La scienza nuova seconda/Libro terzo/Appendice
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[APPENDICE]
ISTORIA DE’ POETI DRAMATICI E LIRICI RAGIONATA
905Giá dimostrammo sopra tre essere state l’etá de’ poeti innanzi d’Omero: la prima de’poeti teologi, ch’i medesimi furon eroi, i quali cantarono favole vere e severe; la seconda, de’ poeti eroici, che l’alterarono e le corruppero; la terza d’Omero, ch’alterate e corrotte le ricevette. Ora la stessa critica metafisica sopra la storia dell’oscurissima antichitá, ovvero la spiegazione dell’idee ch’andarono naturalmente faccendo le antichissime nazioni, ci può illustrar e distinguere la storia de’ poeti dramatici e lirici, della quale troppo oscura e confusamente hanno scritto i filosofi.
906Essi pongono tra’ lirici Anfione metinneo, poeta antichissimo de’ tempi eroici, e ch’egli ritruovò il ditirambo e, con quello, il coro, e che introdusse i satiri a cantar in versi, e che ’l ditirambo era un coro menato in giro, che cantava versi fatti in lode di Bacco. Dicono che dentro il tempo della lirica fiorirono insigni tragici, e Diogene Laerzio afferma che la prima tragedia fu rappresentata dal solo coro. Dicono ch’Eschilo fu il primo poeta tragico, e Pausania racconta essere stato da Bacco comandato a scriver tragedie (quantunque Orazio narri Tespi esserne stato l’autore, ove nell’Arte poetica incomincia dalla satira a trattare della tragedia, e che Tespi introdusse la satira sui carri nel tempo delle vendemmie); che appresso venne Sofocle, il quale da Palemone fu detto l’«Omero de’ tragici»; e che compiè la tragedia finalmente Euripide, che Aristotile chiama τραγικώτατον. Dicono che dentro la medesima etá provenne Aristofane, che ritruovò la commedia antica ed aprí la strada alla nuova (nella quale caminò poi Menandro), per la commedia d’Aristofane intitolata Le nebbie, che portò a Socrate la rovina. Poi altri di loro pongono Ippocrate nel tempo de’ tragici, altri in quello de’ lirici. Ma Sofocle ed Euripide vissero alquanto innanzi i tempi della legge delle XII Tavole, e i lirici vennero anco dappoi; lo che sembra assai turbar la cronologia, che pone Ippocrate ne’ tempi de’ sette savi di Grecia.
907La qual difficultá per sol versi, deesi dire che vi furono due spezie di poeti tragici ed altrettante di lirici.
908I lirici antichi devon essere prima stati gli autori degl’inni in lode degli dèi, della spezie della quale sono quelli che si dicon d’Omero, tessuti in verso eroico. Dipoi deon essere stati i poeti di quella lirica onde Achille canta alla lira le laudi degli eroi trappassati. Siccome tra’ latini i primi poeti furono gli autori de’ versi saliari, ch’erano inni che si cantavano nelle feste degli dèi da’ sacerdoti chiamati «salii» (forse detti cosí dal saltare, come saltando in giro s’introdusse il primo coro tra’ greci), i frantumi de’ quali versi sono le piú antiche memorie che ci son giunte della lingua latina, c’hanno un’aria di verso eroico, com’abbiam sopra osservato. E tutto ciò convenevolmente a questi principi dell’umanitá delle nazioni, che ne’ primi tempi, i quali furon religiosi, non dovetter altro lodar che gli dèi (siccome a’ tempi barbari ultimi ritornò tal costume religioso, ch’i sacerdoti, i quali soli, come in quel tempo, erano letterati, non composero altre poesie che inni sagri); appresso, ne’ tempi eroici, non dovetter ammirare e celebrare che forti fatti d’eroi, come gli cantò Achille. Cosí di tal sorta di lirici sagri dovett’esser Anfione metinneo, il qual altresí fu autore del ditirambo; e il ditirambo fu il primo abbozzo della tragedia, tessuta in verso eroico (che fu la prima spezie di verso nel quale cantarono i greci, come sopra si è dimostrato); e si il ditirambo d’Anfione sia stata la prima satira, dalla qual Orazio comincia a ragionare della tragedia.
909I nuovi furono i lirici melici, de’ quali è principe Pindaro, che scrissero in versi che nella nostra italiana favella si dicon «arie per musica»; la qual sorta di verso dovette venire dopo del giambico, che fu la spezie di verso nel quale, come sopra si è dimostrato, volgarmente i greci parlarono dopo l’eroico. Cosí Pindaro venne ne’ tempi della virtú pomposa di Grecia, ammirata ne’ giuochi olimpici, ne’ quali tai lirici poeti cantarono; siccome Orazio venne a’ tempi piú sfoggiosi di Roma, quali furono quelli sotto di Augusto; e nella lingua italiana è venuta la melica ne’ di lei tempi piú inteneriti e piú molli.
n910I tragici poi e i comici corsero dentro questi termini: che Tespi in altra parte di Grecia, come Anfione in altra, nel tempo della vendemmia diede principio alla satira, ovvero tragedia antica, co’ personaggi de’ satiri, ch’in quella rozzezza e semplicitá dovettero ritruovare la prima maschera col vestire i piedi, le gambe e cosce di pelli caprine, che dovevan aver alla mano, e tingersi i volti e ’l petto di fecce d’uva, ed armar la fronte di corna (onde forse finor, appresso di noi, i vendemmiatori si dicono volgarmente «cornuti»); e si può esser vero che Bacco, dio della vendemmia, avesse comandato ad Eschilo di comporre tragedie. E tutto ciò convenevolmente a’ tempi che gli eroi dicevano i plebei esser mostri di due nature, cioè d’uomini e di caproni, come appieno sopra si è dimostrato. Cosí è forte congettura che, anzi da tal maschera che da ciò: — che in premio a chi vincesse in tal sorta di far versi si dasse un capro (il qual Orazio, senza farne poi uso, riflette e chiama pur «vile»), il quale si dice τραγός, — avesse preso il nome la tragedia, e ch’ella avesse incominciato da questo coro di satiri. E la satira serbò quest’eterna propietá, con la qual ella nacque, di dir villanie ed ingiurie, perché i contadini, cosí rozzamente mascherati sopra i carri co’ quali portavano l’uve, avevano licenza, la qual ancor oggi hanno i vendemmiatori della nostra Campagna felice, che fu detta «stanza di Bacco», di dire villanie a’ signori. Quindi s’intenda con quanto di veritá poscia gli addottrinati nella favola di Pane, perché πᾶν significa «tutto», ficcarono la mitologia filosofica che significhi l’universo, e che le parti basse pelose vogliati dire la terra, il petto e la faccia rubiconda dinotino l’elemento del fuoco, e le corna significhino il sole e la luna. Ma i romani ce ne serbarono la mitologia istorica in essa voce «satyra», la quale, come vuol Festo, fu vivanda di varie spezie di cibi: donde poi se ne disse «lex per satyram» quella la quale conteneva diversi capi di cose: siccome nella satira dramatica, ch’ora qui ragioniamo, al riferire di esso Orazio (poiché né de’ latini né de’ greci ce n’è giunta pur una), comparivano diverse spezie di persone, come dèi, eroi, re, artegiani e servi. Perché la satira, la quale restò a’ romani, non tratta di materie diverse, poiché è assegnata ciascheduna a ciaschedun argomento.
911Poscia Eschilo portò la tragedia antica, cioè cotal satira, nella tragedia mezzana con maschere umane, trasportando il ditirambo d’Anfione, ch’era coro di satiri, in coro d’uomini. E la tragedia mezzana dovett’esser principio della commedia antica, nella quale si ponevan in favola grandi personaggi, e perciò le convenne il coro. Appresso vennero Sofocle prima, e poi Euripide, che ci lasciarono la tragedia ultima. Ed in Aristofane finí la commedia antica, per lo scandalo succeduto nella persona di Socrate; e Menandro ci lasciò la commedia nuova, lavorata su personaggi privati e finti, i quali, perché privati, potevan esser finti, e perciò esser creduti per veri, come sopra si è ragionato; onde dovette non piú intervenirvi il coro, ch’è un pubblico che ragiona, né di altro ragiona che di cose pubbliche.
912In cotal guisa fu tessuta la satira in verso eroico, come la conservarono poscia i latini, perché in verso eroico parlarono i primi popoli, i quali appresso parlarono in verso giambico; e perciò la tragedia fu tessuta in verso giambico per natura, e la commedia lo fu per una vana osservazione d’esempio, quando i popoli greci giá parlavano in prosa. E convenne certamente il giambico alla tragedia, perocch’è verso nato per isfogare la collera, che cammina con un piede ch’Orazio chiama «presto» (lo che in una degnitá si è avvisato): siccome dicono volgarmente che Archiloco avesselo ritruovato per isfogare la sua contro di Licambe, il quale non aveva voluto dargli in moglie la sua figliuola, e con l’acerbezza de’ versi avesse ridurti la figliuola col padre alla disperazion d’afforcarsi: che dev’esser un’istoria di contesa eroica d’intorno a’ connubi, nella qual i plebei sollevati dovetter afforcar i nobili con le loro figliuole.
913Quindi esce quel mostro d’arte poetica, ch’un istesso verso violento, rapido e concitato convenga a poema tanto grande quanto è la tragedia, la qual Platone stima piú grande dell’epopea, e ad un poema dilicato qual è la commedia; e che lo stesso piede, propio, come si è detto, per isfogare collera e rabbia, nelle quali proromper dee atrocissime la tragedia, siesi egualmente buono a ricevere scherzi, giuochi e teneri amori, che far debbono alla commedia tutta la piacevolezza ed amenitá.
914Questi stessi nomi non diffiniti di poeti «lirici» e «tragici» fecero porre Ippocrate a’ tempi de’ sette savi; il quale dev’esser posto circa i tempi d’Erodoto, perché venne in tempi ch’ancora si parlava buona parte per favole (com’è di favole tinta la di lui vita, ed Erodoto narra in gran parte per favole le sue storie), e non solo si era introdutto il parlare da prosa, ma anco lo scrivere per volgari caratteri, co’ quali Erodoto le sue storie, ed egli scrisse in medicina le molte opere che ci lasciò, siccome altra volta sopra si è detto.