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II. Commemorazioni - Diomede Marvasi

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II. Commemorazioni - Parole in morte di Luigi Settembrini II. Commemorazioni - Nino Bixio
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DIOMEDE MARVASI


Qui pietosa cura di moglie e di amici ha raccolto quanto rimane di Diomede Marvasi, memoria piú durevole della tomba ove è conservato il suo corpo. Qui è conservato di lui quello che non può morire, la sua anima.

La prima volta io lo vidi nella mia scuola, e non lo dimenticai piú. Fu tra i pochi immortali nella mia memoria. Lo vidi accanto a De Meis, a Lavista, a Vertunni, a De Luca, a Villari, a Minichini. Lo chiamavano Diomede, ed era gioja, brio, luce, il piú simpatico a Lavista, il piú caro a De Meis, quegli che Vertunni amava piú. E il povero maestro quando non lo vedeva domandava subito: e Diomede?

Era un bel giovane, dai capelli ricciuti, dagli occhi incisivi, dai tratti mobilissimi. La sua vita di rado rimaneva al di dentro pensosa, e traboccava al di fuori, e si spandeva allegra, e si attirava e si assimilava tutto, contraffacendo e caricando. La sua fisonomia rifletteva tutte le impressioni, e accentuava le piú vivaci, secondata dai gesti, da’ lineamenti, dal moto delle labbra e degli occhi, ch’era una grazia. A quel tempo era in moda Leopardi, e un velo di malinconia e di tenerezza oscurava la fronte dei giovani si che ne’ lavori anche ottimi della scuola sentivi non so che sentimentale e artificiato. Veniva su una specie di forma convenzionale, con impressioni a freddo, vergini infelici, cristiani morenti, racconti sepolcrali, elogi funebri. La morte di mia madre, la morte di alcuni carissimi giovinetti dava a questa forma naturale nutrimento. Ma Diomede non se ne contentava, e cosí per cortesia si univa agli applausi, con un’alzatina di [p. 255 modifica]spalla. La sua impressione pronta e sincera gli chiariva subito l’esagerazione, e in tanti languori teneri, se guardavi a lui, coglievi nella sua físonomia equivoca e forzata un’aria d’impersuaso piú disposto a riderne che ad intenerirsene. Parea volesse dire: sará ottimo, ma c’intendo poco. Talora ricapitolando le impressioni dei giovani e improvvisando io un giudizio, che non mi finiva, guardava a lui, che mi faceva un’alzata d’occhio, e dicevo fra me: ha ragione. La sua percezione era cosí sicura, che né regole, né usi, né opinioni ci potevano, e rimaneva sempre a galla sulla sua físonomia.

La sua voce dissipava dalle fronti quella nube, e tirava tutti nel vivo e nel vero. Non che egli pretendesse di gareggiare co’ compagni in quel genere di argomenti, anzi se ne scusava, ci capiva poco. Andava lá dove lo tirava natura, faceva racconti a effetto irresistibile, dove contraffaceva e caricava, il riso era sulla faccia prima che spuntasse, pareva una festa. Facevano un gran bene questi lavori, ne’ quali aveva compagni Vertunni e Siniscalchi, lasciando nella scuola una impressione sana e vera.

Il suo dire fin da quel tempo aveva tutte le qualitá che lo resero poi potentissimo nel Foro. Se non sempre corretto, era sempre caldo e rapido e colorito, espressione immediata di quel di dentro. La vita espansiva e impetuosa non gli permetteva indugiarsi nella frase e nella maniera, e si rivelava rapidamente di cosa in cosa, piena e sintetica, piú come azione che come parola. In tanta leggerezza di argomenti metteva tutta l’attivitá e tutta la serietá del suo spirito. Lo festeggiavano, lo applaudivano, lo predicavano insuperabile in quelle sue caricature. Ridevano a tenersi i fianchi. E non vedevano quante serie qualitá concorrevano a produrre quel riso, e come sotto a quella apparenza leggiera c’era giá la stoffa dell’oratore e dell’uomo d’azione.

A me piace intrattenermi con questo mio Diomede, cosí come mi è pinto nella memoria. Oramai sono in un tempo della vita, che le cose mi errano intorno come fantasmi, e i piú belli e i pili cari sono i fantasmi della mia giovinezza cosí vivi e tenaci, e non so staccarmi da loro. [p. 256 modifica]

Quell’uomo allegro, vano de’ suoi capelli, come una fanciulla, tutto gesto e movimento, che ti dominava co’ raggi dell’occhio, cosí infiammabile e cosí placabile, era il confidente universale. Non so come, ma sapeva tutte le intimitá, tutti i segreti, partecipe de’ piaceri e degli affanni altrui, come fossero suoi, era a ciascuno il suo altro. Natura schietta e calda ispirava la fiducia, e guadagnava l’amicizia.

Scarso era in lui quel potente laboratorio che si chiama l’immaginazione, e scarsa quella vita intensa dell’anima con se stessa che si chiama la meditazione.

Le anime poetiche e speculative si appassionano non delle cose, ma delle loro ombre e idee, e godono del fantasma, e, pur che quello duri, altro non chiedono. Nella sua povera cameretta il poeta è piú felice immaginando palagi incantati, che i re nelle reggie. I suoi ideali sono l’ultimo termine della sua felicitá, e vi si appaga, pur come fossero cose, e pensando, contemplando, vi consuma intorno il cuore e il cervello. A Diomede soprabbondava il pensiero e l’affetto, ma ebbe sempre poca dimestichezza con le ombre e le astrazioni, e in una scuola di alte speculazioni, assentiva talora, non era persuaso. Fidava piú nel suo buon senso e nella sua intuizione veramente meravigliosa. Voleva vederci chiaro, diceva talvolta. Hegel soprattutto non gli entrò mai nel capo.

Il suo pensiero aveva piú spirito che profonditá, e non cercava la generalitá, anzi in quelle altissime regioni sentiva freddo, e calava subito al particolare, e se lo appropriava e lo possedeva tutto. Riceveva le impressioni profondamente, e le rendeva non come immagini e idee, ma come oggetti vivi. L’ho udito talora a dire con un certo sentimento di orgoglio che egli animava gli oggetti, fossero pure aride cifre. E voleva dire ch’egli ci si metteva al di sopra, e gl’intendeva, e dava a quelli un senso. Ciò ch’era pure una generalitá, ma immediata, derivata dagli stessi oggetti, e viva in loro, sicché era una con quelli, e, com’egli diceva, l’anima di quelli. Questa elaborazione degli oggetti che gli veniva non da preconcetti o da principii remoti, ma dalla sua naturale e immediata apprensione era la sua originalitá, o come si dice, il suo ingegno. Ond’è che tutto gli veniva fuori [p. 257 modifica]preciso, in forma chiara e semplice, subitanea com’è lo spirito, e calda com’è l’eloquenza, sempre spontanea. Non m’è accaduto mai di notare ne’ suoi scritti ombra di sottigliezza o di nebulositá o di stagnazione, perché non si raffreddava mai, non vagava nel vuoto, lá dentro ci stava sempre lui, e sempre caldo e potente. Era uno scrivere animato, per usare il vocabolo suo favorito, simile al suo volto tutto sangue e tutto moto, dove stava sempre affacciata la sua rigogliosa vita interiore.

Il calore gli veniva pure dalla forza straordinaria del suo affetto, alla quale non era mestieri malia di immaginazione e correva diritta alle cose, e in quelle cercava il suo appagamento. Il cuore indugiava cosí poco ne’ lenocinii della passione, come il pensiero indugiava poco nelle frasi e nelle eleganze. Perciò il suo affetto non distratto e non ritardato era piò profondo e più. potente, e non si appagava che nell’azione. Amava seriamente e semplicemente, come l’amore fosse una religione o una vocazione. Perciò ebbe fin da quel tempo amici che gli rimasero legati per la vita, e non so di nessuno ch’egli abbia dimenticato. Le amicizie profonde e singolari prodotte non da conformitá intellettuale ma da vicinanza di cuori sono rarissime. Tale era la sua amicizia con De Meis, con De Luca, con Vertunni, con Morelli. Si figuri la moglie, donna superiore, che intendeva e apprezzava quel tesoro, e notava tutte le delicatezze di un affetto sempre nuovo e sempre uguale. Gli usci detto una volta ch’egli studiava a temperare la violenza della sua natura e a purgarsi di qualche difetto per ben comparire innanzi alla sua compagna.

Ben comparire era un altro de’ suoi vocaboli, o piuttosto la febbre del ben comparire, perché in quel cuore cosí caldo tutto aveva violenza di febbre. Bisogna aver la febbre del ben comparire, diceva ai suoi impiegati. E la febbre l’aveva prima lui. Né ci era minimo ufficio, dov’egli non mettesse tutta quella sua febbre d’azione. L’avvocato, il medico, il magistrato pigliano a poco a poco l’abito dell’ufficio, e quella prima febbre della gioventú cede sino alla indifferenza. Diomede rimase sempre giovane, sempre sulla breccia in atto di combattere. Non dava tregua a sé, non dava tregua agli altri. Il suo calore aveva [p. 258 modifica]una forza di espansione, che si comunicava a tutto, dava impulso a tutti. Non gli bastava fare il suo dovere, voleva farlo mettendoci dentro tutta la sua vita, consumandovi tutta la sua forza. Questo era quello ch’egli chiamava la febbre del ben comparire.

I discorsi annuali di apertura diventano per il magistrato un esercizio abituale di dottrina, e a lui toccò di farne parecchi. Ma ciascuna volta era come la prima volta e gli metteva in tumulto tutta l’esistenza. Giorni di martirio coronati dal trionfo. Perché a lui non bastava il successo, voleva il trionfo. Un suo discorso doveva essere un avvenimento, con effetto eguale alla intensitá e potenza di volontá che ci aveva messo dentro. Chi tenesse conto di tutte le emozioni e le ansietá di quei giorni, potrebbe dire che in ciascuno di quei trionfi egli lasciava una parte della sua vita. Pure quali magnifici trionfi! Vid’io vecchi senatori fuori di sé, quando tuonava contro Persano, e dicevano: mai non s’è visto tanto entusiasmo. Ma l’entusiasmo abbrevia la vita, e quel discorso fu piú micidiale a lui che a Persano. Costui vive ancora.

Si capisce dunque perché quel suo scrivere era sempre animato. Gli è che c’era colá dentro non solo tutta la serietá dell’ingegno, ma tutta la potenza dell’affetto, o per dir meglio, il cuore era parte del suo ingegno, e lo scaldava, gli dava l’anima. Perciò il suo discorso commoveva. Giá a sentirglielo dire con quella voce concitata, con quell’accento vibrato, eri commosso e non sapevi ancora di che. Quell’uomo li non ti permetteva l’indifferenza e non la distrazione, e ti comandava, e ti tirava, s’impossessava di te. Quel calore che metteva nelle sue azioni, metteva nelle sue parole, e ti faceva venire la sua febbre, o parlasse a Maria, la figliuola di Scialoja, o alle fanciulle de’ Miracoli, o al Consiglio Comunale, o a Magistrati e Avvocati.

L’ultimo suo discorso fu il canto del cigno. In un paese dove non è ben chiara la linea che separa la mediocritá dall’ingegno, e dove la maggior trafittura è di veder gli stessi applausi e le stesse lodi che a te largite ad uomini su cui ti senti si alto, avvenne quel di qualcosa d’insolito. L’aspettazione era [p. 259 modifica]grande; il successo avanzò ogni aspettazione. Fu un impeto di applausi, una commozione, in mezzo alla quale cadde colpito da sincope il piú commosso di tutti, l’oratore. E non tornò piú. E non lo videro piú che sulla bara.

Vita breve ma piú lunga di molte vite decrepite, se la vita si misura non dal tempo ma dalla sua intensitá. Il piacere e il dolore producevano su di lui impressioni troppo vive: il reale lo pungeva troppo coi suoi inganni e i suoi disinganni: fino un articolo scortese di giornale era per lui un avvenimento, e gli accelerava i battiti della vita. Perché il povero Diomede non immaginava niente come immaginario; quello che immaginava era quello che voleva e si sentiva la forza di acquistare; e la sua forza era grande, e grandi erano i desiderii; a quella vita cosí piena bisognavano tutti i godimenti della vita. Nell’esilio spesso lo vedevo triste di cosa che a me non passava pur la pelle. E ti par poco? gli scappò un giorno: non avere un cane che mi spazzoli. Tutto ciò che immaginava era bello, elegante, grandioso, ricco: il dolore della privazione saliva sino all’altezza del suo desiderio. Molti nell’esilio erano detti martiri, che si sentivano felici, io per il primo che vedevo nuovi cieli, e quasi non avvertivo le privazioni; il vero martire fu lui, che ruggiva, come un leone, tra quegli ozii e que’ lavori forzati e quelle indegne miserie. Pur venne il di. E la fortuna gli andò incontro col suo piú bel sorriso, e si lasciò prendere, come una fata, e gli appagò tutti i desiderii. Com’era contento! Che bel lusso era il suo tra amici e artisti accanto alla donna amata! Che gusto e che eleganza nella ricchezza! Il suo salotto era una poesia. E come ci stava bene lui, come ci troneggiava! Prendeva aria di protagonista, amava il potere, come uomo di azione, e lo usava bene, e lo godeva, gl’illuminava quel sentimento in lui cosí vivo della dignitá personale. Cosi passava il tempo, e la vita correva troppo veloce. E quando la ci pareva quasi ancora nel primo fiore, scomparve.

Amò troppo. Visse troppo. E non pare possibile ch’ei non ci sia. Io lo vedo sempre li innanzi a me.