La piccola Kelidonio/XIX
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Le lettere erotiche e famigliari d'incerto autore alessandrino (1914)
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No, Kelidonio, no; tu sei cruda e barbara come l’uccello di Prometeo nell’eterna tortura sanguinosa; no, codesta lunga ed oscura vita straziata d’angoscia è più terribile della morte! Perché non rispondi? Perché disprezzandomi non mi fai morto d’un tratto? Ho nelle vene un fuoco che mi divora: i miei occhi si fanno cavi e le nere insonnie mi tolgono la pace: un nodo sale e scende dallo stomaco alla gola come una palla di rame e non mi lascia respirare e mi soffoca. Verrai, quando la maschera dorata di sicomoro mi ricoprirà il volto, ed il corpo sarà tutto fasciato di bende, affatturato sarà, immobile come una statua d’argilla di cui mi avranno riempito il ventre; verrai allora, mentre le donne mi piangeranno, ed i miei schiavi saranno in lutto, e le mie barche nel porto terranno le vele floscie ed i remi sul fondo facendo sventolare all’aria pigra le banderuole nere, verrai a saziarti li occhi sarcastici nella mia morte e dell’opera tua?
Tutti che mi incontrano si meravigliano della mia magrezza: «Che hai? Che hai fatto?». Chiedono. «Quale Iddio ti perseguita? Quale sciagura ti ha colto? Quale filtro di maga tessala hai bevuto per essere così magro, giallo e sospiroso?». E l’uno: «Perché ti lamenti?». Ed io: «Amo!» E l’altro: «Chi?» E rispondo: «La perfezione di tutte le bellezze: io fui con lei a festino ed abbiamo seduto sul medesimo lettuccio; ed abbiamo bevuto alla stessa coppa; ed ella mi ha preso per sempre». E tutti allora: «Ed ora che vuoi? La cosa è semplice, ella è ragazza che va a festino; slaccia i cordoni della borsa e non far l’avaro». – «Che mi fa? Non è questo che voglio. Voglio un amore grande, lungo e misterioso, com’ella è misteriosa e perfetta a’ miei occhi». E quelli ridono e mi stimano demente.
Abbia pietà, Kelidonio! In ogni vasca d’acqua cheta e limpida, in ogni ruota di cristallo, in ogni specchio, nella coppa in cui bevo, io ti vedo, costantemente. Dicesi che l’uomo morso da un cane in furore vegga in ogni pozza di stagno l’imagine della bestia del cui veleno muore. Oh l’amore arrabbiato; s’io muojo di te! Nel mare, nel ruscello, nelle fiamme, nelli occhi di tutti, io ti vedo, ti vedo. Salvami, salva un uomo che già batte alle porte dell’Hades; conservagli quel poco di vita che gli rimane.
Che posso io dirti, che ti posso io dare ancora, che già non ti abbia detto, che tutto non sia già tuo? Ti mando fiori: e la coppa che ne riceve i gambi e li rinfresca nell’acqua è quella che ha raccolto le mie lagrime amare e che porta i segni della mia febre, sull’orlo, quando i denti la mordono, per non lasciarsi sfuggire il grido disperato della mia passione. E fiori e vaso sono per te. Sottile lastra di metallo un giorno, al fuoco battuta dal paziente martello dell’artefice, assapora labra più dolce del miele e succhiale se puoi: infondi in quella bocca il sapore del mio pianto e l’ardenza del mio sofrire.
Kelidonio, se mi vuoi, rimanda la tazza, ed in giro annòdala di un tuo capello d’oro e di un filo di lana scarlatta.