello che ci viene saremo amici come prima.
— E non si poteva esserlo senza tirare in ballo i tribunali?
— Oramai ciò che è fatto è fatto, — disse Nicola, — la colpa non è mia. Non sono entrato io nel vostro podere a danneggiarvelo. Ognuno ha quel che si merita e la giustizia è la giustizia.
— Ma almeno — riprese la donna con accento lamentevole — non lasciatelo solo nel ginepraio. Egli non è molto svegliato di mente, lo sapete....
— Oh! se lo so! — disse Nicola squassando la folta chioma nel trionfo intimo della propria superiorità.
— Dunque usategli un po’ di misericordia. Mio marito che ha una risipola in una gamba non lo può accompagnare; prendetevelo insieme per andare a ***. Egli non ne verrebbe mai a capo da solo. È pentito, ve lo assicuro.
— Confesserà almeno in tribunale che il torto è tutto suo?
— Confesserà.
— E pagherà? — soggiunse il vecchio.
— Pagherà.
— E allora tutto va bene, — concluse Nicola, — ditegli che lo aspetto.
Ma la madre di Maso uscendo e tirandosi la pezzuola del capo sulla faccia perchè in seguito alla faccenda della citazione si vergognava di mostrarsi in paese, pensava:
— Eppure non c’era proprio bisogno dei tribunali!
*
— Il treno delle 8,15 non si piglia.
— E mo’ perchè?
— Perchè arriva alle 9,30 e l’udienza è per le 9.
Il vecchio padre cui Nicola, la sera prima di partire stava facendo l’osservazione, crollò la testa in aria di compatimento.
— Che ci fa? Minuto più, minuto meno....
— Il diretto parte alle 7,50. Quello sì anderebbe bene! Ma non ha la terza classe.
— Dici poco? Oltre il danno, il processo, il viaggio, sta a vedere che dovremo pagare la seconda classe.
— Per questo no, non ho intenzione di regalare i miei soldi alla ferrovia. Piuttosto beverli.
— Così va fatto. E che il tribunale aspetti! Tanto, cosa gli importa a lui? È pagato apposta per star là in poltrona ad aspettare le parti. Del resto non è nemmeno sicuro che il treno arrivi alle 9,30. Sbaglia il prete a dir messa; non può sbagliare anche un treno?
— E poi, — fece Nicola illuminato da un pensiero improvviso, — nessuno è tenuto a fare l’impossibile. Noi non possiamo prendere il diretto che è il treno dei signori, va bene? E dunque non è colpa nostra se il treno della povera gente arriva alle 9,30. Questo ragionamento è così giusto che il tribunale non ci può trovar nulla a ridire. Io gli dichiarerò con tutta schiettezza: Signor tribunale noi eravamo pronti. È il treno che non era pronto.
— Impari il tribunale a studiare i treni prima di citare la povera gente, — brontolò il vecchio.
— Oppure, — sghignazzò Nicola, — ci ordini un treno apposta. Noi siamo nel nostro diritto, noi! Il governo ne fa abbastanza delle prepotenze, ma non può obbligarci a pigliare un treno che non ci accomoda. Ecco, dirò a quella bestia di Maso, ecco se non lo capisci ancora cosa vuol dire repubblica!
Maso per altro non fece nessuna difficoltà. La mattina del 28 giunse vestito a nuovo, con una penna di gallo nel cappello e le scarpe che facevano crac crac ad ogni passo. Teneva sul braccio un’ampia sporta piena d’ogni ben di Dio; cacio, pane, un pollo arrosto, tanto salame da poter mettere bottega e un fiasco di vin vecchio; tutta roba che la sua buona mamma gli aveva ficcato addosso per forza temendo le peripezie del viaggio, fra cui, terribile, quella di patire la fame.
— Andate, — disse il vecchio, — e che Dio vi aiuti.
Nicola si voltò sulla soglia:
— Purchè il treno arrivi proprio alle 9,30!...
— Minuto più, minuto meno, — tornò a fare il vecchio crollando le spalle come colui che certe fisime non gli entrano, — chi ci bada? e cosa sono pochi minuti davanti all’eternità?
La frase l’aveva udita in chiesa una volta dal predicatore che era venuto a fare il quaresimale e gli parve di bell’effetto per incoraggiare i due giovinotti i quali correvano già attraverso i campi per andare a raggiungere il treno delle 8,15.
Il mattino era bello, l’ora fresca, i prati verdi; viaggiare in treno era un piacere. Nicola Bordello e Maso del Ghero lo riconobbero subito cacciandosi fuori degli sportelli colla gioia rumorosa ed ingenua di chi viaggia di rado. Poi fosse l’aria, il moto o la novità sentirono presto gli stimoli della fame, e la sporta che la mamma di Maso aveva così bene approvvigionata venne a proposito che mai più. Seduti l’uno dirimpetto all’altro cogli occhi allegri e le mandibole voraci, mangia tu che mangio anch’io, bevi tu che bevo anch’io, lo scopo per cui si trovavano insieme venne quasi dimenticato e non erano ancora a mezza strada che già si erano abbracciati brindando all’amicizia.
Come il vecchio aveva pronosticato sbaglia il prete a dir messa, possono sbagliare l’orario anche i treni; questo difatti invece di giungere alle 9,30 entrò in stazione alle 9,45.
— Che fa! — disse Nicola — minuto più, minuto meno....
Querelante e querelato entrarono in*** tenendosi sotto braccio come Damone e Pizia, non molto fermi sulle gambe a dir vero, ma pieni di speranza; e così mossero verso il tempio della Giustizia che trovarono chiuso.
— To’, — fece Maso, — il tribunale ha la faccia di legno.
Venne fuori in quel momento l’usciere che domandò loro che cosa volevano. Fu Nicola che prese la parola:
— Noi siamo quei due che ebbero una bega per ragioni politiche, e costui mi tagliò sette piedi di vite, che la repubblica non glie lo avrebbe mai permesso e per questo....
— Siete Nicola Bordello? — interruppe brusco l’usciere.
— Sono.
— E dov’è Maso del Ghero?
— Presente.
— Non essendo sul posto all’ora prescritta, — riprese l’usciere sempre più brusco, — il Tribunale ha fatto il processo senza di voi.
— Questa è bella! — esclamò Nicola, — come avrà fatto se non gli dissi le mie ragioni?
— Le ha dette per voi l’avvocato.
— E come poteva saperle l’avvocato?
— Gli avvocati sanno tutto.
— Bè, e che si fa ora?
— Ora si paga. Maso del Ghero per aver tagliato a scopo di vendetta sette piedi di vite nel podere di Nicola Bordello condannato in lire cinquanta....
— Che è giustizia! — gridò Nicola puntando l’indice verso il portone chiuso.
— .... e Nicola Bordello per non essersi presentato all’ora indetta lire cinquanta.
— Io! Io! Che c’entro io? Io pagare cinquanta lire? Non le ho tagliate io le viti. No! No! Giustizia! Voglio giustizia! Aprite il portone. Parlo io. La repubblica....
E cadde di botto sul sentiero.
Accorsero dalle case vicine uomini e donne spaventate chiedendo se era morto.
— No, — disse l’usciere con calma, — è solamente ubbriaco.
Maso del Ghero un po’ intontito si raddrizzava sul cappello la penna di gallo.