La rivoluzione di Napoli nel 1848/18. Controcolpo in Italia

18. Controcolpo in Italia

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17. Il 29 gennaio 19. Lo statuto del 10 febbraio

[p. 63 modifica]18. L’espansione delle idee se era stata più sollecita a Napoli, non era men feconda nelle altre terre d’Italia. Napoli aveva risposta la prima al solenne appello del secolo; ma il Piemonte, la Toscana, Roma, e la grande voce di Lombardia e di Venezia non tardarono a farsi udire. La costituzione di Napoli era stata la lieve scintilla che aveva destato il grande incendio. Tutta la penisola da un capo all’altro subiva da lungo tempo l’azione di una disorganizzazione vitale. Il vecchio abito dell’assolutismo cadeva a brani, ed il bisogno della ricostruzione era universalmente sentito. Usati dal tempo e dalla forza, i principii del diritto pubblico che reggevano Italia, malgrado la trasfusione di sangue cui il congresso di Vienna li aveva sottomessi, non potevano più sostenersi. Lo spirito umano si era alzato in regioni troppo elevate. Inoltre la reazione senza misura dell’indegno Gregorio XVI sarebbe sola bastata a divorarne ogni resto di vigore, e a completarne l’impopolarità e l’anacronismo. Pio IX era la manifestazione di questa necessità sociale, e tutta Italia lo aveva compreso. Essa aspettava l’opportunità. La costituzione di Napoli colmò la sureccitazione, e fu come un colpo di azza per [p. 64 modifica]tutte le teste coronate di Europa. In quindici giorni il regime costituzionale era il regime governativo d’Italia, le provincie austriache eccettuate. La voce di Ezzechiello suonava sulle bianche ossa dei sepolcri: l’angelo della vita aveva soffiato sulla terra dello squallore. L’Italia torpida, l’Italia consunta, l’Italia eunuca, l’Italia cadavere non era più. Chi la percorreva trovava che la nobile natura, il fiero ingegno e il cuore indomito della regina del mondo civile viveva ancora, era ancora giovane e potente per concepire il voto della sua indipendenza e della sua unità. Il grido di tutti i petti fu uno, uno il volere di tutti i partiti — fuori il barbaro, viva l’Italia. E per questo inflessibile principio di ricompaginazione, al grido di morte all’austriaco, si accoppiò quello di viva Gioberti. Questo snervato utopista, germe primo dei nuovi mali d’Italia, aveva riscossa la polvere alle ambiziose idee di Gregorio VII e degli autori guelfi, e ce le aveva inviate come una scoperta per lui, una conquista per noi. Italia, con un consiglio di Stato consultativo, la censura sulla stampa, e tutta la fiducia possibile nell’amore paterno dei sovrani, a brani qual era, croata, svizzera, inglese, francese, l’Italia doveva federarsi sotto l’autorità suprema del papa, e cantare l’osanna della prosperità e della felicità. Malgrado queste puerilità, solo perchè aveva accennato di un mastice qualunque volere accozzata l’Italia, il nome di Gioberti fu salutato nella gioia universale. Ma quell’applauso non andava al suo sistema, andava all’idea immensa, all’idea di Dio, l’unità autonomica della penisola. L’idea madre della rivoluzione italiana era stata questa: noi volevamo principiare di là. E se la ricostruzione d’Italia fu stor[p. 65 modifica]nata, non ebbe attribuirsi a noi radicali che domandavamo si passasse sopra ad ogni altra quistione di forma, ma al partito moderato e costituzionale il quale nudriva ancora fede in quella povera mistificazione che chiamasi Carta, che credeva ancora il re un essere correggibile e disciplinabile. La loro speranza era uno sconoscere il principio motore della rivoluzione, era obliare che la costituzione era stata strappata dal pugno dei principi come una preda dagli artigli di un’aquila. I siri d’Italia non avevano ceduto, erano stati vinti dopo avere lungamente lottato. E noi trascurammo la vittoria! La reazione di oggi è frutto della spensierata fiducia di allora: eppure noi, disgraziati, illusi dal cuore, non faremo senno giammai. Sia comunque, l’anima ci tradì: ci ubbriacammo di gaudio e perdemmo di vista le manovre dei principi il cui odio giammai non riposa. Essi ci lasciarono rappresentare la parte di Sardanapalo nelle orgie, e rinchiusi nei loro pensieri, rivenuti dallo sbalordimento, cominciarono a veder netto nella scambievole situazione. La battaglia ci aveva dato tutto; col trattato di pace, con le costituzioni dovevamo tutto perdere. — Bisognava mettere l’Italia alla croce di uno statuto angusto come i forni di Monza, attaccare un popolo vivo ed attivo ad un cadavere. Bisognava galvanizzare un’aristocrazia morta sotto i colpi della rivoluzione francese, atterrirla se così facea d’uopo col fantasma del comunismo, allettarla di nuovi privilegi, per dividere in due interessi opposti la nazione. Bisognava mettere una barriera tra il cittadino e il soldato: e sopra tutto temporeggiare, per ispossare l’energia e l’entusiasmo degli spiriti. - In effetti per non parlar che di Napoli, undici giorni [p. 66 modifica]trascorsero prima che si sapessero gli articoli della convenzione tra il popolo e il principe. Undici giorni di anarchia, i quali se raffreddarono la foga della vittoria, e ci resero più inchinevoli a contentarci, ci provarono per lo meno l’inutilità se non il danno del governo. E pure in una città padrona di sè, libera, in preda al delirio, senza polizia, senza tribunali, senza soldati, senza legge di sorta, non il più piccolo accidente funestò la pubblica gioia.