La sesta crociata, ovvero l'istoria della santa vita e delle grandi cavallerie di re Luigi IX di Francia/Parte seconda/Capitolo XXX

Capitolo XXX

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Capitolo XXX.

Come io fossi preso, e condotto in fine di vita, e poi guarito per un beveraggio datomi da un buon Saracino.


Ma, lasciando per ora questa materia, e rivenendo a me, ben dovete sapere che noi altri i quali eravamo in acqua sui nostri vascelli istimando scappare sino a Damiata, non fummo punto più abili o benagurosi di coloro ch’erano rimasi a terra, perchè noi fummo presi altresì come udirete qui appresso. Il vero è che, istando noi sull’acqua, si levò un terribile vento contro noi, che veniva di verso Damiata, il quale ci tolse il corso dell’acqua per modo che, non bastando ad appoderarlo, ci convenne tornare a dietro verso li Saracini. Il Re avea ben lasciato ed ordinato molti Cavalieri a guardare i malati sulla riva del fiume, ma ciò non ci servì di niente per tirarci ad essi, da che se n’eran tutti fuggiti. Or quando venne verso la punta del giorno, bassò il vento, e noi calammo sino al passaggio nel quale erano le galee del Soldano che guardavano il fiume sì che alcun vivere non fusse ammenato da Damiata all’oste, donde è stato toccato qui davanti. E quando essi ci ebbero scorto, levarono un gran bruìto e cominciarono a trarre su noi, e sovra gli altri nostri Cavalieri ch’erano da l’altro lato della riva, [p. 131 modifica]verrette ardenti di fuoco greco a fusone, tanto che sembrava che le stelle cadessono di cielo. Ed in quella che i miei marinieri avean guadagnato il ratto della corrente per passar oltre, e che potevam vedere i Cavalieri lasciati a guardia de’ malati speronare verso Damiata, ecco il ventavolo che si va a rilevare più forte che davante e ci getta dalla correntìa in costa a l’una delle rive del fiume. Ed all’altra riva ci avea si grande quantità di vascelli delle nostre genti che i Saracini avean preso e guadagnato, che noi non osammo avvicinarli. Ed istando così senza smuoverci noi vedevam bene che essi uccidevano le genti che vi eran dentro e gittavanle nell’acqua; e li vedevamo simigliantemente trar fuora delle navi li cofani e li arnesi ch’essi avean guadagnato. E per ciò che non volevamo andare ai Saracini, che ci minacciavano, essi ci tiravano gran forza di saettame. Ed allora io mi feci vestir l’usbergo affinchè i dardi che cadevano nel nostro vascello non mi impiagassero. Ora a capo del vascello ci avea delle mie genti, le quali cominciano gridarmi: Sire, Sire, il nostro nocchiere per ciò che i Saracini il minacciano ci vuol menare a terra là ove noi saremmo tantosto ancisi e morti. Adunque io mi feci sorreggere, sendo malato, e presi la mia spada tutta nuda, e dissi ai marinieri ch’io li taglierei se si argomentavano più avanti di menarmi a terra tra Saracini. Ed essi mi vanno rispondere, che non per ciò mi farebbono passar oltre, e per tanto ch’io avvisassi lo quale amava il meglio, o ch’essi mi menassero a riva, o ch’essi mi [p. 132 modifica]ancorassero nella riviera. Ed io amai meglio, donde poi ben mi prese in così come voi udirete, che essi mi ancorassero nel fiume, di quello che mi menassero a riva dove io vedeva tagliare le nostre genti; e così mi credettono, e così fu fatto. Ma non tardò guari che tantosto ecco qui venire verso noi quattro delle galee del Soldano, nelle quali avea forse due mila uomini. Allora io appellai li miei Cavalieri, e richiesi ch’essi mi consigliassono di ciò ch’era a fare, o di renderci alle galee del Soldano che s’approssimavano, o d’andare a renderci a coloro ch’erano a terra. Fummo tutti d’un accordo ch’egli valeva meglio renderci a quelli delle galee, per ciò ch’essi ci terrebbero tutti insieme, che di renderci a quelli di terra, i quali ci avrebbono tutti separati gli uni dagli altri, ed avrebbonci per avventura venduti ai Beduini di cui vi ho parlato davanti. A questo consiglio non volle mica consentire un mio Cherco ch’io aveva, ma diceva che tutti ci dovevamo lasciar uccidere a fine di andare in Paradiso. Ciò che noi non volemmo credere, perchè la paura della morte ci pressava troppo forte.

Quando io vidi ch’egli era forza di rendermi, io presi un piccolo cofanetto ch’avea tutto presso, ove erano i miei gioielli e le mie reliquie, e gittai tutto didentro il fiume. In quella mi disse l’uno de’ miei marinieri che s’io non gli lasciava dire ai Saracini ch’io era cugino del Re, ch’essi ci taglierebbono tutti; ed io gli risposi ch’e’ dicesse ciò che e’ volesse. E adunque ecco arrivare a noi la primiera delle quattro galee che venia di traverso e [p. 133 modifica]gittar l’ ancora tutto presso il nostro vascello. Allora m’inviò Dio, e in così ben credo che venisse da lui, un Saracino che era della terra dello Imperadore Federigo1, il quale avea vestito soltanto una brachessa di tela cruda, e venne nuotando per mezzo l’acque diritto al mio vascello, e salitovi sovra m’abbracciò per gli fianchi, e mi disse: Sire, se voi non mi credete, voi siete perduto, perch’egli vi conviene per salvarvi mettervi fuori della vostra nave e gittarvi nell’acqua, ed essi non vi vedranno mica, per ciò ch’elli s’attenderanno al guadagno del vascello. Detto questo mi fe’ gittare una corda dalla loro galea sulla tolda della mia nave, e con quella mi collai nell’acqua, e il Saracino a pruovo; donde gran bisogno mi fu per sostenermi e condurmi nella galea, perchè io era sì fievole di malattia che andava tutto vagellando e sarei caduto al fondo del fiume.

Io fui tirato sin dentro la galea, nella quale avea ben ancora ottanta uomini oltre quelli ch’erano entrati nel mio vascello, e quel povero Saracino mi teneva tuttavia abbracciato. E tantosto fui portato a terra, e mi corsero su per volermi tagliar la gola, e bene mi ci attendea, e colui che m’avrebbe scannato pensava tenerselo a molto onore. Ma quel Saracino che m’avea tolto fuori del mio vascello, non mi voleva lasciare, anzi gridava loro: Il cugino del Re, il cugino del Re. Ed allora io che m’era già sentito il coltello tutto presso la gola, e che m’era [p. 134 modifica]già messo in terra ginocchione, mi vidi liberato di quel periglio all’aìta di Dio e di quel povero Saracino, il quale mi menò sino al castello là ove erano li Caporali de’ Saracini. E quando io fui con loro, essi mi levarono l usbergo, e di pietà che ebbero di me, veggendomi così malato, mi gittarono indosso una mia coperta d’iscarlatto foderata di vajo minuto che Madama mia Madre m’avea donato; ed un altro d’essi m’apportò una coreggia bianca di che mi cignessi per disopra il mio copertoio, e sì un altro de’ Cavalieri Saracini mi diè un capperoncello ch’io misi sulla mia testa. Dopo di che cominciai a tremare ed a incocciar li denti, sì della grande paura ch’io aveva, e sì ancora della malattia. Domandai allora a bere, e mi si andò cherère dell’acqua in un pozzo, e sì tosto ch’io ne ebbi messo in bocca per avallarla, essa mi salse invece per le narici. Dio solo sa in qual pietoso punto era allora, perchè sperava molto più la morte che la vita, avendo l’apostema alla gorga. E quando le mie genti mi videro così sortir l’acqua per le narici, essi cominciarono a plorare, ed a menar grande duolo; e il Saracino che m’avea salvato domandò loro perchè ploravano, ed essi gli fecero intendere ch’io era pressochè morto, e ch’io aveva alla strozza l’apostema, la quale mi strangolava. E quel buon Saracino, che sempre aveva avuto pietà di me, lo va a dire ad uno de’ suoi Cavalieri, e questi risposegli: mi confortasse a sicuro, chè egli mi donerebbe qualche cosa a bere, donde sarei guerito entro due dì, ed in così fece; e veramente ne [p. 135 modifica]fui guerito all’aiuto di Dio e di quel beveraggio che mi diede il Cavaliere Saracino.

  1. Federico II, che era stato coronato Re di Gerusalemme, e teneva alquante piazze forti di quel Reame.