La secchia rapita (1930)/Dichiarazioni di Gaspare Salviani alla Secchia rapita/Canto decimo

Canto decimo

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Dichiarazioni di Gaspare Salviani alla Secchia rapita - Canto nono Dichiarazioni di Gaspare Salviani alla Secchia rapita - Canto undecimo
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CANTO DECIMO

S. 7, v. 1: In quel tempo s’usava questa lingua, come si può vedere dalle storie e dai versi de’ litterati che fiorivano allora, assai rozzi. Ma qui il poeta picca coloro che oggidí chiamano questa la lingua del buon secolo, e la vorrebbero rimettere in uso; mostrando loro come riuscirebbe alla prova. Le cose cadute dall’uso è vanitá il volerle sostentare. Il sale della satira è il condimento della comedia. Ma il poeta sfuggí di chiamare questa sua invenzione nuova di poetare «eroisatiricomica», sapendo quanto il nome di satira sia odioso in questi tempi e sospetto a quelli particolarmente che dominano.

S. 10, v. 8: Chiama gran re dell’oceano il re cattolico per lo vasto dominio ch’egli ha nell’oceano, che è dominato da lui dalle colonne d’Ercole fin sotto il polo antartico: onde a riguardo del mare il sole nasce e tramonta ne’ regni suoi.

S. 23, v. 1: Chiama Venere «moro» Libecchio, perché nasce in Mauritania; il chiama «cane», perché quivi i popoli vivono senza politica, e il chiama «senza fede», perché gli africani hanno sempre avuto per uso il mancar di fede.

S. 24, v. 3: Della prigionia di Corradino di Svevia seguita ad Astura per tradimento del signore di quella terra leggi il Villani: e veramente quella terra oggidí è distrutta e tutto il territorio è diserto, che pare appunto vendetta celeste.

S. 26, v. 8: Chiama dea del mare Venere, perché nacque dal mare, e reina del mare la cittá di Napoli perché domina tutto quel mare.

S. 27, v. 3: Manfredi principe di Taranto e poi re di Napoli fu veramente innamorato della contessa di Caserta sua sorella. Veggansi l’istorie di Napoli e le lettere di Paolo Manuzio ove porta uno squarcio di questa istoria.

Qui alcuni hanno richiesto perché il poeta non séguiti a narrare quel che facesse Manfredi per liberare il fratello dalle mani de’ bolognesi. E non s’avveggono che il poeta finisce la favola della Secchia alla quale è obbligato, e che questa è un’altra istoria, [p. 255 modifica] e che seguita la pace, il lettore dee imaginarsi o che Manfredi non facesse altro o che cominciasse un’altra guerra da sé. Neanco il Tasso descrive ciò che avvenisse d’Armida e d’Erminia dopo la presa di Gerusalemme, perché erano cose fuora della favola proposta da lui.

S. 36, v. 2: Napoletanamente.

S. 42, v. 7: Versi romaneschi.

S. 33, v. 7: Questa è quella sorta di ridicolo che propriamente vien chiamata da Aristotile nella Poetica: Turpitudo sine dolore, che fa nascere il riso dalle azioni: ma del riso che nasce dalle parole non ne favellò Aristotile.

S. 60, v. 7: Questi versi dicevano prima cosí:

né distinguendo ben dal fico il pesco,
scusavanlo col dir: gli è romanesco.

Ma fu giudicato troppo satirico e fu corretto.

S. 74, v. 1: Cava il ridicolo dalla cattiva pronuncia romanesca, come di sopra a ottave 42. Ma qui è contrasegno d’un personaggio noto in Roma.

S. 74, v. 3: Questo fu veramente fiscal di Modana, ma ne’ tempi piú moderni; e scontrando una volta certi banditi, si cacò ne’ calzoni di paura: ma essi nol conobbero e ’l lasciarono andare cosí merdoso: che se l’avessero conosciuto, guai a lui. — È nondimeno da avvertire che questa di Titta, come ho detto, fu veramente azione d’un romanesco; il quale vantandosi d’esser parente del papa, non voleva esser condotto prigione in Torre di Nona, ma in Castello Sant’Angelo.