La piccola Kelidonio/XVIII
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Le lettere erotiche e famigliari d'incerto autore alessandrino (1914)
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Se tu concedi che uno straniero ed uno sconosciuto il quale non possiede che sé stesso e la libertà possa manifestarti la sua ammirazione, fallo colla grazia consueta e compiaciti per lui.
Io non ti cerco né potrei del resto ricompensarti. Ma il mio elogio valga, perché di buon conoscitore e non può essere trascurato. Non voglio magnificarti oltre misura: tu non hai bisogno di corone, di cinti, d’abiti ricamati, di giojelleria per essere apprezzata, come il fumo dell’iperbole, a moltissime gratissimo, non aggiunge valore al discorso che parla di te, ma ne diminuisce la sincerità. Il giacinto indiano brilla meno della tua pupilla sotto l’arcata d’oro del sopracilio, per quanto sia oscuro ed insieme più lucido delle onde del mare baciate dalla luna: cristallo ed alabastro t’invidiano il caldo e flavo nitore delle membra: la tua bocca si apre come una piccola coppa vermiglia quando sospira e parla. A che chiamare in paragone il marmo di Paros, uscito dallo scarpello di Parrhasios, per esprimere la bella armonia, la soda compostezza del tuo corpo tutto? E Thitis che si bagna tutto il giorno con Okeanos e gli sta seduta in grembo, ma che all’aurora ed al vespero ne sorge e si scioglie dalle braccia dello sposo, vergognosetta a passeggiar sulla spiaggia, mentre le sue coscie rabbrividiscono ed ondeggiano mollemente come la superfice dell’acque sue materne in calma; e si cuopre dell’una mano il seno, dell’altra il sesso, ma tanto quanto due piccole foglie di platano possono fare sì che da l’una emergono le poma turgide e dall’altra un ricciuto e basso muschio pudico; Thitis dalle guancie purpuree ha desiderato che tua madre a sua imagine ti componesse i piedini.
Sei così, Kelidonio, tutta bella e tutta pura: sei ballatrice perfetta, mima squisita, ed arciera esimia: sento tutt’ora battere la cappella di bronzo sulla testa di Manes ogni qual volta tu gettavi il vino nel kóttabo, e rivedo ancora nella memoria tra l’alone croceo dei veli emergere il globo dell’omero vittorioso, come la luna che naviga piena e rotonda di estate in cielo, se tu tendevi il braccio e riversavi dalle ankyle lo zampillo porpureo e sicuro, scoppiando pel tuo buon augurio come un petalo di papavero tra palma e palma, per caso.
E se ancora, tu concedi che uno straniero, uomo libero ed orgoglioso da che elesse la povera filosofia alla pasciuta schiavitù di un vecchio avaro fastidioso, possa ricordarti ringraziandoti di un dono preziosissimo che tu gli hai fatto senza saperlo, abbiti una sua lunga riconoscenza. Perché egli dormiva, ed una fauna che ti somigliava, il tuo secondo e duplice aspetto ch’Isis esprime di ogni corpo vivo, e durante la notte di ogni giorno, e durante la notte continua della morte, conducendolo e riconducendolo dal cielo alla terra, come fa la Bari sacra, da Alessandria a Campo, nei dì del rito col mistagogo; codesta tua rappresentazione in sogno gli sdrajò in letto a fianco. Qui ridendo e folleggiando l’ha compiaciuto godendo insieme finché un genietto tristo e geloso che pur di notte s’imbosca vigilando a mio danno, coll’imitar il canto del gallo non ingannò l’alba ad aprire con maggior sollecitudine le porte di madreperla in cielo, onde fu in breve l’aurora, a mio dispetto fugando le fantasime. L’ombra si era dissolta e le cure della vita cotidiana ripresero a tormentarmi. E tu mi perdoni? Certo, Kelidonio, se dormendo non ci potessero ricreare questi sogni; se, sveglio, il profumo ed il colore di una rosa; il lampo bianco o rosso di un sorriso; il sole che va a bagnarsi nel mare, il primo raggio di porpora sulla Akropoli; il lauro verde canoro in sulla sera della virtuosità di un usignuolo; l’ira di una bella vergine infiammata di passione; la gajetta pelle di un gatto russante sdrajato sopra il marmo caldo del sedile a mezzo dì, ed i versi di Pindaro, come Adriano di Tiro li sapeva declamare, non fossero mai stati per noi, la vita sarebbe tale faccenda da non essere compatita.
Saggio è Eraclito, il tenebroso che piange dice l’uomo un iddio mortale ed il secolo un bimbo che scherza e giuoca a dama, e corre via all’impazzata: saggio è Democrito che gli si fa incontro a ridere di tutto e di tutti, perché ogni cosa è vuota, concorso d’atomi vuoti ed immensità, fumi che il nostro spirito condensa come gli conviene; e ciascun gesto è una ridicola fatica nell’aria per ridicola vanità: saggio è chi come Crisippo vede e studia il di fuori ed il di dentro l’essoterico e l’esoterico, li compone e li distingue e ne fa la sua scienza sottile gabbandosi del mondo; ma se tu bevi al fresco, sotto una spessa pergola, vino di Chios, in una murra delicata di forma e d’intaglio, ed odi la canzone di un nautico sapiente, e colli occhi socchiusi vai palpeggiando un corpo fresco e profumato di giovane, che ti stia vicino; e discorrendo di nuvole, di ragne e di venti con parole scintillanti ed argentate cerchi imagini e paradossi e svolgi collo indimostrabile sillogismo tutte le più impensate composizioni di idee, l’una districando l’altra confondendo, ed in quel mezzo della pazzia di ognuno di noi, la tua compresa, tu sei l’uomo più saggio che esista.
Ma lasciamo andare, non curarti delle mie ciancie tu che sei presso alla felicità e puoi vincere li immortali se fai culto della tua bellezza. Fossi ricco, e questa mattina avresti fiori. Intreccierei il garofano bianco al tenero narciso coi mirti perenni, ed il gilio che ride nel suo cuor d’oro collo zafferano incandescente come una viva fiamma; o il jacinto violaceo colle rose turgide ch’Eros ribacia ed invermiglia: e farebbero corona. Ma hai tu bisogno, sopra il sole raggiante della tua capigliatura, smalti effimeri di fiori che impallidiscono al paragone, che non durano e che presto l’oscurano ritornando polvere morta? Perdonami e grazie, Kelidonio.